
Jafar Panahi, il pluripremiato regista iraniano autore di film come Il cerchio, vincitore del festival di Venezia nel 2000, è stato condannato nel suo paese a sei anni di reclusione e a venti di interdizione dall’attività di regista, con una sentenza confermata durante il processo d’appello del 15 ottobre 2011. In Iran oggi la libertà di espressione politica ma anche artistica è violata con minacce, arresti e torture da parte del regime, una repressione inaspritasi all’indomani delle elezioni del 2009, quando le piazze di Teheran sono state invase da migliaia di giovani e di donne che protestavano contro la rielezione dell’integralista Mahmouhd Ahmadinejād e la sconfitta del riformista Mir Hossein Moussavi che aveva denunciato anomalie e brogli. Contro questa situazione, in Italia, si muove da anni l’attività di Ahmad Rafat, giornalista italo-iraniano promotore di molte iniziative in difesa della libertà di espressione e dei diritti umani in Iran dove, nel mirino della repressione della Repubblica Islamica negli ultimi anni sono finiti il cinema e i cineasti come Panahi, il cui caso è il più eclatante tra i numerosi denunciati da Rafat.
Parliamo innanzitutto della situazione attuale di Panahi.
«Al momento la condanna definitiva non è stata ufficialmente comunicata a Panahi, pertanto egli è ancora nella sua casa di Teheran. La condanna conferma comunque sei anni di reclusione e vent’anni di interdizione a fare, scrivere o partecipare a film in qualsiasi veste, a incontrare la stampa e concedere interviste. Gli è stato ribadito inoltre il divieto per vent’anni di lasciare il Paese se non per recarsi in pellegrinaggio a La Mecca in Arabia Saudita».
Quale è l’accusa rivolta a Jafar Panahi ?
«Veramente non c’è un’accusa. Jafar Panahi è stato arrestato il 2 marzo 2010 insieme ad altre persone mentre erano a casa sua a cena e discutevano dell’idea di fare un film sul dopo elezioni presidenziali del 2009, c’è stata un’irruzione della polizia che ha arrestato e portato via tutti, solo alcuni sono stati liberati nei giorni successivi, mentre Jafar Panahi e Mohammad Rassoulof, un altro regista iraniano, sono stati trattenuti in carcere per diversi mesi. Si tratta pertanto di un processo alle intenzioni, un fatto senza precedenti per lo stesso Iran dove altri registi sono stati arrestati per aver fatto un film e mai per voler fare un film».
Altri registi ed artisti sono oggetto della repressione di questo regime, li vuole ricordare?
«Uno è Mohammad Rassoulof, l’altro imputato di questo processo, che era stato condannato a sei anni, ma recentemente la sua condanna è stata ridotta a un anno. Sono inoltre attualmente in carcere l’attore Ramin Parchami, per aver partecipato alle manifestazioni, e l’attrice Marzieh Vafamehr per aver preso parte, nel ruolo di protagonista, a un film che era stato autorizzato e girato legalmente in Iran, solo che il presidente del tribunale, che l’ha condannata a un anno di reclusione e a 90 frustate in pubblico, ha sconfessato l’autorizzazione precedentemente rilasciata, definendola inopportuna. Pertanto è ormai diventato un rischio anche partecipare a film già autorizzati dal regime.
Attualmente, i registi in carcere sono tre, tra questi vi è Mojtaba Mirtahmasb, che ha girato a casa di Panahi e insieme a lui This is not a film, il film ambientato appunto all’interno dell’abitazione di Panahi. Mentre sono invece in attesa di giudizio un regista e due attrici, e molti artisti che lavoravano in ambito cinematografico si sono trasferiti all’estero, come la famiglia Makhmalbaf. Sono tutti registi pluripremiati nel mondo tra cui Bahman Ghobadi del quale è uscito recentemente in Italia I gatti persiani, tutti loro sono stati costretti a trasferirsi all’estero per poter continuare a lavorare come registi».
L’Iran è dal 1979, anno della rivoluzione islamica e di cacciata dello scià, una repubblica islamica. Le accuse rivolte a questi registi si ammantano di violazione della legge islamica?
«In parte sì, in parte si tratta però di autoritarismo duro e puro, nel senso che spesso nei processi non vengono rispettati neppure il codice penale o la costituzione iraniana, che ad esempio non dispone che vi sia alcuna autorizzazione preventiva per fare manifestazioni pubbliche. Ciò nonostante molti manifestanti sono finiti in carcere e qualcuno addirittura impiccato.
Non è dunque questione di quali leggi vengono applicate, ma del fatto che non vengono applicate e basta. È vero comunque che alcune leggi si ispirano al Corano e altre al sistema giuridico laico. In Iran esiste una forte contraddizione tra una società civile molto forte, laica e moderna ed un governo che si ispira a leggi di quattordici secoli fa, e tale contraddizione emerge in ogni aspetto della vita quotidiana».
La cosa più evidente in Europa della situazione in Iran è la condizione delle donne che vengono sempre ritratte, a emblema di questo sistema repressivo, con il capo coperto dal velo.
«Questa contraddizione tra antico e moderno rispetto alla condizione delle donne è ancora più forte e stridente. È vero che in Iran la legge impone alla donna di coprirsi il capo ma allo stesso tempo l’Iran è un paese che ha più registe donne degli Stati Uniti, che ha campionesse mondiali in varie discipline sportive, che ha un numero infinito di pittrici e scrittrici ed è forse l’unico paese al mondo che ha le “quote azzurre”, nel senso che la presenza universitaria femminile è arrivata a numeri tali che il governo, per porre rimedio a questa situazione, ha approvato una legge secondo cui il 45% delle presenze all’università deve essere riservato agli uomini. Le donne hanno un tale coraggio e una tale determinazione per cui sono di fatto alla guida del movimento di protesta, nelle manifestazioni post elettorali del 2009 si è vista una grande presenza di donne in piazza. Non è un caso che il tragico simbolo di quelle manifestazioni sia proprio una donna, Neda, una ragazza di 27 anni uccisa quasi in diretta televisiva, la cui immagine è oggi emblema di questa lotta per il cambiamento».
Qual è la posizione dell’Iran nella geopolitica internazionale e mediorientale in particolare?
«L’Iran è stato, prima della rivoluzione, il paese guida e di riferimento per l’intera regione, infatti il regime dello scià veniva definito “mini imperialista” poiché di fatto controllava l’intera area. Questa posizione si è persa col tempo, dopo la rivoluzione del ‘79, e adesso il paese tenta di riconquistarla senza di fatto riuscirci, cercando di imporsi attraverso alcuni movimenti armati come Hezbollah e Hamas, e alleandosi con l’altro regime della regione, anch’esso al momento in grande difficoltà, che è la Siria. Il crollo della Siria, vista le continue manifestazione di protesta che stanno attraversando ora il paese, potrebbe colpire fortemente la posizione iraniana nella regione, posizione resa ancor più debole dall’emergere di un paese come la Turchia che propone un altro modello islamico, quello di un islam moderato, membro della Nato, che collabora con l’occidente e che vuole entrare nell’Unione europea; è proprio questo l’islam che oggi trova maggiore sostegno nella regione, non l’islam iraniano, isolato, chiuso ed in guerra con tutti».
L’Iran, un popolo non arabo, che parla la lingua farsi, rivendica orgogliosamente le proprie tradizioni ma che allo stesso tempo studia l’arabo per leggere il Corano e cerca di essere l’emblema dell’islamismo…
«Gli iraniani sono molto fieri del loro glorioso passato che vanta settemila anni di storia. L’imposizione di una religione, di un linguaggio e di un modo di pensare di origine araba non piace alla maggioranza degli iraniani, tant’è che anche l’islam iraniano, sciita, è diverso da quello diffuso nella maggior parte del mondo arabo, che è sunnita; questo perchè anche sul piano religioso gli iraniani hanno cercato di creare un proprio filone.
Oggi, con il fatto che la religione si è imposta così fortemente nella vita quotidiana della gente, c’è un più diffuso rifiuto della tradizione araba, al punto che anche la lingua sta cambiando e la si sta ripulendo dalle parole arabe, cosa che non sarebbe mai avvenuta prima della rivoluzione islamica».
Come guarda l’Iran alla rivoluzioni ed alle trasformazioni che stanno attraversando il mondo arabo e l’area del Maghreb in particolare?
«Se uno guarda la televisione statale iraniana, tutto ciò che succede nei paesi arabi in rivolta ma anche le proteste in occidente, come le manifestazioni di pochi giorni fa a Londra o a Roma, è tutto effetto della rivoluzione islamica del 1979 in Iran. Ma a parte questa attività di propaganda, è vero che il governo iraniano è deluso perché pensava che un islamismo filo iraniano avrebbe influenzato questa primavera araba, in effetti c’è una forte presenza di gruppi islamici che però guardano, come dicevo prima, molto di più alla Turchia come modello da seguire».
I giovani in Iran sono realmente una forza di trasformazione, almeno potenziale?
«Certo. Lo sono per forza, per forza dei numeri visto che il settanta per cento della popolazione iraniana è al di sotto dei trent’anni e tutto quanto accadrà nel paese domani sarà governato da questi giovani che, grazie anche a internet e alla tv satellitare, si confrontano con i propri coetanei del resto del mondo e desiderano condividere con loro, nel bene e nel male, mentalità e stili di vita».
Due ipotesi ottimistiche su come si può risolvere la questione Jafar Panahi e la questione più generale dello stato iraniano
«Per Jafar Panhai vorrei tanto essere ottimista perché è un caro amico, ma non ho alcun elemento per esserlo se non che la solidarietà e le pressioni internazionali raggiungano un tale livello da costringere il regime a fargli trascorrere in casa questi sei anni di pena. Sulla questione nazionale, la rivoluzione islamica è stata caratterizzata sin dall’inizio da una politica definita in Iran del “dividi per due”, ovvero circa ogni anno una parte di coloro che hanno fatto la rivoluzione sono stati esclusi dal gioco politico, prima la sinistra, poi le forze laiche, le nazionaliste, l’islam moderato e i riformisti. Oggi sono rimasti solo i conservatori che a loro volta stanno vivendo uno scontro al loro interno tra una parte che fa capo al presidente della repubblica e l’altra alla guida suprema Ali Khamenei; quando questo scontro sarà divenuto così forte da far prevalere l’uno sull’altro, a quel punto sarà veramente la fine delle repubblica Islamica, perché resterà a potere una minoranza troppo esigua per poter governare il paese». (maurizio braucci / maria cristina basso)
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