Nel deprimente orizzonte della scena musicale live napoletana, un deserto radioattivo mitigato da una manciata di piccole oasi che si contano sulle dita di una mano, c’è una tribù nomade tradizionalmente marginale, quella della musica sperimentale e dell’improvvisazione non convenzionale, che negli ultimi anni, e anche nella crisi acuta post-Covid, è riuscita a tracciare delle rotte sotterranee attraverso una piccola rete di realtà ospitali. Tra queste, un po’ insospettabilmente, un luogo centrale nella storia della musica a Napoli: gli ex studi di registrazione della Phonotype, sancta sanctorum della canzone partenopea, luogo di nascita di una tra le più antiche etichette italiane e di centinaia di dischi con nomi come Caruso, Carosone e Murolo.
Terminata l’epopea Phonotype, lo spazio rinasce come Auditorium Novecento, studio di registrazione e, oggi, una delle poche, resistenti, sale da concerto della città. È una delle curiose convergenze che possono capitare in un territorio musicalmente impoverito, che alla siccità risponde con riassetti inediti: in un’altra città, un posto come l’Auditorium Novecento avrebbe potuto specializzarsi in un altro senso, magari anche diventare uno scenario per la nostalgia più stantia, campando sui fantasmi di Caruso e Bruni; a Napoli, invece, finisce per ospitare un po’ di tutto, dai tour delle rock band indipendenti italiane alle apparizioni di musicisti di calibro internazionale come Alain Johannes, fino a diventare un punto focale della scena sperimentale; un incontro in parte dettato dalle circostanze e in cui però non è difficile vedere un senso e un’azione ri-significanti.
L’Auditorium è infatti la nuova casa delle jam del Crossroads Improring, appuntamento dell’impro trasversale nato anni orsono nel compianto Cellar Theory, che pure in questa nuova incarnazione sta raccogliendo ogni settimana un buon afflusso di musicisti, veterani e non, ma anche di pubblico. Un centro gravitazionale che inizia a generare convergenze ulteriori, diventando tappa di una rassegna organizzata da Sonic Alliances, realtà dell’improvvisazione non convenzionale napoletana che, dopo qualche lustro di attività, è arrivata recentemente a presentare il suo primo disco proprio all’Auditorium insieme a Virginia Genta e Luciana Rizzo.
Adesso l’Alleanza Sonica si è fatta promotrice della calata campana di Ken Vandermark e Christof Kurzmann, due nomi probabilmente non estranei a chi segue i sommovimenti della musica improvvisata. Il primo, sassofonista statunitense noto soprattutto per aver militato in formazioni come i The Vandermark Five e i The Flying Luttenbachers, protagonisti della scena crossover/jazz di Chicago. L’altro, sperimentatore digitale austriaco, macchine e voce in collaborazioni con nomi come Mats Gustafsson, Toto Alvarez e Sofia Jernberg.
Insieme fanno coppia stabile dal 2009 e suonano tanto in giro, ma è la prima volta che capitano in Campania. Per l’occasione, non una semplice data ma un mini tour-incontro di cinque date: le prime tre con i Sonic Alliances all’Auditorium Novecento, nella cripta del duomo di Avellino, alle Cantine Mustilli di Sant’Agata dei Goti, infine al Piccolo Teatro del Giullare di Salerno con Gabriele Pagliano e Lucio Miele.
PAROLE E MUSICA
L’episodio napoletano comincia il giorno prima del concerto con una chiacchierata insieme al duo, condotta da Mario dei Sonic Alliances e Mimmo_SEC da Gomma Lacca Records, antro del disco aperto da qualche mese a via Tarsia. Al centro, storie e linguaggi musicali dei due, ma soprattutto l’esperienza del mestiere di musicista, oggi, nell’epoca dei servizi streaming e all’indomani della pandemia. Una vita on the road che è il piacere di conoscere, la stanchezza di passare mesi fuori casa, ma anche l’accortezza di calcolare al dettaglio spese e tragitti per saggiare la sostenibilità di un mestiere sempre più difficile da sostenere.
Un mestiere che è soprattutto la professionalizzazione di un fatto, la musica, che come ci ricorda Kurzmann è eminentemente sociale. Ed è qui che il meccanismo rischia di incepparsi, adesso che i colossi dello streaming estraggono valore dai musicisti in cambio di oboli minimali, viaggiare sta diventando più difficile rispetto a pochissimi anni fa, l’accesso alle sale prova e studi è sempre più proibitivo e le possibilità di connessione infinite di quest’epoca sembrano risolversi in un grosso isolamento.
L’invito dei due allora è a provare ogni modalità possibile per mettere insieme le energie: dall’utilizzo della Rete come strumento di connessione tra musicisti e realtà distanti fino alla condivisione di spazi per provare e suonare, in fitto, in occupazione o altro, e alla rimodulazione dei tour su base più locale, prediligendo, rispetto al flipper di voli tra grandi città, giri approfonditi di un territorio e occasioni per entrare davvero in contatto con il tessuto locale.
Per chi si è fatto salire la voglia di musica, la serata continua all’Auditorium per il Crossroads Improring.
Per gli altri, l’appuntamento è il giorno dopo allo stesso posto. Mercoledì 12 sera la sala dell’ex studio di registrazione è già piena quando sul palco salgono i quattro Alleanza Sonica. Nome altisonante che rende bene l’eterogeneità delle biografie dell’ensemble che raccoglie Peppe Vietri (oggetti amplificati, ance e field recording), Maurizio Chiantone (contrabbasso preparato e voce), Davide Russo (fisarmonica smantellata), Mario Gabola (acoustic/ feedback sax contralto).
Il loro set risente di tutte le influenze sedimentate nel vissuto dei musicisti: free jazz, musica concreta e ambient, musica popolare, compressi in una ventina di minuti dalla dinamica sottile e avvolgente.
La leggerezza del tocco dei quattro musicisti contrasta con l’impatto sonoro del duo Vandermark-Kurzmann: il sax fluisce in cascate di note, si arresta in lunghi suoni bassi e prolungati, destruttura fraseggi, si incaponisce in ripetizioni ostinate. Si avverte la reminiscenza dei trascorsi con i suoi The Vandermark 5 o con i The Flying Luttenbachers, un attraversamento breve e amplificato dalla critica, lo diceva lui stesso il giorno prima, che però ha consolidato la figura di Ken nel panorama delle ance radicali.
Dall’altra parte, Christoff Kurzmann, volto bonario, curvo sul laptop con gli occhiali da vista, complementare alla figura carismatica e un po’ marziale del suo collega statunitense. Dal suo computer, con pochi gesti controllati, scatena crepitìi concreti, gorgoglii digitali, bassi sub; un tappeto sonoro inquieto, un contrappunto al sax o un supporto che amplia timbricamente il suono del sassofono, arricchendolo di dettagli.
È elettronica? Anche di questo si parlava il giorno prima da Gomma Lacca Records, e la risposta è no e sì. Sicuramente è elettronico lo strumento, un laptop armato di pool, freeware open-source che funziona come network modulare per la gestione di patch auto-fabbricate di Max. Detto più profanamente, un software per utilizzare in tempo reale di matrici audio a cui possono essere assegnati infiniti suoni e comportamenti, che apre a modalità di utilizzo estremamente personali. E l’utilizzo di Ken, nonostante la vicinanza tecnica ed estetica con l’elettronica, è molto diverso, per gestualità e resa, dal meccanismo di sequenze che caratterizza buona fetta delle performance elettroniche.
Perfettamente in linea con la biografia di uno che si è avvicinato alla musica imparandone subito il valore di strumento rivoluzionario, quando i genitori comunisti sparavano Beethoven dalle casse verso la vicina chiesa come azione di disturbo metafisico, e che si è lanciato sui palchi solo quando ha incontrato sulla sua strada il pc. Uno strumento in cui vedeva lo spazio aperto di una mancanza di storia, di tecnica standardizzata, di canoni con cui confrontare le proprie insicurezze. Sempre seguendo la scuola che al virtuosismo zappiano preferiva lo spontaneismo ignorante e poetico dei Velvet Underground, sempre un passo al lato della scena elettronica a cui veniva associato.
Spontaneità è la parola chiave anche quando Kurzmann si prende la scena, cantando dolcemente su un tappeto di suoni meccanici dalle sfumature melodiche e glockenspiel, riempito dai fraseggi di Ken. Un momento che ha qualcosa delle produzioni più morbide degli Einstürzende Neubauten, sicuramente il più convenzionalmente melodico del concerto, che poi si infrange in una pioggia di suoni masticati, segnando la fine del primo segmento del primo dei due set e un momentaneo cambio di strumento tra sax e clarinetto.
La serata si chiude con una sessione di improvvisazione che vede sul palco Sonic Alliances e Kurzmann/Vandermark, nell’incontro dinamico che racchiude alla perfezione il significato di questa rassegna itinerante.
Il set collettivo sottolinea affinità e differenze tra le due formazioni, tracciando lo spettro delle possibilità di un non-genere musicale: i sassofonisti forzano lo strumento ai limiti, Mario lavorando di sottrazione con soffi e feedback, Ken su dinamiche alte, mentre i rumori digitali interagiscono con l’oggettistica e la ritmica di contrabbasso arriva dopo qualche minuto a rievocare sembianze jazz seminascoste. Un climax di ostinati e droni digitali, sovrastati da un threnos vocale senza parole e tempo, a metà tra Demetrio Stratos e la musica popolare, è l’acme del set e ne annuncia l’incipiente fine.
MUSICA NON CONVENZIONALE E TRASFORMAZIONI DEL TERRITORIO
A vedere il nutrito gruppo di persone che poco dopo lascia la sala, eterogeneo per età e stile, viene da pensare a due cose di cui si è discusso con i musicisti: innanzitutto l’attuale irrilevanza sociale della musica non convenzionale, nelle parole di Mauricio Kagel e György Lygeti; al di là del merito dell’affermazione, su cui pure ci sarebbe da discutere, se è vero che negli ultimi anni sonorità provenienti dalla musica concreta ed elettroacustica sono precipitate spesso nel pop di matrice elettronica anche mainstream o pseudo tale, c’è da constatare come in un ecosistema raccolto come quello napoletano anche pratiche che tradizionalmente sono ai margini possono acquistare un ruolo diverso.
Forse anche per questo, i conduttori della chiacchierata pubblica si chiedevano se anche la scena della musica non convenzionale potesse contribuire ai processi di trasformazione sociale e culturale dei territori. In un posto come Napoli, che vive la contraddizione di una produzione artistica commerciale e “istituzionale” totalmente deficitaria nonostante un forte processo di turistificazione, è importante che anche le realtà più contro-culturali, attive più che altro nelle zone del centro storico, si interroghino sull’effetto della produzione artistica dal vivo sulle dinamiche della città e della movida, sulla produzione di un valore sociale e artistico pronto per essere fagocitato dai meccanismi della città-divertimentificio, incapaci di produrre da sé contenuti appetibili per un certo tipo di pubblico; tuttavia, nel contesto specifico di Napoli ci sentiamo di pendere verso la visione dei due artisti, leggermente naïf ma sincera, che viene dalla prospettiva di contesti sociali nettamente differenti, dove si esprime un’offerta culturale di natura diversa, e individua nei grandi capitali e nello strapotere delle piattaforme musicali il vero propulsore della gentrification.
Non parliamo dalla stessa prospettiva di Ken e Christoff ma, a costo di dire banalità, viene spontaneo sottolineare che sottoboschi culturali come quello della musica sperimentale sono una risorsa preziosa sia per la dimensione dell’aggregazione e dell’intrattenimento che per quella della ricerca e della vitalità artistica, con la potenzialità di conciliare le due cose, per esempio portando decine di persone a sentire musica poco convenzionale in un martedì o mercoledì sera d’ottobre. (sergio sciambra)
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