Martedì 29 novembre 2022 sono state depositate le motivazioni della sentenza di primo grado del processo “Ambiente svenduto”, diciotto mesi dopo la pubblicazione del dispositivo. La natura delle condanne già si conosceva. Nel maggio 2021, la Corte d’Assise di Taranto aveva condannato, oltre a politici tra cui Vendola e Florido, gli ex proprietari, amministratori e dirigenti dell’Ilva, per vari reati tra cui concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. Quello che non si sapeva prima di martedì scorso, invece, era il percorso argomentativo dietro la decisione dei magistrati, adesso accessibile e consultabile nelle sue quasi quattromila pagine. L’analisi strettamente tecnica della sentenza spetterà ai giuristi, mentre con grande probabilità gli avvocati difensori sono già al lavoro per presentare l’appello. Allo stesso tempo, la sentenza ha riscontrato tante voci favorevoli nell’associazionismo tarantino, una su tutti quella di Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, che ha rilasciato un comunicato nel quale si legge: “L’intervento della Procura è stata una irruzione di legalità in un panorama scialbo e meschino in cui la gente perdeva fiducia nella legge fino a considerarla una pura forma”.
Questo passaggio sintetizza il complicato rapporto che negli anni si è instaurato tra la città di Taranto e le istituzioni nella gestione della questione Ilva, e il ruolo che il diritto ha svolto in tale cornice. Negli anni, la vicenda dell’Ilva è stata spesso narrata con un linguaggio giuridico. “Diritto alla salute” e “diritto al lavoro” sono espressioni che hanno rappresentato alcune tra le chiavi di lettura privilegiate per interpretare ciò che accadeva a Taranto. Spesso, se non sempre, in quella città tali diritti sono stati considerati in un rapporto conflittuale, di irriducibile esclusività, cosicché se fosse stato garantito uno, l’altro avrebbe dovuto necessariamente farsi da parte.
Negli anni la cittadinanza tarantina ha osservato le istituzioni fallire costantemente nel trovare una soluzione a questa aporia giuridica. Simbolica, a tal riguardo, la sentenza della Corte Costituzionale nel 2013. Chiamata a valutare la validità del primo decreto salva-Ilva, la Consulta argomentò che in Costituzione non possono esistere “diritti tiranni”. Non può quindi chiudersi una fabbrica che inquina, perché ciò costituirebbe la tirannia del diritto alla salute sul diritto al lavoro. E, nella lettura della Corte, tali diritti erano già correttamente bilanciati dal decreto salva-Ilva (e l’autorizzazione integrata ambientale a cui esso faceva riferimento), che pertanto dichiarava costituzionalmente valido.
Se, quindi, sul piano normativo leggi, decreti e sentenze hanno continuato a offrire soluzioni astratte alla questione tarantina, sul piano fattuale la cittadinanza ha continuato a fare i conti con la malattia e le morti, dentro e fuori la fabbrica. “O l’acciaio o la vita. Devi scegliere!”, dice un graffito sui muri del quartiere Tamburi, traducendo nel lessico quotidiano la violenza del conflitto tra diritto alla vita e diritto alla morte, che in tante parti d’Italia e del mondo sembra potersi risolvere, mentre a Taranto no.
Che la cittadinanza tarantina sia stanca di fare i conti con questo ricatto è documentato dalle tante forme di associazionismo che popolano la città, e dalla crescente mobilitazione intorno alla questione ambientale e socio-economica. Queste forme di partecipazione attiva hanno portato a proposte concrete intorno alla questione Ilva, come il Piano Taranto presentato nel 2018 da tredici diverse organizzazioni in alternativa alla vendita della fabbrica ad ArcelorMittal. La scelta del governo di vendere alla multinazionale, tuttavia, confermava ancora una volta che la soluzione del conflitto tra diritto alla vita e diritto al lavoro restava un tema sul quale avrebbero scelto le istituzioni, non i tarantini.
La sentenza “Ambiente svenduto” finalmente offre la possibilità di una lettura diversa, in quanto dalle motivazioni emerge il ruolo chiave che la cittadinanza tarantina ha avuto nel condurre i giudici alla pronuncia delle condanne. Sono gli stessi magistrati a raccontarlo, riconoscendo ad Alessandro Marescotti di essere “il primo vero impulso per le indagini di questo processo” (p. 507), e affermando che i video realizzati da Fabio Matacchiera “costituiscono formidabile prova documentale delle emissioni di Ilva” (p. 506).
La sottolineatura del ruolo della cittadinanza tarantina da parte della magistratura è un’importante svolta nella storia di Taranto perché sancisce il riconoscimento da parte di un’istituzione statale che la voce dal basso conta, e deve contare, nel processo decisionale sull’Ilva. Ed è importante evidenziare che non è un riconoscimento solo simbolico, in quanto l’impatto che la cittadinanza ha avuto sul processo è stato sostanziale. I cittadini tarantini hanno svolto un ruolo centrale nella fase istruttoria, fornendo prove documentali e testimoniali. E se le prove costituiscono gli elementi di fatto che permettono ai giudici di elaborare le loro argomentazioni giuridiche, allora significa che la sentenza della Corte d’Assise ha preso forma e contenuto anche grazie a queste pratiche di cittadinanza attiva.
Il riconoscimento pubblico di tali pratiche da parte della magistratura potrebbe essere da stimolo per un rinnovato dialogo tra la città e le istituzioni nel futuro. Nel mentre, con la pubblicazione delle motivazioni, la mobilitazione contro l’inquinamento industriale causato dall’Ilva ha ora un vocabolario espanso, arricchitosi di un successo in tribunale che dà legittimazione alla lotta.
Infine, la sentenza esprime un messaggio molto chiaro: il lavoro, così come organizzato all’Ilva sotto la gestione Riva e con il benestare delle istituzioni, ha precise e severe conseguenze penali. Tali conseguenze non sono frutto solo di scelte tecnico-giuridiche svolte da magistrati, perché alla loro determinazione possono partecipare anche i cittadini, raccogliendo prove della violenza dell’inquinamento dell’Ilva nella loro quotidianità.
Una lettura espansiva della sentenza, pertanto, permette di concludere che non ha senso ragionare in termini astratti, esclusivamente normativi, sul rapporto tra diritto alla salute e diritto al lavoro. Questo rapporto va affrontato, e risolto, “sul campo”, e se un bilanciamento mai deve esserci, esso può avvenire unicamente alla luce dei significati concreti e materiali che l’esercizio di questi diritti comporta. Altrimenti sì, si rimane con il paradosso di un diritto svuotato di significato, di una legge che è solamente “pura forma”, come dice Marescotti, ma che allo stesso tempo legittima un’attività industriale rischiosa per la salute dei cittadini e dei lavoratori. (carlo nicoli aldini)
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