Se la partitura resta muta fino alla lettura dell’esecutore, nell’era dell’incisione musicale il nome dell’interprete pesa come un macigno sulla tradizione del tramandato. In altre parole, Aniello Desiderio e la chitarra classica.
Mercoledì 18 gennaio 2017, un teatro di corte di Palazzo Reale che alla biglietteria faceva registrare un tutto esaurito non effettivo, in sala ospitava il recital chitarristico del musicista partenopeo. Mi dissero di ascoltarlo su Youtube, un po’ di anni fa. Da allora speravo di ascoltarlo di fronte, non grazie a uno schermo.
Conosco il ligio rispetto dell’organizzatore, l’ente morale associazione Alessandro Scarlatti, nei confronti della puntualità. Faccio le corse. Stavolta è stata la fila a far ritardare l’inizio: le operazioni per l’acquisto dei biglietti si sono chiuse giusto in tempo per permetterci l’ingresso poco prima che il concerto iniziasse. Prendiamo posto. Ultima fila del primo quadrante in senso orario della sala.
Le muse sorvegliano dall’alto. Il pubblico segue, in basso. Una panca per pianoforte farà da poggio ad Aniello Desiderio, classe 1971, un fuoriclasse dello strumento. Non succede molto spesso, di ascoltare la chitarra classica, sola, in concerto. Lei che ha scalzato dalle nostre case il borghese pianoforte, poche volte la ascoltiamo in quanto strumento solista. Come tale, non ha avuto la stessa sorte che lo strumento elettrificato. Come la conosciamo noi, a sei corde, compare a fine Settecento. Insigni didatti, concertisti e compositori ne hanno sviluppato la letteratura, oltre ad averne incrementato il repertorio con le trascrizioni. Storia comune a molti strumenti – si veda la storia del sassofono.
Le condizioni di ascolto della chitarra classica solista prevedono un’attenzione diversa: la pressione sonora dello strumento è altra che il solito fronte d’onda con cui sollazziamo i lobi auricolari. La sala deve essere particolarmente silenziosa.
Prima la Spagna, poi l’Italia. Il musicista sviluppa il programma a partire dalla geografia. Fosse stato per la cronologia, lo avremmo ascoltato a ritroso. La Spagna e l’Italia. Una Napoli, dunque, giallorossa. Inizia con Asturias, una trascrizione da un concerto per pianoforte di Albéniz. Può essere capitato di averla ascoltata più che altri brani del repertorio: portata alla gloria da Andrés Segovia, la sua incisione ne ha decretato la tradizione. Desiderio la riscrive. Apprezziamo la timbrica, il colore, nonché la grandezza orchestrale dello strumento solista. Pochi strumenti acustici possono permettersi tutte quelle note nello stesso momento. Ascoltarle dalla chitarra è fantastico: un ricercare le potenzialità dello strumento nella tecnologia della costruzione attraverso l’esecuzione. Poi Sevilla, dello stesso compositore spagnolo.
Il pubblico premia l’ascolto con incessanti applausi. Non durano mai meno di un minuto; si levano diversi sonori “bravo”; mancano solo i fischi di compiacimento. Poi Desiderio esegue dei brani di Turina, uno dei più significativi compositori della scuola musicale spagnola del Novecento: Sevillana fantasia e la Sonata op.61. Chiude la prima parte con la composizione più antica di tutto il programma, la Suite spagnola di Gaspar Sanz, autore di uno dei più importanti trattati per chitarra del Seicento, Introducciòn de mùsica sobre la quitarra española.
Quando termina, si alzano le luci. Tutti riprendono colore, vita. Parlano, si ritrovano, vanno a fumare, restano in sala, controllano il cellulare, giocano al cellulare, scrivono al cellulare, stanno in silenzio. Pubblico assortito per età, genere, estrazione. Tanti chitarristi in sala, ad ascoltare un musicista per loro di riferimento.
La seconda parte è di marca italiana. Riprende con tre sonate di Scarlatti. Alterna brani in cui esegue senza lo spartito, a brani in cui se ne serve esclusivamente per gettare lo sguardo, come per orientarsi in un repertorio così tante volte performato. La simbiosi con lo strumento è tutta nella respirazione: tutto si gioca nel controllo. Qualche volta rimette a posto gli occhiali, che immancabilmente gli scendono giù per il naso. Quando si prende gli applausi di rito, il fondo della chitarra riflette la luce del palco sul pubblico. Domina, per contrasto, il nero della scena, del vestiario. Posizionati di fronte a lui due microfoni direzionali, pronti a captare la sua esecuzione, e un microfono che lo amplifica leggermente. Ma non serve: il concerto non lo richiede.
Di Mauro Giuliani, chitarrista e compositore a cavallo tra diciottesimo e diciannovesimo secolo, tra Austria e Italia, esegue Rossiniana, un mix di solida costruzione formale e ispirata cantabilità. Il concerto scorre veloce.
Prima dell’ultimo pezzo, il più “contemporaneo” tra tutti, di Carlo Domeniconi, Koyunbaba op.19, saluta il pubblico: i genitori presenti in platea, l’associazione Scarlatti, i chitarristi in sala. Ricorda come vada incoraggiata la diffusione dei programmi per chitarra sola, lui che di musica ne ha suonata tanta, ascoltata di così diversa, perché si diffonda la cultura di questo strumento così poco conosciuta.
Ogni brano è preparato fisicamente dall’esecutore: stende i tendini, accorda di continuo la chitarra, strumento particolarmente sensibile nella cordiera, si concentra. Il controllo sullo strumento per questa sequenza di note derivate da un canto turco è da brividi. Uau. Quando finisce, il pubblico non si risparmia. E ne ha ben donde.
Se ne va. Torna. C’è il bis. Esegue Gnossienne n.1, di Erik Satie. (antonio mastrogiacomo)
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