Storia di Antonia. Viaggio al termine di un manicomio (Sensibili alle foglie, 2017) è l’ultimo libro di Dario Stefano Dell’Aquila e Antonio Esposito, presentato all’ex Opg di via Imbriani lo scorso venerdì, lasciando in chi c’era un misto d’inquietudine e rabbia. Non è poco, per un libro, nel mediocre show dell’editoria italiana.
L’ex Opg, occupato da qualche anno e trasformato in uno spazio sociale aperto alla città è il luogo ideale per la presentazione di un libro inserito nel percorso di due autori che indagano da tempo gli orrori del presente. La suggestione del luogo è accresciuta dalla presenza di una mimosa, piantata qualche tempo fa nel giardino dell’ex lager per “malati di mente” e dedicata proprio ad Antonia Bernardini.
Esposito e Dell’Aquila sono due ricercatori indipendenti che hanno scelto da tempo di dedicare le proprie energie a un lavoro di archeologia dell’orrore sociale. Come nel caso di questa dolorosa storia, che impregna Antonia quanto i suoi aguzzini, uomini e donne “normali”, figure banalmente infami, strumenti più o meno consapevoli della ferocia dell’organizzazione sociale. Proprio come Willem e Franz che notificano al signor K. la notizia dell’immotivato processo o i due scherani che eseguono freddamente la sentenza di morte.
La storia di Antonia Bernardini e dell’inferno dentro cui si trova per caso è raccontata dagli autori con passione e con metodo. Una storia semplice, nella sua atrocità, quella di una donna finita dentro un tritacarne giudiziario e sanitario che ha macellato fin troppe vittime innocenti e che è ancora troppo attuale per non destare inquietudine. Necessarie sono, invece, le riflessioni che scaturiscono da una presentazione densa di emozioni, impreziosita dalla presenza di una donna fragile e coraggiosa, quella figlia che una mattina di quarantaquattro anni fa ha visto sua mamma uscire di casa per non tornare mai più. “Ci legavano come Cristo in croce”, è una delle ultime cose che ha detto Antonia, per poi finire divorata da un rogo appiccato da lei stessa al materasso al quale era legata da mesi.
Sono particolarmente dolorose le suggestioni che nascono da questa lettura, tanto più se ci si trova quotidianamente a confrontarsi con l’autonomia del corpo altrui in un rapporto medico/paziente difficile e controverso. Parliamo non a caso di “mondo della medicina” e non “della psichiatria” perché la storia di Antonia pone domande urgenti, tra gli altri, a tutti gli operatori della sanità, fissando l’obiettivo su temi che poco spazio trovano nella medicina tecnologica contemporanea, come in passato scarsamente attenta al necessario protagonismo dei pazienti. Un problema sicuramente di sistema e non di individui.
Non si può non pensare, ripercorrendo questa storia, a quale sia il rapporto che medici e altri operatori, dentro un contesto orribile come quello manicomiale, abbiano avuto nei confronti della “paziente” Bernardini. Un arresto ingiustificato, basato su un dato anamnestico ridicolo come i precedenti ricoveri di Antonia per “disagio psichico”, una lunga detenzione senza processo, l’umiliazione quotidiana della contenzione. Un iter giudiziario e sanitario lungo il quale nessuno si è posto una domanda, nessuno ha provato a capire cosa stesse succedendo. Magistrati, forze dell’ordine, certo, ma anche medici, infermieri, operatori del manicomio. Nessuno. Antonia non è mai stata un soggetto e il problema principale non è la morale dei singoli ma la perversione del sistema, fondato su procedure rispetto alle quali il “corpo paziente”, sofferente per malattia o per ingiustizia, come in questo caso, impotente nella sua nudità trattenuta da infami legacci non è protagonista ma oggetto, condizione costante nella storia della medicina.
Viene da pensare, tra le tante, a due figure della lunga e controversa storia della medicina come Henry A. Cotton e Wiliam S. Halsted. Psichiatra il primo, insigne chirurgo il secondo che hanno legato la propria storia personale a orrori e conquiste che nella storia della medicina e della chirurgia sono da sempre drammaticamente confinanti.
Henry Cotton fu allievo di maestri come Alois Alzheimer e Adolf Meyer. Sulla base di osservazioni oggi incomprensibili come la presenza di allucinazioni negli stati febbrili, Cotton sviluppò una teoria secondo la quale la malattia mentale derivava dalla presenza di infezioni nascoste, in contrasto con la nascente eugenetica e le teorie di Freud. Cominciò così una drammatica serie di sperimentazioni, basate sull’asportazione dei presunti focolai infettivi dai pazienti con diagnosi di malattia mentale e anomalie del comportamento. Denti, tonsille, milze, ovaie, tratti di intestino furono asportate come terapia chirurgica per la malattia mentale. Una lunga serie di mutilazioni non sostenute da alcuna evidenza scientifica, perpetrate ai danni dei pazienti con un’elevata percentuale di mortalità dovuta al carattere pionieristico della chirurgia in era pre-antibiotica, fino a quando un altro allievo di Meyer, il dr. Phyllis Greenacre, con l’aiuto della statistica, dimostrò la fallacia di quelle teorie.
William Halsted, d’altro canto, è un nome importante della chirurgia, per la sua lunga e tormentata guerra dichiarata al cancro del seno. Dopo un periodo di formazione in Europa, alla corte di due giganti dell’epoca come Billroth e Volkmann, Halsted si dedicò, allo John Hopkins Hospital di New York, all’approccio chirurgico “radicale” per sconfiggere il cancro del seno, ritenendo che la percentuale di recidive osservate fosse legata alla presenza di tessuto tumorale residuo lasciato in sede da una chirurgia troppo superficiale. Un’idea nemmeno troppo lontana dalla realtà ma che ha significato una lunga serie di mutilazioni che si spingevano sempre più in profondità, asportando muscoli, tendini, ghiandole e organi interni in quella che l’oncologo saggista Siddharta Mukherjee ha definito una “macabra maratona” che ha lasciato sul campo migliaia di corpi mutilati senza riuscire a scalfire “l’imperatore del male”, il cancro.
Parliamo di due figure di grande autorità e rilievo – e conseguentemente di potere – la cui storia è indubbiamente gravata da enormi colpe. Eppure sarebbe un errore ricercare nella malvagità personale, nelle intenzioni di questi “operatori” come in quelle dei responsabili della tragedia di Antonia Bernardini l’origine di tutto l’orrore. È certo che la perversione e la responsabilità personale siano un elemento imprescindibile ma una riflessione che voglia aggredire all’origine il problema non può prescindere dall’assunto posto in precedenza. Il problema è il sistema. Era una persona malvagia Henry Cotton? Quale quota di misoginia spingeva Halsted a mutilare i corpi di tutte quelle donne? Erano persone cattive quelle che legavano Antonia Bernardini al letto sul quale si è lasciata morire avvolta da un rogo? A volte sì, a volte no, come recita il tormentone di un comico che prende in giro i medici in una nota trasmissione televisiva. Sicuramente agivano sul padre della chirurgia radicale pulsioni e influssi culturali propri dell’epoca, la sua idea della donna non era diversa da quella di milioni di suoi contemporanei. Agivano, sulla sua idea di medicina, molteplici fattori culturali e sociali, a parte la cocaina e la morfina, assunte regolarmente per tutto il corso della sua vita. Lo stesso si dica per Cotton, animato sicuramente anche da ambizione personale e fastidio per chi intendeva confutare i risultati delle sue procedure. In realtà, non è possibile nemmeno dire se fossero malvagi i carcerieri di Antonia, obbedienti interpreti di un sistema perverso. Sicuramente sono colpevoli tutti ma il punto non è la loro morale, secondaria anche in casi come quello del dr. Paterson, recentemente condannato per la pratica di interventi chirurgici non necessari a scopo di lucro nella civilissima Inghilterra contemporanea. Il mondo della medicina, come qualsiasi altro ambito professionale, è composto da personalità differenti, storie diverse dentro cui ci sono quelle perverse ma anche quelle di grande umanità, il fatto è che questa normale miscela di soggetti agisce dentro un meccanismo che può consentire o impedire certe procedure e determinati comportamenti. È su quel meccanismo che dobbiamo riflettere.
Negli ultimi trent’anni il mondo della sanità ha vissuto trasformazioni enormi, allo sviluppo tecnologico e scientifico ha fatto da contraltare un arretramento progressivo della sua funzione sociale che ha riportato indietro le lancette dell’orologio cancellando una lunga e faticosa storia di emancipazione e conquiste nate sull’onda del ventennio rivoluzionario che aveva cambiato la società e di riflesso la medicina. A quarant’anni dall’epocale riforma del 1978 è tempo di riflettere su questo, affrontando temi cruciali che sono, invece, drammaticamente assenti dal dibattito pubblico.
In che modo stiamo formando i nostri medici, dentro percorsi di studio nei quali è spaventosamente assente la bioetica? Quale generazione di tecnici privi di coscienza stiamo allevando? Che sistema di governo della sanità pubblica ci siamo dati, cancellando le conquiste della medicina sociale con l’aziendalizzazione della sanità? Che ruolo hanno i pazienti, veri soggetti del sistema salute, e quale i medici e gli infermieri, assorbiti dentro un sistema antidemocratico come quello aziendale? Queste sono alcune delle domande da farsi, altro che le fotografie con le formiche sui letti dei pazienti in ospedali sempre sull’orlo del collasso.
La storia di Antonia insegna forse troppe cose, diventando un simbolo di cosa sia la figura del paziente, periferica in quel 1973 che precedeva di qualche anno la Grande Riforma e ugualmente decentrata oggi. Fa paura constatare quanto questa storia sia attuale, decenni dopo un movimento culturale che voleva costruire la sanità con al centro gli esseri umani e non la tecnica o l’economia. Quel corpo avvolto dalle fiamme deve significare, oggi, l’urgenza di una riflessione collettiva sulla necessità di ricostruire le istituzioni preposte a garanzia di un diritto inalienabile. Per lasciarsi alle spalle in un futuro, si spera prossimo, quei troppi corpi “come Cristo in croce” che ancora gridano giustizia dai corridoi tristi degli ambulatori e dalla solitudine delle corsie. (antonio bove)
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