
L’accento geordie di Danny è meno ostico di quanto temessi e riusciamo a comunicare nonostante la mia lunga assenza dalla città. Parlare con un abitante di Newcastle è sempre difficile: le vocali chiuse all’estremo, il dialetto e lo slang del luogo mettono in difficoltà anche i madrelingua del resto dell’isola. «Non preoccuparti – mi rassicura quando ci incontriamo –, da quando rilascio interviste ho imparato a parlare inglese».
Danny ha una quarantina d’anni, barba e capelli rossi su un volto magro che gli danno una vaga somiglianza con il principe Harry. Tifa Newcastle da sempre, ovvero da quando suo padre lo accompagnava al vecchio campo di Benwell per vedere gli allenamenti di un giovane Gascoigne: «Era un calcio diverso, avevi un contatto anche fisico con i calciatori. Ti avvicinavano, ti accarezzavano. Gli allenamenti erano più belli della partita del sabato… anche perché il sabato erano tutti in piedi davanti a me e non vedevo nulla».
Danny fa parte di un collettivo, il Newcastle United fans against sportwashing, che protesta contro l’utilizzo del calcio in operazioni che sfruttano lo sport per ripulire l’immagine pubblica di governi o mega gruppi economici. Il collettivo nasce due anni fa, quando si comincia a parlare del possibile acquisto del Newcastle da parte degli arabi, ma molti attivisti facevano già parte di un altro movimento – ben più di massa – che per anni aveva contestato la proprietà di Mike Ashley, da tutti considerato il peggior presidente nella storia del club.
Danny entra nel gruppo nell’ottobre del 2022, in occasione della protesta fuori Saint James’ Park, prima di una gara di campionato contro il Chelsea. Nel marzo precedente, nelle stesse ore della partita tra la squadra di Londra e quella bianconera, il governo saudita aveva ordinato l’esecuzione di ottantuno prigionieri, in carcere per reati come “danno alla coesione nazionale”, “partecipazione e incitamento alla partecipazione a proteste”, “offese alle autorità”. «Quella manifestazione – spiega Danny –, insieme alle contestazioni durante le amichevoli giocate qui dalla nazionale saudita (il cui allenatore è Roberto Mancini, ndr), hanno dato voce al nostro gruppo. La visibilità sui social network è cresciuta all’improvviso e siamo riusciti a porre domande scomode, rimaste tuttavia senza risposta, a personaggi importanti della storia del club, come Shearer e l’attuale allenatore Howe».
Ma cosa c’entra la monarchia saudita con una squadra di calcio del nord-est d’Inghilterra? C’entra perché ad acquisire l’ottanta per cento del Newcastle, pagando trecentocinquanta milioni di sterline (cifra irrisoria a fronte di un patrimonio di circa seicento miliardi di dollari, frutto dei risparmi accumulati dal regno saudita sulla vendita del petrolio, che il fondo custodisce a partire dagli anni Settanta) è stato il PIF, il fondo di investimenti sovrano dell’Arabia Saudita.
Al vertice del PIF c’è Yasir Al-Rumayyann, attuale presidente non esecutivo del club e membro di vari consigli d’amministrazione tra cui quelli di Uber e SoftBank. Di fatto, però, checché ne dica la Premier League – che ha aperto e chiuso velocemente una indagine prima di dare l’ok alla transazione –, a controllare il fondo, e quindi il Newcastle, è il principe ereditario-primo ministro Mohammad Bin Salman Al Sau’ud (noto per lo sprezzo con cui risponde alle contestazioni di violazione dei diritti umani e ritenuto dall’Onu mandante dell’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi).
Nell’ambito della strategia Saudi Vision 2030, il PIF ha programmato una serie di investimenti in settori eterogenei, per “alleggerire” nei prossimi decenni la dipendenza economica del paese dal petrolio. Tra questi c’è il calcio – i soldi spesi per il rilancio della Saudi Pro League ci dicono qualcosa –, ma anche la riprogettazione di ex città industriali in funzione turistico-commerciale (lo sceicco Mansour, proprietario del City, vicepresidente e vice primo ministro degli Emirati Arabi, ha forti interessi immobiliari nell’East End di Manchester, mentre l’emiro del Qatar vorrebbe comprare lo United, altra squadra della città). Considerando le caratteristiche di Newcastle, che fu terra di miniere e cantieri navali, l’acquisto del club da parte del fondo saudita non può essere solo una questione di pallone. Il Newcastle è inoltre una delle più importanti squadre inglesi, con un nobile passato, ma pochi titoli conquistati – una specie di Torino, ma senza il “Grande Torino”. Qui hanno giocato Gascoigne e Shearer (entrambi nati in città), Keegan e Owen (tre palloni d’oro in due), e da qui sono passati allenatori iconici come sir Bobby Robson e Rafa Benitez. Il Newcastle ha vinto quattro volte il campionato, ma l’ultimo nel 1927; sei volte la coppa d’Inghilterra, che però non conquista dal 1955. È comprensibile, insomma, che all’arrivo degli zii d’Arabia la gran parte dei tifosi non si sia fatta troppe domande e abbia anzi esultato, intravedendo la possibilità di riportare il titolo in città dopo un secolo (con questo comunicato, poche settimane dopo l’acquisto del club, la proprietà chiedeva ai tifosi di smetterla di indossare goliardicamente abiti della cultura araba, pur riconoscendo l’intento “positivo e beneaugurante” rispetto al lavoro della nuova dirigenza).
Il giorno dopo il mio incontro con Danny, mercoledì 13 dicembre, il Newcastle affronta il Milan, con la possibilità di qualificarsi dopo vent’anni agli ottavi di finale di Champions League. Lui però allo stadio non ci sarà, soffrendone: è il primo anno, da quando è bambino, in cui non fa l’abbonamento. «Il nostro collettivo però non chiede ai tifosi di boicottare, sappiamo quanto sarebbe difficile una scelta del genere. Chiediamo di essere presenti alle manifestazioni, di rendere visibile il problema sui social. Se l’obiettivo è usare la nostra squadra per una pulizia della reputazione del regno saudita, noi dobbiamo impedirlo».
GITA A GATESHEAD
Sebbene rientri sotto l’amministrazione di due comuni differenti, quelli di Newcastle e di Gateshead (un sobborgo che per gli abitanti del luogo fa parte della città), il Quayside si potrebbe considerare un unico quartiere, che anzi interseca le due città separate solo dal fiume. Un’area comune che per quasi quattro chilometri costeggia il Tyne, e che mette in connessione i due comuni attraverso il Millennium Bridge, opera inaugurata nel 2001 e simbolo della transizione di Newcastle da città industriale a città “di servizi”. «Pare che anni fa la polizia rifiutò il visto a una turista che sosteneva di voler entrare in Inghilterra per visitare Gateshead. Semplicemente la cosa non sembrava credibile!». A parlare è Ben, venticinquenne studente in storia che lavora in uno dei centri culturali della sponda sud del fiume, volano della “rigenerazione urbana” che ha investito l’area tra la fine degli anni Novanta e il primo decennio dei Duemila. Nei racconti dei vecchi, nei romanzi sulle sommosse dei minatori, nella biografia di Paul Gascoigne, il sobborgo operaio di Gateshead viene descritto come un posto poverissimo, insalubre, grigio e abbandonato a sé stesso, un dormitorio privo di servizi dove gli adolescenti, in particolare nei decenni della chiusura delle miniere e della deindustrializzazione, vivevano in uno stato di deprivazione totale, sniffando colla, consumando alcool, crack ed eroina (lo stesso Gascoigne ha più volte raccontato delle sue dipendenze da tredicenne, alcool e slot machine). Già quindici anni fa, quando cominciai a frequentare la città, Gateshead, e in particolare il Quayside, sembravano un piccolo gioiello, un distretto post-industriale all’avanguardia, che niente aveva da invidiare ai più noti sviluppatisi a Liverpool e Manchester. In realtà, tanto allora che adesso, la povertà è ancora ben presente, come si può leggere in questo inclemente rapporto del Comune, solo è confinata in una serie di aree della cittadina ancora non “rigenerate”.
«Mio nonno – dice Ben – è stato tra i minatori rivoltosi, uno di quelli che nemmeno quando Margaret Thatcher è morta ha smesso di maledirla. I vecchi hanno sempre guardato la nuova faccia di Gateshead con rabbia, ma i giovani di allora hanno creduto ai politici quando dicevano che avrebbero rivoltato la città come un calzino. Anzi che lo avremmo fatto noi insieme a loro».
Vale la pena fare un passo indietro. Nel 1995 l’organizzazione Northern Arts indirizza al governo un progetto di rigenerazione dell’ex distretto industriale attraverso la costruzione di infrastrutture culturali. Il progetto viene finanziato, il governo raccoglie fondi anche dall’Unione Europea e investe quattrocento milioni di sterline, progettando una sorta di network di produzione e progettazione culturale. Il Baltic, edificio in disuso un tempo dedicato alla lavorazione del grano, diventa sede espositiva per l’arte contemporanea (oggi attira centinaia di migliaia di visitatori l’anno). Nel 1996 arriva lo Year of the Visual Arts e nel 1998 viene inaugurato l’Angelo del Nord, mega scultura in acciaio alta venti metri e con un’apertura alare di oltre cinquanta. Ancora, nascono il Sage Gateshead, sofisticata architettura dedicata allo studio e alla produzione musicale, e altre strutture minori, mentre nel 2007 tra Newcastle e Gateshead si svolge il World Summit on Arts and culture, la conferenza internazionale dei più importanti policy maker culturali del mondo. Dall’altra sponda del fiume, infine, il centro vittoriano di Newcastle, città da sempre decadente nel senso filosofico del termine, viene recuperato con le tre vie principali che si tramutano in un enorme centro commerciale a cielo aperto (ma sulle stesse strade ce ne sono anche due al chiuso), occupato da catene e marchi internazionali.
“Le icone culturali funzionano solo se la comunità le adotta come parte della propria identità. […] Una cosa è radicata se quando le persone la vedono su un giornale pensano: sì, questo sono io”. Queste parole di Paul Collard, uno dei fautori del programma di investimenti dell’epoca, descrivono bene il presunto spirito di questa rigenerazione, corroborato da slogan come “la comunità è parte dialogante” e “la regione è la nostra Galleria” (Collard oggi è responsabile di un programma governativo per “lo sblocco del potenziale creativo dei giovani, al fine di prepararli al successo nell’economia creativa del ventunesimo secolo”).
In realtà, il dichiarato intento dei rigeneratori, ovvero quello di promuovere uno sviluppo culturale che partisse dalla vivacità e dall’insofferenza di un territorio che era stato abbandonato per due decenni diventando l’area economicamente più depressa del paese, ha avuto esattamente il risultato opposto, ovvero quello di escludere col tempo la popolazione da ogni beneficio, materiale e immateriale, di espellere una parte di abitanti verso territori ancor più periferici, di sgretolare i residui di un’identità operaia e di un forte senso di comunità che ancora restavano, e in minima parte restano in piedi, come forma di resistenza alla povertà. È un processo, questo, ben mostrato dalla “trilogia del Nord-Est” di Ken Loach, tre film probabilmente non tra i più riusciti del regista inglese, ma che hanno il pregio di cogliere il disorientamento transgenerazionale della popolazione di queste aree, il tentativo di resistere attraverso l’unica forma che conosce, la solidarietà di classe. «Mio padre – racconta Ben davanti all’ultima birra – ai tempi del punk, viveva esattamente come vive il proletariato di questa città: eccessi, alcool, risse e arresti. Ma viveva così perché credeva che quello fosse il modo di abbattere il potere. Noi al massimo possiamo puntare all’autodistruzione, ma non quella di Jim Morrison, un’altra più triste, che inizia il venerdì pomeriggio e si ricompone il lunedì mattina».
MATCH DAY
Nel primo tempo il Newcastle prende il Milan a pallonate. Chi vince ha speranza di qualificarsi agli ottavi di Champions League (dipenderà anche dal risultato del Paris Saint Germain a Dortmund), chi perde manca anche il ripescaggio in Europa League. A dispetto dell’importanza della partita però la squadra di Pioli sembra non essere scesa in campo, stordita dal clima da finale dei mondiali che si respira in città. Il Saint James’ Park è pieno, ma questa non è una novità (lo era anche durante le più anonime partite di serie B, qualche anno fa). Per quarantacinque minuti il Milan soffre il ritmo degli inglesi, i tackle vigorosi, la loro reattività nel raggiungere il pallone, le folate sulle fasce di Trippier e Gordon. Tomori salva miracolosamente su Almiron, ma nessuno può niente sul tiro perfetto del brasiliano Joelinton che manda in delirio lo stadio.
I cori dei tifosi, più che per la squadra, sono per loro stessi, per il loro grande orgoglio e fedeltà; costante è la derisione per i cugini del Sunderland (“Have you ever seen a Mackem in Milan?”), ben lontani dai palcoscenici europei. Forse per un po’ di sfortuna, per una incredibile parata di Maignan, forse per aver bruciato tutto e subito (ancora Jim Morrison) e per la maggiore esperienza del Milan, nel secondo tempo i rossoneri rimontano e vincono la partita, mandando a casa il Newcastle che dovrà aspettare il prossimo anno, ammesso che riesca a qualificarsi, per tornare a giocare una partita europea. I tifosi di casa applaudono la squadra come se avesse vinto, ne omaggiano l’impegno e, ancora una volta, esaltano il loro folle modo di amare i colori (mi torna in mente la retrocessione in serie B del 2010, quando pochi minuti dopo il fischio finale dell’ultima partita comparve negli stands un enorme e improvvisato striscione: “We’ll support you evermore!”, “Vi supporteremo sempre e comunque!”).
È buffo e paradossale, ma allontanandomi da Saint James’ ripenso alle analogie tra lo sviluppo urbano della città e quello che sta accadendo alla squadra. La necessità di nuove fonti di ricchezza (cultura e non più industria; calcio e non più petrolio); e poi da un lato il grande capitale, Primark e Saudi Telecom, le gallerie commerciali e i musei d’arte moderna, dall’altro una popolazione stordita, avvilita, che si aggrappa a quel poco che gli resta, ai fiumi di alcool e a quell’orgoglio geordie che ora il successo sportivo mette in vendita su ogni tipo di merce e paccottiglia (questa devo averla già vista). Con Ben avevamo riflettuto su come il tifo e la squadra restassero una delle poche forme organizzate per fare comunità in un luogo così disgregato, e la cosa mi torna in mente al fischio finale, quando lungo Saint Andrew’s street i cori autoconsolatori dei miei compagni di gradinata vengono sovrastati da musiche pimpanti che non so più se arrivino dallo stadio o da qualche club del NewGate. (riccardo rosa)
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