MONiTOR Italia
  • Home
  • temi
    • culture
    • iniziative
    • italia
    • lavoro
    • migrazioni
    • recensioni
    • rifiuti
    • sanità
    • scuola
  • città
    • bologna
    • milano
    • napoli
    • roma
    • torino
  • foto
    • fotoreportage
    • fotogallerie
  • autori
  • edizioni
  • napoli MONiTOR
lavoro
13 Marzo 2014

Argentina, la fabbrica sin patron

Monitor
(archivio disegni napolimonitor)

Dal n. 209 di Una città / gennaio 2014

All’indomani della crisi in Argentina, molti operai occuparono le fabbriche chiuse e abbandonate dai padroni e le rimisero in produzione; gli ostacoli legali, l’appoggio dei quartieri, la necessità, una volta da soli, di decidere di salario, disciplina e organizzazione del lavoro; un’esperienza, quella dell’autogestione delle imprese argentine, che continua. Intervista ad Aldo Marchetti (giornalista, è stato direttore di diverse riviste di cultura. Ha insegnato Sociologia del lavoro nell’Università Statale di Milano e in quella di Brescia. Il libro di cui si parla nell’intervista è Fabbriche aperte, L’esperienza delle imprese recuperate dai lavoratori in Argentina, Il Mulino, 2013).

Nel corso della crisi che ha colpito l’Argentina nei primi anni Duemila alcune fabbriche sono state occupate e recuperate dai lavoratori. Puoi raccontare?

La storia delle imprese recuperate, che è un’esperienza di autogestione operaia, comincia con la crisi economica del 2001, che ha portato al fallimento dello Stato e a una crisi politica durante la quale si sono succeduti tre o quattro governi durati pochi mesi, sino a che, dopo le elezioni del 2003, è stato eletto il governo di Nestor Kirchner, che ha posto le basi per una ripresa economica e che ha portato l’Argentina a svilupparsi a un ritmo del 6-8% all’anno; una ripresa che è durata sostanzialmente fino agli anni recenti, quando anche sull’Argentina comincia a pesare la crisi economica mondiale. Parliamo di un tracollo – questa è ormai la versione comunemente accettata – dovuto a un utilizzo indiscriminato delle politiche neoliberiste, quindi svendita dell’industria pubblica ai privati, completa apertura del mercato interno a quello internazionale, finanziarizzazione dell’economia, deregolamentazione del mercato del lavoro. Tutto questo, in un contesto di grave crisi economica, ha portato alla chiusura di migliaia e migliaia di fabbriche, alla fuga dei capitali all’estero, fino allo scontro sociale che ha visto in pochi giorni quasi una quarantina di morti nelle strade, e poi manifestazioni e barricate in tutto il paese. Ricordiamo ancora le immagini della gente camminare battendo le pentole vuote e degli assalti al Bancomat e ai supermercati.

Una delle conseguenze di questa crisi è stata l’occupazione, da parte degli operai, di oltre un centinaio di fabbriche che nel frattempo erano state chiuse dagli imprenditori. Molte volte dietro questi fallimenti c’era il fatto che gli imprenditori, nel marasma generale, avevano cercato di vendere i macchinari e gli impianti per realizzare del denaro liquido e scappare all’estero, oppure trasferirsi in altre parti del paese aprendo aziende nuove dopo aver mandato sul lastrico i vecchi operai. Ecco, in diverse di queste situazioni gli operai hanno occupato la fabbrica e hanno cercato di rimetterla in funzione.

Parliamo di un processo estremamente complicato, che ha visto anche un profondo conflitto con le forze dell’ordine, le istituzioni, la magistratura, il governo. Molte di queste fabbriche occupate infatti sono state prese di mira dalle forze di polizia chiamate a svuotarle dei lavoratori per riportarle nelle mani degli imprenditori. A quel punto interi quartieri sono scesi in lotta per difenderle.
Bisogna infatti considerare che nel frattempo in Argentina erano sorti movimenti sociali di grande portata, come quello dei disoccupati, delle donne, ecc., che in questo clima di crisi profonda hanno costituito un elemento sociale di coesione e solidarietà che ha consentito alle imprese recuperate di restare in piedi. In molti casi il quartiere, i piqueteros o le assemblee popolari dei quartieri hanno proprio fatto barricata davanti alle porte delle fabbriche, le hanno presidiate per difenderle materialmente dall’irruzione delle forze di polizia. Insomma, attorno a queste imprese recuperate, si è creato un movimento di grande solidarietà.

Bisogna anche tener conto che i lavoratori dei livelli più elevati, manager, impiegati e tecnici avevano già dato le dimissioni perché riuscivano ancora a trovare un’altra occupazione sul mercato. Per gli operai questa possibilità non c’era assolutamente: sarebbero rimasti disoccupati, perdendo così qualsiasi fonte di reddito; i deboli elementi di welfare con il default dello Stato, con il crollo delle finanze pubbliche, non sarebbero stati più garantiti. Quindi l’alternativa era semplicemente quella di rimanere privi di reddito, i lavoratori e le loro famiglie. La scelta di occupare la fabbrica e cercare di riavviare la produzione è stata quindi una scelta obbligata, prima che ideologica.

Ma come hanno fatto a rimettere in piedi le fabbriche senza manager, senza quadri, senza tecnici?

Infatti si è subito posto il problema di riempire il vuoto di direzione aziendale. In una prima fase questo vuoto è stato riempito soprattutto dalla solidarietà che si è formata attorno alle fabbriche. In molti casi le università sono entrate in contatto con gli operai e hanno fornito le competenze necessarie, nel senso che studenti e insegnanti sono andati nelle fabbriche e hanno aiutato materialmente a rimettere in moto gli impianti, ad aggiustare le macchine; insegnanti di materie economiche hanno aiutato i lavoratori a garantire un minimo di managerialità, a tenere l’amministrazione. Si sono creati anche dei microcircuiti di acquisto dei beni prodotti da queste imprese. È stato soprattutto grazie a questo movimento sociale che queste imprese sono riuscite a stare a galla.

In un secondo tempo, alcune amministrazioni locali, alcune organizzazioni imprenditoriali o delle cooperative hanno fornito alle imprese strumenti più solidi e continuativi per affrontare tutti i problemi relativi all’amministrazione, alla gestione dell’impresa.

Dicevi che c’era anche un problema legale…

C’era un problema enorme con la giustizia, con la legge. L’esperienza delle imprese recuperate, agli occhi del mondo imprenditoriale e di una parte dell’opinione pubblica, rappresentava quasi un attentato al principio di proprietà. Va detto che questa argomentazione era soprattutto l’arma propagandistica da parte degli imprenditori. Quello che non si diceva è che in molti casi erano stati proprio loro ad abbandonare le imprese. E allora succedeva che appena l’impresa veniva rimessa in funzione, gli imprenditori tornavano a mettere gli occhi su quella proprietà che prima avevano abbandonato.

Ovviamente i soggetti coinvolti nell’occupazione delle fabbriche non erano affatto interessati a mettere in discussione il principio della proprietà privata. Loro volevano molto più semplicemente difendere il posto di lavoro. Non era un movimento che in qualche modo voleva instaurare un principio rivoluzionario, che voleva restituire al popolo quella proprietà privata, ritenuta -secondo l’antico slogan- un furto. Niente di tutto questo. Il problema legale però rimaneva e allora si sono trovati dei trucchi legislativi per consentire, in una situazione di crisi enorme, che queste esperienze continuassero. Uno di questi stratagemmi è stato il ricorso alla legge che permette l’esproprio quando è necessario disporre di terreni che si trovano nel tragitto di opere pubbliche come strade, ferrovie, ecc. È stato quello il dispositivo che ha permesso di espropriare le fabbriche in quanto ritenute di interesse collettivo, di interesse pubblico.

Attraverso questa piccola strettoia legale, i tribunali di diverse città e di diverse province hanno consentito ai lavoratori di riprendere la produzione come affidatari di queste imprese. Così, grazie a leggi ad hoc, diverse amministrazioni locali hanno consegnato le imprese ai lavoratori che nel tempo avrebbero potuto riscattarle, diventandone proprietari. Questo in estrema sintesi, perché i problemi giuridici restano ancora oggi molto complessi. Nel corso di questa battaglia su più fronti, i lavoratori mobilitati hanno anche dovuto rivedere il proprio bagaglio di conoscenze, competenze e anche convinzioni. (barbara bertoncin / continua a leggere l’intervista)

Share on Facebook Share on Twitter Share on Google+
Previous Article Mario Lodi, un maestro all’altezza dei bambini
Next Article Sant’Antimo, lo sciopero dei bengalesi

Related Posts

  • Nel distretto pratese qualcosa si muove, dopo l’aggressione agli scioperanti e il corteo per la libertà sindacale

  • Sfruttamento e angherie nel lavoro sociale. Un’intervista corale sul caso di Almaterra a Torino

  • “Stesso lavoro, stesso salario”. Per un orizzonte nuovo nei servizi di cura pubblici

  • Carne da macello. La lotta dei licenziati in Esselunga a Pioltello

Leave a Reply

Appuntamenti

Edizioni MONiTOR

Lo stato delle città, n°12

Lo stato delle città, n°11

Lo stato delle città, n°10

Lievito

La memoria bucata

Lo stato delle città, n°9

Confini

Le guarattelle

Lo stato delle città, n°8

Le fragili alleanze

Lo stato delle città, n°7

La settimana santa

L’estate è finita

La Venere degli stracci

Lo stato delle città, n°6

Baby Gang

Lo stato delle città, n°5

Lo stato delle città, n°4

Solidi

Detti

Lo stato delle città, n°3

Lo stato delle città, n°2

Risalendo la china

Quartieri Spagnoli

L’infelicità italiana

Lo stato delle città, n°1

Lo stato delle città, n°0

Heroes

Qualcosa che bruci. Oroscopo di Foucault

Il cielo in una stanza

Lo sparo nella notte

La città orizzontale

Grigio

Primavera breve

Fino all’urdemo suspiro

Vai mo

Palude

iL SINDAKO

Lo stato della città

Il fuoco a mare

La sfida

Odissee

SOSTIENI!

Lo stato delle città / LA RIVISTA

NEWSLETTER

Manteniamo i tuoi dati privati e li condividiamo solo con terze parti necessarie per l'erogazione dei servizi. Per maggiori informazioni, consulta la nostra Privacy Policy.

Controlla la tua casella di posta o la cartella spam per confermare la tua iscrizione

Fotoreportage

Storie Disegnate

Napolimonitor.it 2006 > 2015

Lo stato della città / IL LIBRO

Chi siamo

Napoli Monitor è stato un mensile cartaceo, in edicola dal 2006 al 2014.
A partire dal 2010 è un sito di informazione e approfondimento.
Dal 2015 pubblica anche libri e dal marzo 2018 la rivista “Lo stato delle città”.

contatti

La redazione di Napoli Monitor è ai Quartieri Spagnoli (via Emanuele De Deo 63/a, 80134 – Napoli) – info: redazione@napolimonitor.it

MONiTOR Italia
© Copyright 2015. Proudly supported by dopolavoro and Shift-Left