Con una lettera inviata al ministero della salute e a quello dell’economia, il commissario ad acta Joseph Polimeni e il sub-commissario D’Amario hanno annunciato le proprie dimissioni, operative a partire dal 3 aprile. Arrivati a Napoli su mandato del governo Renzi nel dicembre 2015, i commissari danno l’addio al termine di un rapporto più che conflittuale con il governatore De Luca, che ha più volte espresso la sua volontà di riportare “a casa” la gestione della macchina della sanità regionale, sottolineando l’immobilismo e gli alti costi (quattrocentomila euro annui) della gestione commissariale. In realtà, l’attacco agli stipendi di Polimeni e D’Amario appare strumentale – per un’amministrazione che non ha mai affrontato gli sprechi – rispetto alla volontà di rimettere le mani su un settore strategico, e sul suo enorme bilancio. I due manager non hanno risposto quasi mai, se non opponendo blande difese del proprio operato, e lasciano il posto senza aver mai affrontato i problemi strutturali del sistema. In poco più di un anno hanno scritto un Piano Ospedaliero che ha suscitato perplessità da più parti, redatto senza consultare il territorio e che nella pessima gestione della vicenda dell’Ospedale San Gennaro ha mostrato tutti i suoi limiti. Proprio D’Amario, rispondendo alle accuse di De Luca, affermava che il proprio compito era quello di disegnare una cornice programmatica, mentre le responsabilità della gestione sono delle Asl, che però a quella cornice non hanno aderito, quasi sminuendo il proprio ruolo che, invece, dovrebbe essere cruciale. La stessa ministra Lorenzin ha affermato più volte, invece che i commissari dovrebbero sostituirsi ai manager aziendali qualora ne rilevino le inefficienze.
A giudicare dalle dichiarazioni dei principali attori di questa battaglia politica (da notare che i cittadini, secondo la Costituzione i primi attori, non hanno in questo processo alcuna voce, come pure gli operatori del settore) pare che i problemi della sanità campana siano essenzialmente organizzativi, e le colpe della situazione critica attuale siano della lunga storia di inefficienze e sprechi del passato. Il fatto che, probabilmente, la riforma aziendalista della sanità ci abbia portati dentro un modello gestionale fallimentare non viene assolutamente preso in considerazione. Come pure sembrano esenti da responsabilità gli apparati politico-amministrativi campani, responsabili di ritardi e inefficienze di cui è un simbolo quel misero ventinove per cento dei fondi strutturali europei spesi per la sanità, a fronte di uno stanziamento complessivo di circa un miliardo e settecento milioni. D’altro canto molte sono le perplessità sulla reale incidenza del commissariamento cominciato nel 2009. In otto anni sono oltre diecimila i professionisti in meno nel sistema regionale, con una conseguente riduzione della capacità assistenziale. Questi tagli al personale, non accompagnati da un adeguato ricambio, hanno prodotto un “miglioramento” delle condizioni finanziarie: un’operazione di maquillage della quale si propagandano gli effetti economici, cioè la riduzione della spesa, ma non il disastro sociale di una sanità con operatori di età media superiore al resto d’Italia e in numero insufficiente, strutture ospedaliere vecchie e gestite spesso in maniera indecorosa e una medicina del territorio inadeguata alle evoluzioni della “domanda di salute”. Cornice a questo scenario una copiosa produzione normativa, fatta di leggi, raccomandazioni e piani tutti inapplicati, in cui il piano di Polimeni e D’Amario è solo l’ultimo atto di un teatro delle riforme di carta.
Di fronte a un tale quadro, fa pensare la lettera che i direttori generali delle Asl campane hanno diffuso nei giorni scorsi e sottoscritto, in linea con quanto dettato da De Luca. Un documento che fa quadrato intorno al governatore, mostrando i muscoli di un potere locale che non vuole più essere sottoposto a vincoli esterni. È chiaro che, essendo i suddetti manager nominati tutti da De Luca con un provvedimento ad personam, questo documento assume i contorni di una “chiamata alle armi” per dire al governo che non c’è più spazio per ingerenze “romane” nell’amministrazione regionale, oltre a definire in maniera esplicita l’affermarsi di un nuovo blocco di potere, una satrapia d’altri tempi costruita attraverso un percorso ben evidenziato da due passaggi chiave.
Il primo è quello che ha portato all’approvazione della legge regionale n. 15 del’8 giugno 2016, di “semplificazione delle procedure di nomina dei direttori generali” delle aziende sanitarie, con la quale, dietro il proposito di rendere più agevoli le nomine dei manager, si ratificava una completa discrezionalità del governatore nella nomina di tali figure, eliminando il “fastidio” dei concorsi. Una legge che, di fatto, sconfessa l’operato delle ministre Lorenzin e Madia, votata con soddisfazione dalla maggioranza del consiglio regionale, con soli due emendamenti proposti da Armando Cesaro e con l’unica opposizione dei Cinque Stelle. L’effetto di questa operazione è duplice: da un lato, delineare nei confronti del governo nazionale uno spazio di collaborazione e appoggio politico vincolato a una forte autonomia di manovra; dall’altro, rinnovare un clientelismo di sapore antico, dentro una veste giuridica nuova.
Sono tante le iniziative discutibili del bellicoso autocrate campano ma questa è uno strappo violento e sfacciato ed è incredibile che sia passata quasi sotto silenzio, tanto più se si pensa alle recenti vicende giudiziarie che hanno coinvolto la nomina più importante, quella di Elia Abbondante alla guida dell’Asl Napoli 1, nominato da De Luca stesso. Abbondante si era fatto notare in occasione della maldestra chiusura dell’Ospedale San Gennaro, apostrofando i comitati dei cittadini (secondo Costituzione suoi datori di lavoro) come incompetenti perché non in grado di capire quell’operazione. Abbondante era stato nominato dopo una valutazione delle sue competenze, ritenute tanto solide da fargli meritare la guida della prima azienda sanitaria della Campania. Il suo arresto è o non è un problema politico per chi lo ha nominato e voluto a un incarico così importante?
La seconda tappa della Grande Marcia di De Luca passa attraverso l’emendamento alla legge finanziaria del novembre 2016 che prevede la possibilità per i presidenti di Regione di ricoprire l’incarico di commissari alla sanità in caso di percorso di rientro dal deficit. Una norma passata tra le proteste, flebili in verità, delle opposizioni, che testimonia da un lato la forza politica del governatore, capace di imporre all’agenda politica nazionale una riforma controversa e funzionale ai propri interessi e dall’altro la volontà di Renzi di foraggiare gruppi di potere locali a qualsiasi prezzo, pur di restare in sella. Il provvedimento assume un sapore particolarmente sgradevole per il suo arrivare come merce di scambio alla vigilia del referendum del 4 dicembre scorso, poi perso in maniera disastrosa, su cui Renzi si giocava il primo vero banco di prova elettorale del suo governo, mai passato per le urne. Con il suo voto favorevole, il parlamento ha messo nelle mani di De Luca la possibilità di gestire nuovamente la sanità, nelle secche del Piano di Rientro.
Il Piano di Rientro dal Disavanzo della Regione è stato siglato nel marzo 2007, prevedendo una serie d’interventi finalizzati a ristabilire l’equilibrio economico-finanziario regionale. Nel luglio 2009 la presidenza del consiglio dei ministri nominava Antonio Bassolino, allora governatore, quale commissario ad acta per l’attuazione del piano. Mandato del commissariamento era il riassetto della rete ospedaliera e territoriale, l’analisi del fabbisogno reale, la verifica dell’appropriatezza delle procedure sanitarie erogate e la modifica del piano ospedaliero. A distanza di quasi un decennio è evidente che questi obiettivi sono fermi al palo. Dopo sei anni di anomalia, la legge di stabilità 2015 (190/14) stabiliva, invece, che la nomina di commissario ad acta fosse incompatibile con l’affidamento o la prosecuzione di qualsiasi incarico istituzionale presso la Regione soggetta a commissariamento, affermando il principio logico secondo cui il controllore non può essere il controllato. Un principio, peraltro, già previsto nella legge 159/07, che indicava la separazione istituzionale tra chi ha prodotto il disavanzo o non ha saputo ridurlo e chi, invece, veniva nominato dal governo proprio per intervenire su quel disavanzo.
Se il governo Gentiloni, dopo le dimissioni di Polimeni, nominerà De Luca commissario ad acta per il risanamento, si aprirà una fase politica nuova e decisiva. De Luca sa bene che la sanità assorbe una quota cospicua del bilancio regionale e che le politiche sanitarie sono un importante settore di intervento, considerato che il disavanzo di una Regione in piano di rientro è finanziato dalle addizionali Irap e Irpef. Manovrare in quel settore vuol dire mettere le mani nelle tasche dei cittadini e sui loro redditi, per cui è comprensibile che la politica locale esprima la volontà di gestire in prima persona questi processi. In un contesto simile le dimissioni dei commissari, sulla spinta di una lettera durissima di condanna del loro operato firmata dai manager nominati dal governatore, apre il campo a una serie di interrogativi. Il percorso di guerra condotto da De Luca a sostegno del proprio progetto contro il quadro politico e normativo esistente, pare non trovare oppositori né sul territorio regionale né su quello nazionale. L’eventuale nomina dello stesso governatore a commissario sarebbe la conclusione di un processo sul quale si testa la tenuta complessiva dell’assetto istituzionale e il futuro della sanità pubblica in Campania, stretta tra gli appetiti dei privati, gli interessi politici e i bisogni della popolazione, attore principale ma mai in primo piano. Nella confusione che regna in questo ambito saranno proprio quei bisogni, ma soprattutto la capacità di organizzarli e porli all’attenzione pubblica, a svolgere un ruolo importante per l’avvio di una necessaria riforma di un settore essenziale che rischia di scomparire. (sócrates)
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