I linguaggi della strada sono fagocitati da pubblicità e mercato. Un destino inevitabile?
L’universale rumore che il cellulare fa quando riceve un messaggio è un po’ come le carte di “Probabilità e Imprevisti” del Monopoli. Stavolta il messaggio recitava più o meno così: «Dai un’occhiata a Grazia, il giornale per le donne. Johnny». Io ero in spiaggia, capirete, dopo qualche ora me n’ero completamente scordato. Solo il giorno dopo mi ricordo di quella carta che era senza ombra di dubbio un imprevisto (o un già previsto). Chiedo dunque all’edicolante, oltre al solito Cronaca Vera, una copia di Grazia. Mi consegna un settimanale dello spessore di un mensile, di proprietà del gruppo Mondadori. Cerco, tra un reportage su mickeyrourke e una rubrica di brunovespa, l’articolo che mi dovrebbe interessare. È a pagina 242, si intitola “Chic urbano” e continua fina alla 255. Un reportage di moda come uno se lo immagina: le modelle anoressiche, un po’ bruttine, che indossano abiti che non si capisce bene da chi verranno indossati. Poche didascalie. Il particolare inquietante – almeno per me – è la scenografia (ma dovrei dire location), equamente divisa tra dipinti di artisti contemporanei – che si trovano al Madre o nelle stazioni della metropolitana – e disegni sui muri del centro storico napoletano. Quei disegni li avevamo fatti noi (www.cyopekaf.org).
Ora, che l’estetica dei graffiti in senso classico (mi riferisco alle scritte) sia stata completamente assorbita dalle agenzie pubblicitarie, dagli uffici marketing e da tutto quanto oggi fa “mercato” è evidente a chiunque. Un occhio allenato potrebbe individuare da un chilometro una scritta su una busta di patatine che ha dietro la sua progettazione qualcuno che ha avuto esperienze legate al writing. Era anche per questo che si era andato oltre, alla ricerca di una nuova estetica.
Chi ha presente il nostro lavoro, soprattutto quello fatto attacchinando per strada pagine di moda ritoccate, nel tentativo – forse ingenuo – di smascherare l’effimero di cui si fanno portavoce, potrà facilmente capire il senso di rabbia che queste paginette hanno innescato. Rabbia e impotenza da un lato, voglia di ricominciare la ricerca dall’altro. Ripartire da zero, ancora una volta, in un progetto che è fallimentare per natura. Questa la parabola: inventare linguaggi/essere fagocitati-digeriti-annullati/reinventarsi. In un cerchio che sembra non avere fine e fin quando se ne ha la forza.
Successe lo stesso anche dopo che organizzammo “Diniego”, la mostra permanente che si può visitare attorno al Madre, il museo d’arte contemporanea. “Nonsolomoda”, programma televisivo delle reti Mediaset, trasmise un servizio sul museo. Una coincidenza certo, ma l’intervista al direttore era montata in modo che quando lui parlava di millantate relazioni con il quartiere circostante – posto difficile a suo dire – le immagini fossero quelle delle nostre opere. Così tutto finisce nello stesso calderone, senza possibilità di smentita. Ma soprattutto, cosa ben più tragica, senza che nessuno ci faccia caso.
In questi giorni quelle relazioni con il quartiere, elemento minimo di ogni politica culturale che si rispetti, sono iniziate. Le scuole di vari quartieri andranno con continuità durante l’arco dell’anno a fare laboratori di manualità all’interno del museo. Ci è stato proposto di lavorare a questo progetto. È una cosa importante, in fondo l’abbiamo sollecitata anche noi. Qualcuno ha accettato, qualcun altro no. Il timore da parte di chi ha rifiutato è che operazioni del genere, seppur ben fatte, servano a costruire quel consenso che permetterà di continuare a gestire un museo pubblico con criteri da galleria privata. Chi ha accettato, oltre al piacere dell’esperienza, lo fa per soldi. Perché non ha altra scelta. E questa mancanza di alternative riduce anche la possibilità di un dibattito. «Devo pagare l’affitto, di che vuoi parlare?».
Intanto tutto si mischia, «gli artisti copiano i vetrinisti che li copiavano», il flusso di immagini si fa sempre più indistinto. Qualche giorno fa per strada mi danno un volantino di una trattoria per camionisti di Gianturco. Offriva buoni sconto per la benzina a chi avesse consumato un certo numero di pasti. Un grafico, evidentemente improvvisato, aveva scaricato da Internet un logo della Esso modificato. Di quelli degli attivisti contro le guerre per il petrolio, con le due esse sostituite dal simbolo del dollaro. Passava inosservato anche a quelli del distributore… In un bar patinato della stazione Termini, lo sfondo del bancone è l’esatta riproduzione di un quadro di Burri. “Aria” di Gianna Nannini è stata usata in uno spot di una macchina Fiat. Ghandi risucchiato da Telecom. Durante un laboratorio con venti bambini di terza elementare, alla domanda «come si chiama il vulcano di Napoli?», uno di loro – per fortuna solo uno – risponde pronto: «Il vulcano buono». E cosi via. La sagra del “qual è il colmo per…” potrebbe continuare all’infinito. Non è una novità certo, ma è bene non smettere di ragionarci, insieme. Grazie a Grazia. (cyop&kaf)
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