
Lo sgombero di Eleonas, l’ultimo campo profughi di Atene, è stato annunciato a novembre del 2021, nel tentativo di espellere i richiedenti asilo e deviare la rotta fuori dalla città. Per mesi i residenti si sono opposti al proprio spostamento coatto, consapevoli che ciò avrebbe significato la loro ulteriore segregazione nei campi che disseminano le campagne greche, lontano da infrastrutture sanitarie, opportunità lavorative, scuole, tagliati fuori dalle reti del trasporto pubblico. Le operazioni sono state accelerate negli ultimi giorni di giugno del 2022, e da allora la resistenza dei residenti ha complicato il trasferimento coatto dei residenti nei campi dell’entroterra. Nel corso dell’estate e dell’autunno la resistenza si è intensificata, costringendo le autorità a mutare più volte la propria strategia. Più persone vengono arrestate, molte altre vengono ricattate e costrette ad accettare lo spostamento. Solo a fine novembre, a un anno dall’annuncio, gli ultimi abitanti sono trasferiti.
Comincia quindi una nuova fase, segnata da una strategia mirata non tanto al trasferimento degli abitanti, quanto alla loro metodica intimidazione, a cui il movimento risponderà, oltre che tramite la concreta solidarietà nei momenti più drammatici, tramite la denuncia pubblica. Viene messa sotto accusa quindi la violenza dei piani di rigenerazione urbana promossi dal sindaco Bakoyannis, come denunciato nel corso di una conferenza stampa, quanto le politiche segregazioniste promosse dal governo, come nella lettera scritta dall’Iniziativa dei lavoratori della struttura di accoglienza di Eleonas, firmata da numerosi attori della società civile e pubblicata sui media, nella quale i lavoratori prendono posizione contro le politiche di trasferimento e i metodi violenti utilizzati nel corso delle settimane precedenti. A questa si succede un’altra lettera, concentrata sui metodi intimidatori adottati dalla direttrice Maria Dimitra Nioutsikou fin dal primo giorno del proprio insediamento nel campo. Basata sulle testimonianze degli abitanti stessi e pubblicata da Solidarity with Migrants, la lettera testimonia il metodico e illegale utilizzo della minaccia di bloccare la procedura d’asilo di quanti si ostinino a rifiutare il trasferimento.
Ed è così che il 24 agosto Mudira annuncia il prossimo trasferimento per le quattro del mattino del 30 agosto, distribuendo un documento scritto e convocando uno per uno i soggetti interessati, ai quali viene comunicato che se rifiuteranno di andarsene verranno gettati in strada, i loro fascicoli di asilo verranno bloccati e rimossi dal sistema di asilo greco. Oltre a ciò, tre abitanti sono arrestati, tra cui Tomi, fermato da due agenti in borghese e caricato su un pulmino con il pretesto di aver preso parte al mercato senza la licenza. Più volte la polizia entra nel campo a mostrare i muscoli con il pretesto di indagare su un presunto caso di spaccio. Alcuni dei fermati saranno presto rilasciati, mentre altri, dopo aver passato settimane nelle celle delle stazioni di polizia di Atene, saranno trasferiti nel centro di detenzione per migranti di Amygdaleza, dove possono rimanere detenuti fino a diciotto mesi, o fino a trentasei nel caso in cui avviino una nuova domanda d’asilo. Perfino un innocuo gruppo di professori universitari, venuti a visitare il campo nell’ambito delle attività promosse dalla conferenza di Sociologia Urbana RC21, viene intimidito e allontanato dal personale della sicurezza. A ciò va sommata la minaccia rappresentata dalle indagini aperte su alcune delle donne congolesi protagoniste delle proteste.
La sera del 29 agosto, mentre solidali e abitanti si preparano a un’altra notte di fronte ai cancelli, si diffonde la notizia che il trasferimento è stato rinviato alle prime ore del 31 agosto.
Seppure consapevoli che si tratti dell’ennesimo stratagemma adottato allo scopo di stremare e intimidire gli abitanti, una trentina tra solidali e abitanti decidono di presidiare comunque i cancelli nel corso della notte. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.
La notte tra il 30 e il 31 siamo ancora una volta in picchetto. Attendiamo, e mentre aspettiamo la mattina nessuno di noi immagina la tragedia che in quelle stesse ore sta avvenendo dentro uno dei tanti container del campo. Verso le due vediamo la polizia arrivare in forze, senza però avvicinarsi al cancello, mentre la direttrice, accompagnata da una piccola scorta, entra nel campo. Solo più tardi vediamo avvicinarsi un’ambulanza, che lentamente e a sirene spente entra nel campo. Veniamo così a sapere, dai residenti del campo, della morte di Wares Alì.
Una morte sbagliata. Una morte che grida vendetta. Wares Alì si era presentato al personale di sicurezza del campo circa tre ore prima di morire, chiedendo di chiamare urgentemente un’ambulanza: stava soffrendo intensi dolori al petto e al braccio sinistro. Morirà di arresto cardiaco, molto prima dell’arrivo dei soccorsi, nel proprio container. Il suo corpo verrà lasciato a terra e verrà chiesto agli altri abitanti del campo di inserirlo nella bara fatta pervenire nelle ore successive. Avvolto in una coperta, il corpo viene quindi deposto nella bara, una bara appena dissotterrata, ancora sporca di terra. Una bara che verrà trasportata a mano dagli stessi abitanti tra i container, fino al carro funebre.
Wares Alì aveva cinquantadue anni ed era venuto dal Pakistan insieme a Noor, sua moglie. Aveva vissuto in Grecia per sette anni, di cui molti nel campo di Eleonas. In Grecia avevano avuto tre figli. Come tanti a Eleonas, raccoglieva sul proprio carrello il cartone abbandonato nelle strade di Atene per poi rivenderlo all’ingrosso. Come tutti gli altri, anche Wares era sotto pressione e sotto minaccia di sgombero.
Nelle ore immediatamente successive al decesso nessun trasferimento viene effettuato, ma Noor, la moglie di Alì, viene accompagnata alla centrale di polizia per testimoniare su quanto accaduto. Lì, una volta accertato il suo status giuridico, rischia quindi di essere arrestata insieme ai propri figli; solo grazie all’intervento determinato di una delle assistenti sociali del campo fa ritorno al campo libera, ma disperata. Il funerale di suo marito si terrà il 4 settembre, e nella stessa data viene lanciata una manifestazione per l’8, in risposta all’azione repressiva portata avanti nel corso delle ultime settimane e per denunciare quello che per Solidarity With Migrants è un vero e proprio assassinio di stato. L’8 settembre un corteo di oltre trecento persone sfilerà tra le strade circostanti il campo di Eleonas, per poi ritornare al campo stesso. Qui, sfidando le restrizioni, il corteo sfila tra i container.
Ma a riportare l’attenzione su Eleonas, più del corteo, saranno i fatti del 5 settembre. Lunedì le fiamme avvolgono sei container, tra cui quello in cui alloggiava la famiglia di Wares. Decine di persone perdono i propri beni, e tra questi i preziosi e dannati documenti. Le cause dell’incendio restano ignote. Nel pomeriggio la direttrice lascia il campo, probabilmente temendo che la situazione possa sfuggire di mano. Nella sorpresa di tutti, scopriamo così che già da alcuni giorni il precedente manager del campo, Georgiadis Dimitris, socialdemocratico e apparentemente vicino a Syriza, è stato riassegnato al campo e affiancato a Maria Dimitra Nioutsikou. Fin da subito Dimitris dimostra maggiore disponibilità alla negoziazione. Alla protesta di Noor, invitata a trovarsi una sistemazione alternativa fuori dal campo, e quindi sedutasi con il proprio neonato tra le braccia di fronte al cancello, determinata a non andarsene per nessuna ragione, il manager risponde impegnandosi a trovare una nuova sistemazione all’interno del campo a quanti abbiano perso il proprio alloggio. Oltre a ciò, dichiara a uno dei solidali il proprio impegno affinché il processo di trasferimento avvenga in modo pacifico.
Comincia così una nuova fase nella gestione del lungo processo di sgombero del campo. Con Dimitris e Nioutsikou posti l’uno a vigilare sulle intemperanze dell’altro, ora la gestione del campo sarà un’inedita miscela di tolleranza e rigidità, una miscela che si rivelerà molto più efficace delle precedenti nel fiaccare la resistenza dei residenti. Durante l’ultimo mese, durante il quale il campo sarà supervisionato congiuntamente da un “poliziotto buono” e da uno “cattivo”, i trasferimenti si trasformano profondamente: le persone vengono spostate in piccoli gruppi, su taxi e minibus, in giorni separati. Sebbene fin dal 12 settembre i bambini del campo abbiano ripreso a frequentare le scuole, circostanza che in passato aveva temporaneamente arrestato i trasferimenti, per tutto il mese di settembre gruppetti di una o due famiglie di ogni nazionalità lasciano il campo quasi ogni giorno, senza opporre resistenza, senza cercare solidarietà, senza che le forze dell’ordine debbano presidiare i cancelli o attirare l’indignazione dell’opinione pubblica.
La leva, ancora una volta, è la vulnerabilità giuridica: ai tanti che vivono nel campo dopo aver visto una prima domanda d’asilo incontrare esito negativo, rimanendo per anni in attesa che le proprie reiterate domande venissero giudicate ammissibili, viene promesso un’accelerazione delle procedure. Questo meccanismo, utilizzato in realtà fin dall’inizio dei trasferimenti a febbraio, è però una lama a doppio taglio: l’accelerazione della procedura può infatti anche significare un’accelerazione dei dinieghi.
A questo lento gocciolamento si affianca l’altrettanto furtiva partenza di quanti, spinti dalle circostanze, azzardano una partenza verso l’Italia o altri paesi dell’Europa occidentale. In questo modo si svuotano buona parte dei container, oggi disabitati e chiusi a chiave, e si rompe l’unità degli abitanti.
Verso la fine di un settembre privo di ulteriori incidenti, si entra nell’ultima fase, la fase che ancora adesso il campo sta attraversando e che appare conclusiva. Mentre continuano i piccoli trasferimenti volontari, la mattina del 23 un gruppo di otto persone si ostina a rifiutare il trasferimento: la polizia si presenta quindi in forze di fronte al campo fin dalle quattro del mattino, per poi entrare senza incontrare resistenza e imporre l’esecuzione del trasferimento. In assenza di una risposta coordinata da parte dei residenti, il trasferimento viene eseguito senza ulteriori ritardi, e solo verso mezzogiorno i mezzi delle forze dell’ordine si allontanano dal campo.
Mentre Atene viene attraversata da numerose manifestazioni in solidarietà alla lotta delle donne iraniane che in questi giorni animano il movimento nato in risposta all’omicidio di Mahsa Amin, mentre Tsipras si pronuncia sul tema dell’immigrazione con argomenti che sempre meno ricordano i temi vicini alla sinistra radicale di cui veste il manto, mentre Solidarity With Migrants lancia l’appello per sostenere le spese legali del processo relativo ai fatti del 19 agosto, il 24 settembre il ministero procede a un nuovo giro di vite sulla disciplina interna ai campi di confinamento, inviando agli abitanti dei campi profughi una comunicazione in cui viene introdotta la cosiddetta “procedura di verifica”, ovvero un censimento mensile della popolazione dei campi volto al controllo individualizzato dei residenti nelle diverse strutture. Nel caso di Eleonas, il 30 settembre l’intera popolazione è invitata a presentarsi all’ufficio del camp manager, e ogni caso è sottoposto a verifica.
A diverse persone viene notificato che la propria residenza nel campo non è più formalmente accettata, e vengono invitate a lasciare il campo entro lunedì 3 ottobre. Otto persone, accusate di risiedere nel campo senza alcun diritto, vengono immediatamente allontanate dal personale di sicurezza. A quanti invece risiedono nel campo in attesa di una risposta sull’ammissibilità della propria domanda reiterata viene comunicato che per avere qualche possibilità di essere presi in considerazione è necessario che accettino il trasferimento. Infine, quanti risultano dotati di documenti regolari ma non formalmente registrati al campo vengono invitati ad andarsene prima del 3 ottobre. La mattina di quel giorno altre dodici persone, in larga misura donne e bambini, vengono trasferite, ancora una volta senza incontrare opposizione.
PARTENZE, ARRIVI, CATTURE
A un anno dall’annuncio ufficiale, mercoledì 30 novembre viene effettuato l’ultimo trasferimento. Non è ancora stato formalizzato, ma in pratica si tratta della chiusura del campo.
Bisogna aspettare il 12 dicembre per le formalità, quando il ministero dell’immigrazione e il comune di Atene firmano il protocollo di consegna dell’area di Eleonas, organizzando per l’occasione una cerimonia. Intervengono dal palco, allestito per l’occasione, il primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, il ministro dell’immigrazione e il sindaco di Atene; insieme a un’altra trentina di uomini in giacca e cravatta si dispongono sulle sedie posizionate in mezzo ai container e al fango, ma coperte da decorosi panni bianchi. Nel loro discorso e nei loro tweet celebrano la restituzione di una parte della città alla cittadinanza, l’avvio del tanto desiderato progetto di “doppia rigenerazione”, “un’opportunità per costruire una nuova città nella città”, dice il sindaco, il superamento delle vecchie politiche migratorie.
Salem e la sua famiglia hanno accettato il trasferimento. Vivono nel campo di Schisto, oltre il porto del Pireo. Salem dice che in fondo lì la vita non è così diversa, e che potrebbe quasi andargli bene se gli assistenti sociali si stessero interessando alla sua domanda di asilo. È molto preoccupato per la sua procedura, e non si fida del personale del campo. Lo mandano da un ufficio all’altro, e distante com’è dalla città sta perdendo settimane intere solo per portare avanti l’ennesima pratica amministrativa, che se trascurata potrebbe fargli perdere il permesso.
Fred è partito, è arrivato in Italia e poi a Parigi. Lì è stato ospitato una settimana dagli amici ma ora non sa dove andare. Ci racconta che anche lì non è facile, che Parigi è grande, che sta cercando un lavoro, un lavoro qualsiasi, per poter dormire al caldo.
Anche Alì è partito, tra i pochi fortunati ad aver ottenuto un regolare passaporto, e ora è in Belgio. Ha fatto domanda d’asilo in tempo record, e altrettanto rapidamente questa è stata respinta. Ora vive per strada in attesa dell’esito del ricorso, assieme ad altre centinaia di persone. Mi scrive un giorno, dopo essere stato dimesso dall’ospedale per l’ennesima volta, che non avrebbe mai pensato che la gente potesse vivere così. Che è peggio della Grecia, che si muore di freddo. Ma non vuole andarsene. Spera, con il tempo, di iscriversi all’università, anche se già vorrebbe tornare in Grecia, se solo potesse studiare o trovare un lavoro decente. “Qui vicino, in Olanda – mi racconta –, all’università hanno dei programmi speciali per i rifugiati, con borse di studio e posti riservati… è la mia occasione”.
Michel, uno degli ultimi a lasciare il campo, ha dovuto infine accettare il trasferimento al campo di Schisto, ma è riuscito a far partire i suoi figli. Ha provato a passare all’aeroporto, lo hanno beccato e picchiato, senza mai formalizzarne il fermo o l’arresto.
Charlie, insieme ad alcuni amici, ha subaffittato una casa vicino a Platia Amerikis. Stanno stretti, ma costa poco, è in città, e continua a partecipare alle assemblee di Solidarity With Migrants. «È molto difficile per noi – dice –, con i bambini, senza un documento. Non possiamo andarcene, non possiamo rimanere… cosa dobbiamo fare?».
Divine è ancora scossa. Pochi giorni fa le è stata comunicata la decisione negativa sulla propria domanda d’asilo, e da poco le assistenti sociali le hanno comunicato che dovrà lasciare l’alloggio in cui da pochi mesi si era stabilita. Nel corso della settimana ha dovuto attivare ogni risorsa per riuscire a mettere insieme le centinaia di euro necessari a fare una nuova domanda. Sta seduta a fianco al figlio più piccolo, addormentato sull’unico letto. Sapeva sarebbe stata solo una soluzione temporanea: già da mesi gli appartamenti di Estia stanno venendo sistematicamente svuotati, e il programma sarà definitivamente chiuso dal governo alla fine del 2022, reindirizzando i beneficiari nel sistema dei campi. «Mi hanno detto che ho un mese per scegliere un altro campo, e una settimana per cominciare una nuova domanda d’asilo… cosa faremo, solo Dio lo sa. Ma io, con tre bambini, in un container perso nella campagna, dove non c’è un ospedale, e magari neanche una scuola decente… io non ci vado!».
Arriviamo ad Amygdaleza dopo aver guidato per almeno quaranta minuti. Quando scendo dal furgone, ciò che mi colpisce in un primo momento è la differenza di temperatura: siamo ai margini estremi della città, alle pendici del monte Parnita, e rispetto al centro di Atene ci saranno almeno quattro gradi in meno. Solo più tardi metto a fuoco ciò che mi circonda. Siamo di fronte a una lunga recinzione, alta almeno tre metri e mezzo, sormontata da più strati di filo spinato, seguita da un’altra recinzione dalle caratteristiche analoghe.
Una volta superato il cancello ci ritroviamo su una lunga strada, quasi un corridoio tra container, sui cui tetti è assicurato dell’altro filo spinato. Siamo qui per consegnare cibo, beni di prima necessità, ma anche sigarette, pentole e oggetti di uso quotidiano. Sono qui con il gruppo femminista “Casa delle donne”, o meglio “Collettivo femminista di base: Casa delle donne per l’empowerment e l’emancipazione”, un collettivo che per anni ha visitato le donne detenute, organizzando la raccolta e il trasporto di quanto necessario a vivere dignitosamente all’interno del campo, con estrema attenzione nei confronti delle esigenze di ciascuna detenuta. Sebbene con determinazione e tenacia la Casa delle donne sia negli anni riuscita a ritagliare questi momenti, e lo stesso collettivo Solidarity With Migrants abbia fatto più tentativi rivolti alla costruzione di una progettualità in tal senso, non posso però che rimanere confuso, e deluso, nel constatare che ad Atene non esistano altre assemblee o collettivi che si focalizzino sulla detenzione amministrativa.
Amygdaleza è enorme, ed è l’essenza del campo stesso. Posto all’interno di un terreno adiacente ad un’accademia di polizia, isolato dalla città, costantemente sorvegliato da dozzine di agenti armati. Qui, dicono, sono detenute forse 600, forse 1000 persone, in detenzione amministrativa fino a 18 mesi. Qui finiscono quanti vengono fermati durante le quotidiane retate a Victoria, Plateia Amerikis, Omonia. Qui vengono portati quanti vengono fermati per qualunque motivo nelle strade di Atene, e risultano sprovvisti di un permesso di soggiorno valido. Qui rischiano di finire molti degli abitanti di Eleonas ogni volta che si allontano dallo spazio sicuro rappresentato dal campo stesso.
Vivono in container analoghi a quelli che si possono ritrovare in qualsiasi campo, ma divisi in sezioni tra loro separate da recinzioni sorvegliate da agenti e telecamere e rinforzate con l’immancabile filo israeliano.
Oltre agli uomini, è pieno di gatti.
«I gatti ci servono per tenere a bada i topi» ci spiega un agente. Cerco di non pensare al fumetto di Art Spiegelman, cerco di pensare che in fin dei conti questi gatti fanno magari una vita migliore qui che in molti appartamenti. Ma non riesco a contenere i miei pensieri lontano dai campi di concentramento tedeschi gestiti dai gatti nazisti dipinti in MAUS, come non riuscirò a mantenere lucidi i miei pensieri fino a quando non sarò uscito da questo campo, dai suoi recinti, dagli sguardi della polizia.
Mentre una parte delle compagne incontra le detenute, un altro gruppo scarica il furgone: tutto ciò che abbiamo portato dentro viene attentamente esaminato dagli agenti di polizia. Una per una, decine di borse vengono aperte. Una per una, viene controllata ogni confezione di burro, ogni saponetta. E le giacche, e le scarpe, le pentole. Solo dopo quest’ispezione, che dura almeno un’ora e mezza, possiamo procedere alla consegna.
Nel container preposto all’incontro, veniamo accolte con gioia. Ci offrono i dolci che hanno cucinato, ci offrono succo di frutta e thé.
Sono qui perché le compagne della Casa delle Donne mi hanno chiesto di partecipare, per raccontare, per testimoniare, per provare a capire. E capisco che il cibo ed i vestiti, per quanto importanti, sono un mezzo per costruire questo momento di incontro, di condivisione, di conversazioni in tante lingue, fatto tanto di balli e di giochi, quanto di complicità. E su questa complicità il legame si rinnova ad ogni visita, grazie alle quale le donne detenute possono far sentire la propria voce al di fuori di queste recinzioni, grazie alla quale possono mettersi in contatto con avvocati e legali, grazie al quale possono venire a conoscenza dei propri diritti anche in un posto come questo. È un momento di sorellanza. Partecipo nel modo meno intrusivo possibile, per poi andare ad incontrare Tomi.
È stato trasferito qui solo pochi giorni fa, dopo aver passato più di un mese nella cella sotterranea di una stazione di polizia, dove era stato portato poco dopo il suo assurdo arresto a due passi dal campo. Finora non ci era stato possibile incontrarlo, ed a fatica eravamo riusciti a fargli avere alcuni bene essenziali.
Ma anche adesso siamo separati dalla recinzione Tomi, e non possiamo avvicinarci l’uno all’altro. Sono le restrizioni per il Covid-19, spiega l’agente. Restrizioni valide al giorno d’oggi solo per migranti detenuti o appena sbarcati sulle isole dell’Egeo. Parliamo, costantemente sorvegliati e per poco più di un minuto, prima che l’agente ci costringa ad allontanarci. La nostra conversazione rimane per noi. (erasmo sossich)
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