
Lo sgombero di Eleonas, l’ultimo campo profughi di Atene, è stato annunciato a novembre del 2021, nel tentativo di espellere i richiedenti asilo e deviare la rotta fuori dalla città. Per mesi i residenti si sono opposti al proprio spostamento coatto, consapevoli che ciò avrebbe significato la loro ulteriore segregazione nei campi che disseminano le campagne greche, lontano da infrastrutture sanitarie, opportunità lavorative, scuole, tagliati fuori dalle reti del trasporto pubblico. Le operazioni sono state accelerate negli ultimi giorni di giugno del 2022, e da allora la resistenza dei residenti ha complicato il trasferimento coatto dei residenti nei campi dell’entroterra. Nel corso dell’estate e dell’autunno la resistenza si è intensificata, costringendo le autorità a mutare più volte la propria strategia. Più persone vengono arrestate, molte altre vengono ricattate e costrette ad accettare lo spostamento. Solo a fine novembre, a un anno dall’annuncio, gli ultimi abitanti sono trasferiti.
Giugno 2022. Attendiamo, in fila. Donne, uomini, bambini. Sono le 7, e anche se il sole non si vede ancora la strada è già illuminata dalla luce soffusa che precede l’alba. Posso così vedere chi attende prima di me.
Nell’attesa capita di fare brevi conversazioni. Ci sono siriani, afghani, congolesi. Sono qui per fare le fotografie che poi porteranno all’ufficio immigrazione della polizia di Atene, Allodapon, come lo chiama Azwer (tutti i nomi, eccetto quelli delle persone arrestate o decedute, sono fittizi). Mi dice che questo è l’ufficio centrale che coordina tutte le pratiche degli stranieri residenti ad Atene. Mi dice che è qui, nello stesso edificio che ospita anche la centrale di polizia di Petru Ralli, che è stato detenuto per due mesi al suo arrivo in Grecia, per poi essere trasferito al centro di detenzione di Amygdaleza, per altri due mesi, dove ha finalmente potuto presentare domanda d’asilo. Ed è qui, a Petru Ralli, che è tornato oggi, due anni più tardi, dopo aver finalmente visto riconosciuto il proprio status di rifugiato, per concludere la procedura di rilascio del passaporto. Rispetto a molti altri, alla stragrande maggioranza, gli è andata bene. La sua domanda non è stata rigettata una o due volte, non ha dovuto presentare ricorsi, o domande reiterate. La sua permanenza in Grecia sarà di solo un paio d’anni.
Siamo venuti insieme senza che la mia presenza qui sia di alcuna utilità. Oggi mi limito a osservare. Osservo la casupola di mattoni e lamiera dove si fanno le foto, osservo il cartellone che pubblicizza “Fotocopie per il passaporto, Foto, Freddo Espresso, Cappuccino”.
Osservo l’alba, il sole che dal fondo del viale inonda la strada con i suoi raggi quasi paralleli al suolo. Osservo un convoglio composto da quattro motociclette, due volanti e un cellulare entrare sgommando nel cortile della centrale, sirene accese, prima di sparire con il proprio carico dall’altra parte dell’edificio.
Dopo un’ora ci spostiamo nella fila vera e propria, di fronte ai cancelli di Petru Ralli, unica interruzione in una recinzione coronata da filo spinato. Qui un agente raccoglie i documenti di quanti hanno ricevuto un appuntamento. Con alcuni, con quanti capiscono la lingua, ha un tono brusco, ma finisce lì… ma c’è un uomo, accompagnato forse da due, forse da tre parenti. Non riescono a capirsi, e urla, sbraita e lo insulta, finché grazie alla mediazione di qualcun altro tra i presenti riescono finalmente a concludere la procedura di accettazione.
Poi si entra, e si aspetta. Magari si ha fortuna, magari si viene chiamati subito. Magari non si ha fortuna, e si passa tutta la giornata seduti di fronte agli sportelli dell’ufficio, consapevoli che la pratica potrebbe prendere complessivamente trenta secondi oppure incontrare chissà quale ostacolo burocratico, per essere rimandata a un nuovo appuntamento, magari tra due o quattro mesi.
Questa attesa, scomoda, infinita, segnata da continui fraintendimenti, ordini bruschi, nuove file, sempre sotto lo sguardo costante della polizia, in un palazzo che ospita al tempo stesso una sede amministrativa e un centro di detenzione, in un’area isolata circondata da industrie e vuoti urbani, potrebbe essere una metafora molto efficace di cosa significhi portare avanti una richiesta d’asilo ad Atene. Eppure, la fila di fronte all’ufficio immigrazione della questura di Torino e nella sua sala d’attesa non è così diversa. Forse questo stesso racconto potrebbe valere anche per quanto mi hanno raccontato sui campi profughi in Germania, sulla follia della burocrazia francese, sui campi e sulle politiche di segregazione abitativa sdoganate in Danimarca. Come tutte le metafore, quanto riesce a catturare è bilanciato da quanto sfugge.
È mezzogiorno quando l’attesa di Azwer si conclude. Camminiamo fino a Eleonas, a meno di un quarto d’ora a piedi, dove ci salutiamo. Festeggerà. Presto potrà lasciare il paese. Presto potrà lasciare il campo profughi. Molti altri l’hanno già fatto, o prevedono di farlo a breve, e solo una minoranza ha avuto la “fortuna” di Azwer.
Tra quanti sono partiti, la maggior parte ci è riuscita mettendo insieme, con enorme fatica, le centinaia d’euro necessarie all’acquisto dei documenti falsi e avendo abbastanza fortuna da superare i controlli. Un numero almeno equivalente è stato meno fortunato, fermato e cacciato in malo modo dall’aeroporto. Ma quanti sono passati sono ormai già in Francia, in Germania, in Svizzera. Nessuno, potendo scegliere, decide di rimanere qui, a lottare per poter vivere a Eleonas, in bilico tra la completa precarietà di un campo sotto sgombero e il rischio di ritrovarsi trasferiti in un’altra struttura a sessanta km dalla città.
La lotta dell’estate è stata dura. Un picchetto lungo due mesi. Due mesi di notti insonni, di mattinate lunghissime, di cortei, di caotiche assemblee tra solidali e residenti, di comunicati scritti alle ore più sbagliate; di risate, di balli, di complicità; di traduzioni faticose, e di sguardi e intese che non avevano bisogno di parole; di troppe sigarette, e a volte troppe birre o troppo tsipouro; di barricate, di battiture e canti di lotta; di stanchezza e stress; di paura, di rabbia, di gioia.
Dopo la sconfitta subita tra il 22 e il 30 giugno, le autorità hanno cambiato tattica. Mentre la nuova direttrice, installatasi il primo di luglio, si era fin da subito adoperata per instaurare un clima di terrore e ricatto all’interno del campo, i trasferimenti erano stati completamente sospesi per oltre tre settimane, per poi ricominciare nell’ultima settimana di luglio, incontrando ancora una volta la resistenza dei residenti. E così nei primi giorni di agosto era stato fatto passare un messaggio chiaro agli abitanti: questa storia sarebbe finita il 15 di agosto, con le buone o con le cattive.
Ma lunedì 15 agosto, la città una piastra bollente e deserta, gli abitanti di Eleonas erano pronti. E non erano soli. Tra chi fin dalla sera del 15 si è seduto sui cartoni ad attendere la mattinata c’era chi era appena arrivato da diverse città d’Europa, e qualche ateniese che a malincuore aveva rinunciato alle proprie vacanze fuori città. Oltre agli abitanti, saremo stati una trentina tra solidali e attivisti, determinati a supportare la lotta senza compiere un passo più in là rispetto a quanto stabilito dagli abitanti del campo, raccolti dalla chiamata di Solidarity With Migrants. Oltre a ciò, su esplicita richiesta degli abitanti del campo, eravamo lì a documentare, riprendere, fotografare, raccontare quanto stava accadendo, cercando di colmare il vuoto lasciato da media interessati ad altre vite, altre storie, e con i quali nonostante tutto ci era stato chiesto di rimanere in contatto, condividere materiali, comunicati e notizie.
Presto, verso le due di mattina, i primi ma sparuti abitanti del campo ci raggiungono e si siedono con noi di fronte ai cancelli. Si parla in francese, in inglese, in arabo e in farsi, ma sono tutti uomini. Le donne dormono ancora, e finché non arriveranno loro, questo presidio rimarrà poco più di un pic-nic sull’asfalto.
E per un brutto quarto d’ora, questo risulta essere un problema non da poco. Alle quattro di mattina, quando fuori dai cancelli siamo ancora pochi, arriva la prima corriera di polizia antisommossa. Rimangono lontani, ma la loro presenza non passa inosservata. Noi rimaniamo di fronte ai cancelli, assonnati e preoccupati dal numero esiguo degli abitanti del campo. Ma un’ora dopo arrivano le donne, e comincia la musica.
Grace attraversa il cancello e fracassa a terra un insieme disorganico di pignatte, pentole, padelle, coperchi, mestoli, piatti di latta e la stessa tinozza di plastica dove teneva il tutto. Quante seguono si mettono a spingere i cassonetti in mezzo alla strada. Le altre recuperano i propri strumenti e cominciano la battitura. Chi tra i solidali si era appisolato si risveglia sussultando nel mezzo dei cori, del frastuono, dietro barricate improvvisate illuminate dai lampeggianti della polizia, prontamente accesi. Al coro più ricorrente, “Eleonas don’t close”, si intervallano “Tout le monde déteste la police”, “Solidarité avec les immigrés” e alla cassa si succedono incredibili free-style “Congo, Congo, Congo! – Afghanistan, Afghanistan, Afghanistan! – Somalia Somalia Somalia!”. I manifestanti superano a più riprese le barricate, avvicinandosi alla polizia, sorpresa e impreparata, che arretra fino a lasciare libera la strada antistante ai cancelli. Va avanti così per ore, e non si arresta alle prime luci dell’alba, né al sorgere del sole. Grace, indossando sopra il vestito azzurro due copertoni, a un certo punto comincia a distribuire ai presenti delle bandane rosse, ricavate da un pezzo di stoffa, forse una gonna o una maglietta. In molti partecipano al rituale, indossano la bandana, giurano che difenderanno Eleonas fino alla fine. Solo verso le otto di mattina la strada viene liberata per lasciare libero il traffico ai mezzi pesanti dei magazzini circostanti, e la barricata viene riposizionata di fronte al cancello.
Quando arriva la direttrice, Mudira, non viene fatta passare. Sceglie, per oggi, di tornarsene a casa. Il presidio ai cancelli dura fino a mezzogiorno. Ancora una volta, gli abitanti di Eleonas hanno vinto.
La notte tra mercoledì 17 e giovedì 18 siamo nuovamente di fronte a Eleonas. Il 16 stesso, mentre si svolgeva ancora il presidio di fronte al cancello, alcuni abitanti hanno ricevuto dal personale del campo un foglietto che recita, semplicemente: 18/08/22 – 04.00. È l’appuntamento per il trasferimento, e Solidarity With Migrants, dopo una partecipata assemblea tenutasi il 17, lancia l’appello per un nuovo presidio. Fin da mezzanotte arrivano decine di solidali, tra cui molte facce nuove, e molte volontari e volontarie attive nelle diverse Ong di Atene, che stavolta hanno deciso di scegliere un approccio diverso nel proprio impegno.
Sfortunatamente, non sono le uniche ad aver deciso di cambiare approccio.
Dalle quattro di mattina cominciano ad arrivare volanti e corriere di polizia antisommossa. Arriva l’Opke (Gruppo di prevenzione e repressione della criminalità), la polizia anticrimine riconoscibile per il passamontagna, e due reparti di Mat (Unità per il ripristino dell’ordine), la riot police con gli scudi e i manganelli. Presto si schierano di fronte agli abitanti e ai solidali, divisi in due gruppi per presidiare sia l’ingresso principale che quello secondario, da cui ci si aspetta venga effettuato il trasferimento. E senza aspettare troppo, caricano disperdendo il presidio. Entrano nel campo e aprono i cancelli dall’interno.
La tensione continua a salire e l’intera popolazione del campo è ormai sveglia, divisa tra quanti sono paralizzati dalla paura, chiusi nei propri container, e quanti, in numero crescente, fronteggiano la polizia. La risposta è un’altra carica, associata stavolta a granate stordenti e gas lacrimogeni. Mentre gli abitanti si ritirano, resistendo attivamente con quanto a portata di mano, la polizia forma un cordone e la direttrice guida una dozzina di persone, tra cui donne e bambini, ad attraversare il cancello e salire sul pullman, in sosta e a motori accesi a pochi metri dall’entrata del campo. Mentre i lanci continuano, la polizia si ritira e si allontana.
Il bilancio della giornata sarà di una quindicina di persone trasferite, zero fermati o arrestati, qualche ferito lieve tra abitanti del campo e solidali.
Nelle ore successive, sono le decine di video virali dell’aggressione a giocare un ruolo fondamentale, impressionando l’opinione pubblica e costringendo perfino il ministro dell’immigrazione e dell’asilo a difendere l’operato della polizia, “schierata per difendere gli abitanti del campo dall’azione di una minoranza facinorosa”.
Per la prima volta Eleonas è sulle televisioni nazionali, e giornalisti, opinionisti, politici e sociologi si dividono tra quanti condannano l’aggressione dell’una o dell’altra parte. I tweet diventano virali e i post si riempiono dei commenti dei troll. Anche le bacheche delle compagne e dei compagni in vacanza si riempiono e c’è chi comincia a riconoscere nella resistenza di Eleonas una lotta reale. Prima ancora di essere tornati a casa, riceviamo notizia di un altro trasferimento per la notte successiva.
A mezzanotte, a cavallo tra il 18 e il 19, siamo ancora di fronte al campo. Siamo in parecchi e stavolta anche un pugno di giornalisti attendono la notizia. Peccato per loro, questa non si presenterà all’ora stabilita, né tantomeno la polizia o la corriera per il trasferimento. Le ore passano e si è fatta già mattina, i giornalisti se ne vanno e anche molti solidali sono tornati a casa quando la situazione precipita.
Gli abitanti del campo impediscono l’accesso della direttrice al campo, e Mudira stavolta non la prende bene. Immediatamente fa intervenire le unità della polizia anticrimine, che scendono dalle volanti e indossano caschi, guanti e passamontagna. Mentre abitanti e solidali si stringono di fronte al cancello, la polizia si avvicina.
Ancora una volta, sono le donne del campo a comporre la prima linea, tenendo chi in braccio e chi per mano figlie e figli affrontano la polizia, affermano la propria volontà di resistere fino alla fine. C’è chi si strappa i vestiti di dosso e li getta per terra, scoprendo il seno e il ventre gravido. Seguono lunghi attimi di tensione, e prima ancora che ci sia il tempo di realizzarlo un reparto di poliziotti antisommossa è addosso al picchetto, sfonda, mentre i reparti Opke mettono a terra e immobilizzano tutti i solidali uomini su cui riescono a mettere le mani, compresi quanti non si trovavano nemmeno di fronte al cancello e stavano invece documentando, come nel caso di chi scrive. Ci troviamo così ammanettati, prima a bordo della stessa corriera che sarebbe dovuta servire al trasferimento e poi dentro un cellulare. Da lì saremo trasportati al Gada, il commissariato di Atene, dove presto viene portata un’altra compagna. Lì passeremo la notte, prima di essere rilasciati con le accuse di oltraggio, disobbedienza, resistenza all’arresto, interruzione di servizio pubblico e disturbo della quiete pubblica. Ma la dimostrazione di forza, ancora una volta, non ottiene il risultato sperato.
Una volta entrata nel campo Mudira si vede costretta a trovare riparo nel proprio ufficio, mentre gli abitanti fronteggiano coraggiosamente la polizia. Anche stavolta alcuni, come documentato dal tweet del ministro dell’immigrazione, non si limitano alle parole. Vola qualche pietra, e per oltre un’ora la situazione continua a rimanere ingestibile, le donne sempre in prima linea, con diversi momenti concitati in cui la polizia si spinge nuovamente addosso alle presenti. Alla fine tra gli abitanti e la polizia si giunge a una soluzione di compromesso: Mudira, scortata, lascia il campo.
Ancora una volta si accende la bufera mediatica. Eleonas, nelle calde giornate successive a ferragosto, fa il paio con la notizia della bambina morta su di un isolotto nel mezzo del fiume Evros, al confine tra la Grecia e la Turchia, dopo settantadue ore di stenti e nell’inazione colpevole della polizia di frontiera, perfettamente al corrente della situazione. Un nuovo moto di indignazione attraversa il paese: mentre un corteo attraversa il centro di Atene denunciando le politiche di pushback, il governo decide di accogliere il gruppetto di richiedenti asilo. Infine un nuovo scandalo colpisce il governo di Mitsotakis, accusato di aver intercettato illegalmente le comunicazioni del leader di uno dei principali partiti di opposizione.
La linea dura non è bastata a piegare la resistenza degli abitanti del campo. Al contrario, ha contribuito a rendere ancora più precaria la posizione di un governo già in difficoltà, attanagliato da tensioni interne e pressioni esterne. (erasmo sossich – continua)
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