
Avere vent’anni, ora, dovunque. “Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”, scriveva Paul Nizan nel suo Aden, Arabia, mentre masticava polvere nelle colonie inglesi mediorientali, in fuga dal soffocante idealismo della Francia fra le due guerre. Ad Aden non trovò altro che il tallone del potere a schiacciare poveri indigeni sbandati; era la razzia senza ipocrisia, ma pur sempre l’orrore. “È duro imparare la propria parte nel mondo”, e Nizan imparò a sue spese che era necessario tornare in patria per lottare faccia a faccia con il nemico.
A vent’anni l’ingiustizia brucia, le domande sono martellanti, se si è vivi davvero non c’è tempo per deprimersi o delegare. Da giovani si può contare su forza fisica, capacità di rischiare, coraggio, e si può addirittura morire per quelle idee che ci vogliono far credere svuotate di senso. La marea di ribellione che attraversa i paesi arabi di questi tempi ha alla testa loro, i giovani, quelli fieri e stufi della fuga, non più sbandati ma organizzati, laureati e manovali, contadine e studentesse. In Tunisia, metà della popolazione è sotto i venticinque anni; il sessanta per cento degli egiziani hanno meno di trent’anni, lo stesso in Algeria, in Palestina, in Siria. Una gioventù in cerca di un posto nel mondo, innescata da reti e conoscenze che viaggiano su più canali, affamata di orgoglio e patriottismo. Mentre in Europa la carica potenziale dei giovani è assuefatta al controllo, la gioventù araba spezza l’oppressione e prende in carico la responsabilità del proprio tempo, del proprio paese. Che si stia aprendo il decennio dei giovani arabi?
Un arabo che non dimenticherò è Nasim, nato a Gaza City vent’anni fa. L’ho incontrato a Istanbul, nei viali ordinati dell’università migliore della Turchia. Ci era arrivato non con i soldi ma con il cervello e l’ansia di conoscere, grazie allo scholarship della mobilità studentesca. Già, le borse di studio, anche se poche, arrivano perfino a Gaza. Del fatto di aver vinto per gli ottimi voti non ne parlava con gioia. Andare via aveva significato lasciare i suoi cari nel tumulto, era stato accusato dagli amici di voltare le spalle alla causa palestinese, e quest’offesa gli bruciava più di qualunque altra. In realtà, la mente tornava sempre lì, non c’era discorso in cui la Palestina non si proiettasse al centro o sullo sfondo, perenne inizio e fine della sua azione e del suo ragionare, impossibile da dimenticare come una ferita sempre aperta.
Nasim era partito per qualcosa, non era fuggito, continuava a ripetermi. Aveva un progetto: acquisire competenze, guadagnare denaro, tornare più forte. E nel frattempo tastare il polso del mondo per distinguere gli amici e i nemici, per capire se in occidente ci fosse qualcosa di buono. Non amava la guerra, ma era pronto a farla. Sapeva bene che l’esercito israeliano non attende altro che la resa sfinita dei Palestinesi per imporgli le proprie condizioni. Eppure cercava di convincersi ogni giorno di aver trovato un altro modo per resistere, un altro piano su cui combattere.
Una delle prime cose che mi disse è che io non sapevo niente della differenza tra bene e male. Non ci avevo mai ragionato veramente, come lui. «Non esiste un modo per sapere che cosa sia giusto fare, capisci? Ci puoi sbattere la testa quanto vuoi, non lo saprai mai, alla fine è arbitrario, il giusto semplicemente non c’è. Quando sento dire che uccidere è sbagliato, cerco sempre di capire se chi parla ha mai dovuto farci i conti veramente. Se io uccido per difendermi e per vendicarmi, e se attorno a me il bene senza ombra di dubbio sembra questo, cos’è il mio agire allora? Giusto? Sbagliato? Mi oppongo contro una potenza imbattibile, convinto di lottare per la giustizia, e per i miei fratelli divento un eroe. Vado verso una morte certa che ha l’onore di un sacrificio per il mio popolo e tengo accesa la speranza. Allora chi può dirmi che sto facendo il male?». In Palestina si cresce con l’odio piantato nel cuore. Tutti possiamo provare a immaginare la realtà dell’occupazione a Gaza, la scarsità di risorse, la costante indeterminatezza della vita. I dati ci sono, le informazioni girano. Ma serviranno solo a capire che forse non sappiamo niente del bene e del male, di cosa sia giusto fare quando si tratta di scegliere a quelle condizioni.
«Per alcuni è più facile anche solo ammazzare un soldato israeliano, e che tutto vada in malora. Almeno così non dovranno più scegliere. Perché ti senti impotente. Molti miei amici sono entrati in Hamas per questo, da quel momento non li ho più visti. Diventano delle ombre, diventano soldati, e Gaza è con loro. Devi sapere in che condizioni operano. I missili che lanciano oltre il confine con Israele sono dei catorci fatti in casa. Quando atterrano non esplodono nemmeno, tutto il carburante serve per farli volare. I militanti vanno nella boscaglia al confine e se non scoppiano su una mina, piazzano un missile, lo accendono con la miccia. Il fatto è che i sensori di Israele sono così potenti che dopo dieci secondi che il missile è partito, arriva una bomba di Tsahal esattamente nel punto di lancio. Così Hamas ha iniziato a usare i timer delle vecchie lavatrici. Li azionano e scappano. Si resiste anche in altri modi. Un uomo a Gaza diventò famoso per aver inventato una sorta di difesa pacifica, si chiamava Selim. Tempo fa, Israele prima di bombardare una zona di Gaza lanciava volantini avvertendo la popolazione di fuggire. Quest’uomo era stufo di veder crollare case. Allora quando un giorno caddero quei volantini dove abitava lui decise di chiamare a raccolta più gente possibile, attivisti occidentali, giornalisti, passanti. Andarono tutti sul tetto, e che provassero a bombardarli. Infatti non lo fecero, prima Israele evitava di uccidere occidentali. A Selim andò bene un altro paio di volte, ma un giorno distrussero casa sua ammazzandolo con tutta la famiglia. I volantini avevano smesso di lanciarli».
I racconti di Nasim non finivano mai. Come la storia raccontatami cento volte del modo rocambolesco con cui era giunto in Turchia. L’espatrio in Egitto da clandestino, l’indifferenza di quei fratelli musulmani, le notti al Cairo con la paura della polizia. Fino al visto benedetto. Anche se le strade di Istanbul catturano e mangiano i sogni, lui vede solo la Palestina davanti a sé. Disciplinato, severo con le sue debolezze, la battaglia è appena all’inizio. A Gaza come a Tunisi, come al Cairo, a Tripoli, ad Algeri, a Beirut, a Teheran, queste storie dovremmo ascoltarle tutte e smettere di provare compassione, imparando invece dalla loro fierezza. Noi, che piuttosto che di inutili armi, siamo a corto di immaginazione e desiderio di cambiare. (salvatore de rosa)
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