Kwandwo lavora come bracciante agricolo a Pascarola, una frazione del comune di Caivano a una trentina di chilometri da Napoli, è da circa un anno in Italia, non parla molto l’italiano ma annuisce. Samuel è qui da quattro anni e lavora con lui. Mi spiega che il nome dell’amico significa lunedì in Twi, la lingua del Ghana: «Da noi, in famiglia ci si chiama con il nome del giorno in cui si è nati, poi abbiamo il nome ufficiale. Tu in che giorno della settimana sei nato?». Non lo so, qui diamo più importanza al giorno del mese per via dei santi, gli spiego. «Ah, ma che dici? Tua madre sicuro lo saprà!», mi risponde. Insieme a un’altra trentina di immigrati e a una ventina di italiani, per lo più attivisti e giovani che animano le scuole popolari di italiano per stranieri, eravamo in uno dei due autobus partiti da Napoli sabato 12 novembre per partecipare alla manifestazione nazionale promossa dalla rete Campagne in Lotta a Roma.
La condizione di sfruttamento che i braccianti migranti vivono nelle campagne italiane è da anni sotto gli occhi di tutti. Una condizione determinata soprattutto dalla vulnerabilità a cui la loro situazione giuridica li espone. Il vincolo al possesso di un contratto di lavoro per l’ottenimento del permesso di soggiorno che prescrive la normativa italiana in materia d’immigrazione, sembra non sapere che quando si guarda al settore agricolo il grande assente è proprio il diritto del lavoro. Così come la rigidità rispetto all’ottenimento del certificato di residenza necessario al rinnovo del permesso di soggiorno e soprattutto al godimento del diritto alla salute e all’istruzione, sembra non riconoscere il fatto che migliaia di lavoratori immigrati vivono in villaggi-ghetto auto-costruiti a ridosso dei campi di lavoro o in occupazioni abitative.
Quella che da vicino sembra già un’ingenuità interessata, da lontano si trasforma in qualcosa di ben più profondo. Se è vero che le norme sull’immigrazione piuttosto che regolare rapporti paiono produrre fattispecie giuridiche funzionali a una certa articolazione dei rapporti di produzione, e se la gerarchizzazione dell’accesso alla cittadinanza è un potente dispositivo di inclusione differenziale nel mercato del lavoro, è la stessa strutturazione della società e del lavoro su base razziale a rendere la vita più difficile per gli immigranti la cui unica possibilità di esistenza consiste nel vendere il proprio sudore. Come fa notare efficacemente un libro curato dalla giurista Enrica Rigo (Leggi, Migranti e Caporali, ed. Pacini Giuridica, 2015), se si osserva che molti immigrati che lavorano nelle campagne sono regolari o possiedono una qualche forma di protezione (e spesso i centri di accoglienza si trovano proprio nelle zone di produzione agricola), per quanto il possesso del permesso di soggiorno sia importantissimo per tutta una serie di ragioni – è bene precisarlo – esso non è determinante ai fini di un maggiore o minore sfruttamento. La razza è come se costituisse il “plusvalore del plusvalore” che il sistema di sfruttamento del lavoro consente, nelle campagne come nelle metropoli. É così che la ricattabilità degli immigrati costretti ad accettare paghe misere e condizioni di lavoro durissime si trasforma nel vantaggio dei gruppi della grande distribuzione alimentare – che determinano il prezzo dei prodotti agricoli al quale poi i produttori locali si devono adeguare comprimendo i salari per sperare di competere – e in quello dei colossi dell’e-commerce e della distribuzione – che dettano le regole a facchini e padroncini nel settore della logistica, anch’esso con una forte presenza di immigrati.
Ricondurre le esplosioni di razzismo popolare, come i recenti fatti di Gorino, al timore per la rottura dell’armonia di una non meglio specificata comunità organica è allora fuorviante e rischia di fare il gioco dei Trump, dei Grillo e dei Salvini di turno. Essi sanno perfettamente che il razzismo è un potente strumento di strutturazione di rapporti materiali e ne capitalizzano il discorso fomentando odio e paure che nulla hanno a che fare con la possibilità di convivenza nelle differenze. Confondere i sintomi con le cause è sempre stata una strategia di conservazione dell’ordine di una società razzista e divisa in classi. Così, il progressivo abbassamento dei salari e delle condizioni di vita della popolazione e la riduzione del lavoro per gli autoctoni si imputa ai migranti piuttosto che a un sistema alla ricerca di una sempre maggiore capacità di estrazione di valore dalla natura e dal corpo sociale – nero, bianco, giallo o a pallini che sia.
Lamin ha ventisei anni, lo incontro vicino al furgoncino alla testa del corteo, dietro un grande striscione con scritto “We Need Yes”, lo slogan che dalle campagne del foggiano giunge a Roma e chiede risposte positive ai problemi dei braccianti agricoli. Viene da un villaggio del Gambia, vive a Torino ed è qui con un gruppo di amici. Parliamo alternando inglese e italiano: «È da due anni che sono in Italia. Ho fatto richiesta di asilo, il mio paese è sotto dittatura da venti anni, tortura e persegue gli oppositori, ma al colloquio per il rilascio della protezione non sono stato molto furbo, ho detto che cerco lavoro e voglio essere libero di andare dove mi pare. Perché voi potete muovervi e noi no?». Lamin segue col corpo il ritmo della musica che intervalla gli slogan e gli interventi al microfono dal furgoncino. Quando (non senza retorica) gli chiedo come se la passa, mi risponde con i versi di una canzone di Kendrick Lamar: «Fratello, I said they treat me like a slave, cah’ me black / Woi, we feel a whole heap of pain, cah’ we black / And man a say they put me in a chain, cah’ we black.» C’è bisogno che traduca? Poi si accende e aggiunge: «Ma tu conosci la storia di Kunta Kinte? Era del Gambia, un guerriero, lottava con i leoni nella foresta ma poi fu fatto schiavo negli Stati Uniti. Tentò di fuggire varie volte fino a quando gli amputarono un piede. Io ho attraversato il deserto e sono rimasto intrappolato per due anni in un campo di detenzione in Libia, poi sono riuscito a scappare e con un barcone sono arrivato a Lampedusa, poi in Sicilia e da lì a Torino. Sono sopravvissuto al campo e al Mediterraneo. Fin quando avrò gambe non mi fermerò!».
È dei giorni scorsi, 17 novembre, la notizia dell’ennesimo naufragio a largo delle coste libiche, solo ventisette superstiti ripescati in mare, un centinaio di dispersi. Appena il giorno prima, il rapporto sulla protezione internazionale redatto da ANCI, Caritas Italiana, Cittalia, Fondazione Migrantes e Servizio Centrale dello SPRAR, in collaborazione con l’UNHCR, informava che da gennaio alla fine di ottobre di quest’anno 4.899 migranti sono morti nel tentativo di raggiungere l’Europa, 3.654 nel Mediterraneo. Inutile commuoversi. Come ci ricorda il filosofo camerunese Achille Mbembe, le “politiche di morte” si riproducono in forme diverse dalla modernità coloniale alla tarda modernità neoliberale: «Uccidere o permettere di vivere definiscono perciò i limiti della sovranità, i suoi attributi fondamentali». Con buona pace dei proclami renziani che degli aiuti in mare e dell’accoglienza ne fanno solo una partita di scambio economica con l’Unione Europea.
Peccato a Roma fossimo poco più di duemila persone. Ma ritrovarsi fianco a fianco con Lamin, Samuel, Kwandwo e i braccianti della piana di Gioia Tauro, di Rosarno, di Borgo Mezzanone, del foggiano, dell’aversano, con gli immigrati del movimento di lotta per la casa romano, i facchini emiliani della logistica, i cassintegrati della Fiat di Pomigliano e i gruppi di migranti e autoctoni delle metropoli di Torino, Milano e Napoli, è stato importante, al di là dei risultati incerti di un incontro con un tecnico al ministero degli interni. Un primo passo è stato fatto con il protagonismo dei migranti. Contro una tendenza latente che considera la “causa dell’altro” come secondaria rispetto a una presunta Lotta con la L maiuscola e il paternalismo di molte associazioni che pure fanno un ottimo lavoro nei territori, altri passi bisognerà fare per mettere l’antirazzismo al centro del nostro agire. Perché, come osservava il filosofo Jacques Ranciere, quando si chiedeva cosa dovesse spingere il bianco occidentale nelle lotte a fianco degli algerini in Francia durante la guerra di liberazione o in quelle contro gli scarti odierni della cittadinanza: «la politica esiste perché esiste una causa dell’altro». Migrante, indigeno, donna, gay, lesbica, o queer che sia. (giuseppe orlandini)
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