Alberto Elvira, un uomo di circa sessant’anni, si è buttato da un balcone del quarto piano durante lo sgombero da un palazzo di proprietà del comune di Barcellona. È successo in una parte della città che conosco bene, il quartiere di Bon Pastor, dove fin dal 2007 il comune di Barcellona ha demolito il vecchio complesso di case popolari, le cosiddette casas baratas, quasi ottocento casette a un piano costruite negli anni Venti del Novecento. Era uno dei quartieri di case popolari più antico della città, un monumento vivente al tempo in cui Barcellona era una città veramente popolare, fatta di sindacati anarchici, scuole sperimentali e atenei autogestiti di cultura operaia. Da Bon Pastor era partito il primo grande sciopero dell’affitto, nel 1931, che si estese poi a tutti i quartieri popolari. Settanta anni dopo, tutti gli inquilini sono stati prima persuasi, poi obbligati, a trasferirsi in nuove palazzine, costruite a risparmio sulle macerie delle vecchie case, per concentrare gli abitanti in meno spazio. I più riluttanti sono stati sgomberati a manganellate, il 19 ottobre del 2008; dopodiché, la resistenza è stata più che altro simbolica. La maggior parte faceva buon viso a cattivo gioco, mentre il quartiere precipitava nel vuoto.
È paradossale che Alberto si sia lasciato cadere proprio da un balcone delle palazzine, alte com’erano alte le aspettative di ascesa sociale che tanti abitanti vi avevano proiettato sopra. Nelle vecchie casette gli abitanti passavano gran parte del loro tempo sulla porta a prendere il fresco, spesso in grossi gruppi, mentre guardavano i bambini giocare in strada. “Stare sulla porta” o “stare in strada” voleva dire anche essere disponibili gli uni verso gli altri. Gran parte degli abitanti di ogni strada erano sicuramente litigiosi e pettegoli, e il quartiere aveva una pessima fama; ma per chi ci abitava era soprattutto una grande rete di mutuo aiuto, fatta di generazioni di famiglie intrecciate, provenienti da tutti gli angoli dello stato spagnolo, e su cui contare nei momenti di difficoltà. Trasferiti nei palazzi, si sono trovati isolati, dispersi, e allontanati dalle strade che li tenevano insieme. I nuovi edifici erano oggetti alieni, fonte di emozioni ma anche di insicurezza. Ai primi trasferimenti, gli abitanti non avevano familiarità con l’ascensore, con le scale, con i balconi; un’anziana aveva paura di affacciarsi, un’altra non riusciva più a scendere in strada. Si entrava finalmente in una nuova epoca, in un quartiere più moderno, ma anche obbligatorio.
Mi ricordo di Alberto quando viveva ancora nella casetta della madre, seduto sul gradino dell’entrata a leggere, all’ombra dei grandi alberi piantati dagli stessi abitanti. Come tutti, si era trasferito nel nuovo appartamento, con la madre; non so se erano favorevoli o contrari alla demolizione delle casette, ma dopo la violenza del 2008 gli abitanti preferivano non parlare più del tema. Molti andarono e basta, godendosi l’aumento di spazio e di privacy, preoccupati soprattutto di non riuscire più a pagare. Ci abbiamo messo qualche anno a capire che l’obiettivo del progetto, pianificato negli anni della “bolla” immobiliare, era spingere abitanti potenzialmente insolventi ad aprirsi un mutuo con le banche, con la garanzia del Comune. Con i subprime, le banche speculavano proprio su chi non poteva pagare: infatti molti provarono il mutuo e presto capirono che non ce l’avrebbero fatta. Ma gli affitti erano disincentivati; costavano cinque, dieci, venti volte di più che nelle casette. C’era la possibilità di prendere dei “vitalizi”, che però scadevano alla morte dei titolari. I vecchi contratti delle casette invece si potevano passare ai figli.
Nel giro di pochi anni sono arrivati gli sfratti. Con la crisi del 2008 centinaia di famiglie rimasero senza reddito, gli aiuti municipali non bastavano, e tutta l’economia della città (e dello stato) fece un balzo indietro. Non si riusciva più a vivere di lavoretti, arrotondando e pagando poco l’affitto, come avevano sempre fatto gran parte degli abitanti. Le reti di mutuo aiuto tra vicini erano state disgregate dal trasferimento e da molti anni di conflitti interni dopo lo sgombero, fomentati da un’associazione di quartiere che difendeva fanaticamente le demolizioni, stigmatizzando chiunque criticasse il Comune. Molti non riuscirono ad abituarsi alla nuova struttura economica e sociale. L’entusiasmo per il movimento degli Indignados e per la nuova amministrazione municipale si spense subito, appena la sindaca Colau riprese senza alcuna modifica il piano di demolizioni e trasferimenti forzati; diventò aperta ostilità quando la sindaca “ribelle” promosse il progetto di un grande fondo speculativo proprio accanto al quartiere, che mirava a costruire un centro residenziale e universitario privato d’élite. Mentre gli affitti della zona continuavano a salire, a tanti abitanti non rimasero che le solite strategie di sopravvivenza: traffici illeciti di ogni tipo, o subaffittare le stanze degli appartamenti comunali. È quello che iniziò a fare Alberto, che dopo la morte della madre non poteva più pagare.
Alberto aveva minacciato che se lo cacciavano si sarebbe ucciso. Il giorno prima aveva incontrato Josep, dell’associazione Avis, Abitanti indipendenti e solidali, l’unica struttura organizzata che si era opposta alle demolizioni, e che continua a difendere gli abitanti. I suoi attivisti sapevano che Alberto aveva problemi con la casa ed erano pronti a esporre il suo caso in un incontro con l’amministrazione. Ma Alberto gli aveva detto: «Ho risolto tutto». Chissà cosa aveva risolto. Non era in casa quando sono arrivati i poliziotti. È salito ed è corso sul balcone. Dal balcone gridava che si sarebbe buttato. Ha chiamato al telefono una vicina per dirle che stava per buttarsi. I poliziotti da sotto lo prendevano in giro, dicendo che fingeva; non hanno chiamato i pompieri, né hanno messo i teli. Sono saliti per sgomberare l’appartamento. Quando Alberto ha sentito la porta aprirsi, si è girato di schiena, ha incrociato le braccia e si è lasciato cadere.
Non avevano neanche tolto il corpo dal marciapiede che la presidentessa del distretto, Lucía Martín, di Podemos, era già in conferenza stampa per ribadire che il Comune non ha colpe – nonostante l’appartamento fosse comunale e lo sfratto ordinato dal Comune. Ma “questa è la procedura” in caso di “uso improprio dell’appartamento”. A pochi sfugge l’ironia tragica di un suicidio durante uno sfratto, in una metropoli governata da un’attivista per la casa, che aveva promesso una “città ribelle” in cui mettere al centro la questione degli alloggi. È comprensibile che non si riesca a influire sugli affitti privati, sul turismo, su Airbnb, sugli alberghi e sulle grandi navi che assediano la città. Ma questa era una casa popolare, in un quartiere di case popolari, di proprietà e gestione a carico dell’amministrazione municipale.
Il giorno dopo la morte di Alberto, nel quartiere si sono radunate circa trecento persone da tante parti della città. C’erano gli abitanti, i vicini, soprattutto quelli delle casette, poi gli attivisti di Avis e le militanti dei diversi sindacati abitanti della zona. È insolita questa commistione in un quartiere in cui le strutture di movimento hanno sempre avuto difficoltà a penetrare – per questioni culturali, geografiche, anche linguistiche. Gli abitanti sono intervenuti in un catalano stentato, quello dei migranti spagnoli; hanno chiesto che si smetta di parlare male di Alberto, perché nessuna infamia può giustificare la sua morte. Le loro parole risuonavano perfettamente con quelle degli attivisti. La locandina che chiamava la piazza diceva: “Non sono suicidi: sono omicidi”.
Una ragazza ha fatto l’intervento conclusivo. «Non possiamo considerare normale questa situazione. Stanno attentando quotidianamente contro le vite delle classi lavoratrici. Accusiamo il Comune, la Regione e il governo spagnolo: siete i responsabili e lo sapete! Dovete riconoscere l’inefficacia di queste istituzioni, chiunque sia a governarle. Dovete chiedere scusa per la conferenza stampa di ieri, in cui avete cercato di sviare l’attenzione e di scaricarvi le responsabilità che sapete di avere. Se le cose non funzionano, e voi non avete la capacità di cambiarle, dovete essere sinceri; e soprattutto responsabili, dirlo chiaramente. Mentire, insinuare, per cercare di giustificare l’assassinio di Alberto, delegittima le vostre cariche e il vostro lavoro. Avete detto che le esecuzioni giudiziarie sono un’eccezione nelle case popolari? Dimenticate gli sgomberi amministrativi, che neanche passano per un giudice, quando viene direttamente la Guardia Urbana a cacciarci di casa. Dimenticate tutti gli sgomberi che abbiamo fermato sulla porta, con le vicine organizzate che hanno fermato la polizia. O quelli che abbiamo fermato in tribunale. Non cercate di imbrogliarci. Non siamo stupide.
«Anche i servizi sociali dipendono dal Comune, e sono totalmente inefficaci. I fondi per gli sfrattati sono miseri, ci pagate pensioni e alberghi, e avete fatto un contratto milionario con un’impresa turistica per alloggiarli. Ma la capacità di trasformare tutto questo non verrà dal Comune, né da nessuna altra amministrazione. La capacità di trasformazione è nelle nostre mani. Lottiamo e facciamo politica, perché anche questa è politica, ma la facciamo per strada». E poi, rivolta al quartiere, agli abitanti, a noi: «Non esitate a organizzarvi: sul lavoro, nelle associazioni, nei sindacati degli abitanti, nelle reti, nelle assemblee di vicini, dappertutto. Alberto, compagno, che la terra ti sia lieve. Continueremo a lottare perché questo non succeda più». (stefano portelli)
Leave a Reply