I due anni quasi di pandemia che abbiamo vissuto sono stati caratterizzati da un regime di eccezionalità da un punto di vista normativo. L’utilizzo a oltranza del cosiddetto “stato d’emergenza” ha rappresentato un unicum nella storia del paese, durante il quale hanno proliferato provvedimenti emergenziali e si sono create condizioni da cui, in alcuni casi, sarà molto difficile tornare indietro. Allo stesso tempo, è evidente come alcune delle restrizioni legate al contenimento dell’epidemia siano state utilizzate per intervenire in campi come la gestione dell’ordine pubblico o delle lotte sui luoghi di lavoro. In altri casi, come quello del sistema carcerario, l’emergenza è da sempre ordinarietà.
L’epidemia di Covid-19 è arrivata in un momento estremamente critico per l’istituzione totalitaria, facendo riesplodere il problema-carcere nella sua complessità, come dato strutturale. Il lavoro svolto dalla Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel 2017 non ha avuto d’altronde in questi anni alcun seguito, con una decisa preferenza per la produzione legislativa occasionale, non ispirata da modelli di riforma organica. Il ministro Cartabia, dal canto suo, ha di recente affermato di avere il carcere come priorità nella propria agenda politica, ma è lecito dubitare che le condizioni politiche attuali rendano possibile l’attuazione di una riforma.
Eppure, il virus ha esacerbato le tensioni in un contesto dove sovraffollamento, strutture fatiscenti e mancata informazione hanno contribuito ad alimentare la paura tra i detenuti. A differenza della percezione rispetto alla diffusione/gestione del virus all’esterno, però, se si ragiona sul carcere, non è possibile procedere per categorie ordinarie. Al febbraio 2020 la popolazione detenuta ammontava a 61.230 soggetti, a fronte di una capienza carceraria di 50.931 unità: un tasso di sovraffollamento pari al 120%, un fattore esponenziale del rischio-contagio del tutto ignorato nella gestione della pandemia. In risposta a questa situazione, anzi, il governo impose da subito il blocco dei colloqui tra detenuti e familiari, innescando numerose rivolte in tutto il territorio nazionale, durante le quali tredici detenuti sono morti.
Ma cosa ha rappresentato l’epidemia che ha sconvolto il mondo, per i detenuti? Cosa hanno rappresentato le rivolte in carcere del marzo 2020? Cosa ha rappresentato la conseguente repressione, le tredici morti, le violenze indiscriminate della polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020? A queste domande prova a rispondere Carcere e Covid. Dalle fake news alle leggi emergenziali, un libro dell’attivista Sandra Berardi, pubblicato da StampAlternativa. Il volume pone domande e fornisce risposte attraverso una ricostruzione scrupolosa degli eventi, ma soprattutto mettendo in collegamento i vari pezzi del mosaico, come quando l’autrice si sofferma sul rapporto tra emergenza sanitaria e securitarismo, tra la galassia dei media e il sempre vivo fantasma di un “ritorno della mafia”.
Nel tentativo di limitare l’espandersi del contagio, infatti, il governo aveva deliberato, con il decreto “Cura Italia”, un’estensione (di dubbia efficacia) delle possibilità per la concessione delle misure di detenzione domiciliare. La gestione dell’emergenza veniva lasciata però alle decisioni della magistratura di sorveglianza, i cui provvedimenti furono fonte di asprissime polemiche, dal momento che avevano disposto le scarcerazioni, per motivi di salute e per rischi legati all’evolversi della pandemia, anche di alcuni esponenti della criminalità organizzata in regime di 41-bis.
L’evento fu letto a livello mediatico con il filtro del sensazionalismo, eludendo le questioni e le analisi a più ampio raggio, come se ogni cittadino italiano si trovasse di fronte a un imminente pericolo a causa della scarcerazione di quegli uomini spesso anziani e malati. Eppure, il governo ritenne di “dover rimediare” alle decisioni della magistratura attraverso un decreto legge che imponeva ai magistrati un monitoraggio dei provvedimenti con i quali veniva disposta la detenzione domiciliare nei confronti di condannati per gravi reati, finendo per confondere così legislazione e giurisdizione; una confusione che a distanza di quasi due anni permane, con lo scudo del contagio che continua a consentire una gestione del carcere fortemente orientata dalle singole direttive del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il 10 novembre 2021, per esempio, il Dap ha emanato una circolare in cui affronta alcune problematiche della gestione sanitaria in carcere, stabilendo due soglie di rischio: la prima (quando detenuti e personale contagiati sono il 2% del totale delle presenze in istituto) prevede restrizioni alle attività ricreative, sportive, culturali, scolastiche e di formazione. La seconda (fissata al 5%) prevede ulteriori limitazioni alla socialità e la raccomandazione di indossare la mascherina protettiva anche nelle stanze di pernottamento. Intanto, solo per dirne una, le attività formative e trattamentali sono ancora lasciate all’estemporaneità e alla casualità.
Nel suo libro Berardi evidenzia come il carcere sia “l’espressione dell’incapacità della nostra società di essere comunità, attenta ai bisogni e ai malesseri di ognuno”. La diffusione del virus è stata utilizzata strumentalmente dalla politica, su forte pressione dei media, per mettere in atto azioni volte a restringere i già limitati spazi di libertà presenti nella vita dei detenuti. Si è in attesa, per esempio, di comprendere se verrà approvata o meno – con i pareri favorevoli di molte sigle sindacali della polizia penitenziaria – la sospensione del regime di sorveglianza dinamica, prevedendo che questa venga “concessa” solo a coloro i quali si trovino nelle sezioni ordinarie a trattamento intensificato. Il problema della gestione sanitaria del Covid si inserisce insomma a pieno titolo nella endemica disfunzione della gestione sanitaria all’interno delle carceri, incidendo sulle condizioni di vita, sui rapporti tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria; non è un caso che ci siano state proteste da parte della popolazione detenuta come non accadeva da decenni, e non è un caso – come spiega Berardi – che ci sia un forte rapporto tra proteste e carceri nei quali regna il sovraffollamento.
È evidente a questo punto la funzione dei media, cruciale non solo nella narrazione ma anche nel processo di consolidamento delle dinamiche securitarie ed emergenziali, che siano queste dettate da scenari come quello vissuto durante la pandemia o da altri come lo spauracchio del potenziale ritorno sulla scena di organizzazioni criminali con pratiche di tipo stragista. In questo scenario elementi oggettivi come le condizioni di malattia, la lunghezza residua della pena, le garanzie costituzionali vengono messe in secondo piano rispetto a percezioni che costruiscono artificialmente il sentire pubblico, a cominciare dalla cosiddetta presunta “pericolosità sociale”. Insomma, libri come questo dovrebbero avere una diffusione importante, per provare a bilanciare, seppure con strumenti infinitamente meno potenti di quelli di cui dispone la parte avversa, un dibattito che manca nella società civile del nostro paese da troppo tempo. (gaia tessitore)
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