Il Gruppo di supporto psicologico per i familiari dei detenuti che si sono tolti la vita o che sono deceduti per altre cause in carcere nasce nel mese di luglio, dopo un contatto tra alcuni attivisti e attiviste e i familiari di un ragazzo che si sarebbe suicidato inalando il gas del suo fornelletto, nel carcere di Modena.
È possibile seguire le riunioni del gruppo ogni venerdì, dalle 17:45 alle 20:00. Le riunioni avvengono tramite una piattaforma on-line, con il supporto del dottor Vito Totire, psichiatra, attivista e portavoce del circolo “Chico Mendez” di Bologna. Durante gli incontri ognuno può raccontare la propria storia, parlare del proprio dolore e confrontarsi con altre persone che hanno vissuto la tragica esperienza di familiari morti all’interno delle carceri. Il link per accedere alla riunione settimanale viene pubblicato qualche giorno prima dell’incontro sul gruppo Telegram “Morti in carcere” e su quello Whatsapp “Sportello di supporto psicologico per i familiari dei morti in carcere” .
È possibile ricevere informazioni, ma anche raccontare in forma scritta la storia propria e del proprio familiare, anche scrivendo all’indirizzo e-mail dell’associazione Yairahia Ets (yairaiha@gmail.com). Avvocati, volontari, membri di associazioni, garanti delle persone private della libertà sono invitati a unirsi e a condividere il proprio punto di vista.
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La storia di Stefania Calabria è la storia di una singola persona, ma rappresenta un dramma che coinvolge tanti detenuti. Non poter essere accanto a un familiare malato o partecipare a un funerale a causa delle restrizioni dettate dalla legge può avere un impatto pesantissimo sulla salute mentale delle persone recluse.
Durante il ricovero del padre in ospedale, mentre l’uomo lottava per la sua vita, a Stefania è stata revocata la misura alternativa e non le sono state concesse tempestivamente le chiamate con il padre, nonostante avesse presentato dettagliata documentazione medica per dimostrare la gravità della situazione. Tra le varie richieste, l’istituto in cui Stefania è detenuta pretendeva il deposito del contratto della SIM che sarebbe stata utilizzata per le chiamate. Appena ha saputo dell’aggravamento di suo padre, Stefania ha chiesto un permesso di necessità per andare a trovarlo, ma non ha ricevuto risposta. A oggi non si sa neppure se la richiesta sia stata inviata al magistrato competente dal carcere o sia rimasta in un cassetto. Fatto sta che Stefania non ha potuto vedere suo padre, né addirittura scambiarci qualche parola al telefono prima che morisse.
Ben diciotto giorni dopo il decesso, a Stefania è stato concesso un breve permesso “per poter partecipare al funerale” di suo padre, un segnale di quanta poca considerazione venga data alla sofferenza e al bisogno di supporto emotivo dei detenuti. È estremamente complesso, tra l’altro, affrontare il momento dell’addio a una persona cara sapendo che presto bisognerà tornare in carcere, in isolamento dal proprio mondo affettivo, lontano dai propri cari e dalla possibilità di vivere con loro il lutto.
Permessi in circostanze simili sono da considerarsi di fatto un privilegio concesso solo a pochi detenuti, spesso in casi specifici legati a condanne non troppo severe o alla non pericolosità del detenuto, ostacolati in ogni caso da lunghe e complesse procedure burocratiche. Un iter che si trasforma in una vera corsa contro il tempo, con il risultato che la maggior parte dei detenuti non può beneficiare di questa opportunità e dare un ultimo saluto al proprio caro.
Altra pratica inaccettabile è quella di portare i detenuti scortati dagli agenti penitenziari in manette ai funerali, umiliazione che aggrava la condizione psicologica in un momento già estremamente difficile come quello dell’ultimo addio. Per tutti i detenuti che hanno vissuto esperienze del genere, le conseguenze psicologiche sono enormi. La privazione delle relazioni familiari, soprattutto in momenti di grande fragilità come lutto o malattie gravi, provoca ansia, stati depressivi, frustrazione, rabbia e senso di abbandono. Stati che talvolta finiscono per inibire o addirittura compromettere il percorso di riabilitazione dell’individuo, creando nuove aree di vulnerabilità nella sua personalità.
Se, come sentiamo dire di continuo, obiettivo della pena sono la riabilitazione e il reinserimento del reo, è necessario garantire ai detenuti il diritto di essere umani, e da ciò non può prescindere la possibilità di stare accanto alle persone care nei momenti di bisogno o la presenza di un adeguato supporto psicologico in queste delicate fasi. I detenuti si trovano invece ad affrontare traumi e difficoltà emotive senza alcun aiuto professionale, spazi sicuri di ascolto e possibilità di elaborare le proprie emozioni.
Il 6 novembre scorso Stefania aveva intrapreso uno sciopero della fame per ottenere i colloqui interni con il suo fidanzato. Anche a lui era stata revocata la misura alternativa (obbligo di firma) ed era stato tra le ultime persone a stare vicino al padre della sua compagna. Con questa protesta Stefania voleva dimostrare la sua determinazione e l’importanza che attribuiva a questa richiesta. I colloqui interni con il fidanzato sono fondamentali per il suo benessere emotivo e psicologico. In settimana gli sono stati concessi e ha terminato la protesta. (luna casarotti, yairaiha ets)
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