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reportage
27 Settembre 2018

Casablanca, breve storia di un quartiere raso al suolo

Monitor

Lo scorso venerdì un contingente di circa duemila poliziotti, militari e altre forze dell’ordine hanno fatto irruzione nel quartiere di Douar Wasti di Casablanca, al centro dell’area industriale litoranea di Ain Sbaa. Nel giro di poche ore l’intero quartiere è stato sgomberato. Oltre mille e trecento abitazioni sono state demolite dalle ruspe e gli abitanti, oltre cinquemila, con un grandissimo numero di bambini, costretti a recuperare i propri oggetti in poco tempo e ad ammassarli sull’asfalto.

Le negoziazioni che andavano avanti da diversi mesi sono state interrotte unilateralmente dal governo, che ha offerto agli abitanti dei lotti di terreno su cui edificare, in aperta campagna, senza neanche i finanziamenti che sono spesso offerti ai titolari di cosiddette “baracche”, cioè abitazioni non regolamentari, autocostruite, su terreni occupati o contestati. Come avviene in molti quartieri di rialloggiamento, il trasferimento lontano dalla città per molti significherà la perdita del lavoro, dell’accesso ai servizi, nonché la rottura di tutte le reti di relazioni, insomma la fine del rapporto con la città.

Dal 2004 il governo marocchino ha intrapreso l’ambizioso programma Villes Sans Bidonvilles (città senza baraccopoli) che pretende di eliminare le decine di migliaia di abitazioni autocostruite di Casablanca in meno di venti anni.

L’obiettivo “zero baracche” da raggiungere entro il 2020 viene perseguito con enormi sgomberi e trasferimenti forzati, che invariabilmente colpiscono i settori più deboli della popolazione, impoverendoli ulteriormente ma nascondendoli alla vista lontano dalla città. Per gran parte degli abitanti più poveri, infatti, una casa autocostruita vicino a fonti di sostentamento (fabbriche, appartamenti dove fare le pulizie, mercati, il porto) è spesso l’unica risorsa faticosamente conquistata a prezzo di anni di lavoro; inoltre, gli stretti rapporti che si creano negli anni all’interno dei quartieri autocostruiti garantiscono legami familiari e amicali, controllo sociale reciproco, nonché delle strutture economiche che permettono il sostentamento e la cura dei bambini. Per molti, il trasferimento significa dover ricominciare da capo questo lungo percorso di adattamento.

Questo già si vede nei nuovi quartieri come Hay Nassim, dove sono stati rialloggiati migliaia di abitanti dell’antica Medina, cioè del centro della città. I cosiddetti “quartieri informali” demoliti o da demolire sono chiamati Karien, arabizzazione della parola francese carrière, strada, oppure douar, cioè villaggio. Tra di essi vengono inclusi spesso strutture abitative originariamente pianificate, come il quartiere El Hanksul lungomaresud, che hanno la sola colpa di trovarsi in zone economicamente più sfruttabili. Addirittura alcune parti del centro della città, le zone adiacenti alla grande moschea Hassan II, vengono a più riprese considerate “baraccopoli” e demolite, nonostante il loro valore storico, patrimoniale, simbolico.

Per quanto riguarda Douar Wasti, le famiglie sgomberate erano stanziate nella zona sin dagli anni Venti. Da diversi anni negoziavano una regolarizzazione della zona, che si sarebbe presto dovuta trasformare in un “quartiere vero”, un hay, attraverso un progetto di riqualificazione per il quale erano già stati stanziati dei fondi. Il progetto Villes Sans Bidonvilles ha interrotto questo processo, scatenando la tipica appropriazione neoliberale dei terreni urbani. Vicino alla stazione del treno di Ain Sbaa, circondata da quartieri residenziali di maggiore status, Douar Wasti è stata demolito per fare posto a nuove costruzioni, alberghi, appartamenti per classi sociali più alte. Gli abitanti sono giustamente infuriati contro il governo e contro la monarchia che ha mandato a monte tutte le promesse e le negoziazioni.

Lo sgombero è stato violento e molti sono terrorizzati: soprattutto, in parecchi ricordano di aver visto dei cecchini dai palazzi circostanti, pronti a sparare sulla folla in caso di rivolta. Dopo lo sgombero, in migliaia si sono accampati di fronte alle macerie, dormendo e mangiando in strada, aspettando che qualcuno si interessi al loro caso. Per il momento, pochissimi media hanno dato risalto alla notizia, probabilmente spaventati dalla repressione governativa. Ma come ha detto una donna sgomberata: «La nostra costituzione parla di dignità, di diritti dei cittadini. E invece, con il pretesto di migliorare la situazione, ci buttano per strada? Questa è mafia, è vendetta, non c’entra niente con la nostra lealtà verso il re». «Noi non abbiamo niente contro il re, ma questa volta ha passato la linea», dice un giovane con un bambino in braccio. 

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