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23 Luglio 2014

Castel Volturno, le cose da fare oltre le emergenze

Luca Rossomando
(archivio disegni napolimonitor)

Da La Repubblica Napoli del 20 luglio 

Come altri luoghi della metropoli napoletana, il vasto territorio di Castel Volturno sale agli onori delle cronache ogni volta che la tensione tra le sue componenti si coagula in violenti cortocircuiti. L’episodio più eclatante in anni recenti fu la strage dei ghanesi nel 2008, a opera della banda del camorrista Setola; l’ultimo in ordine di tempo è l’aggressione armata da parte di padre e figlio italiani a due africani, con l’assalto per rappresaglia alla famiglia degli aggressori e due blocchi contrapposti sulla Domitiana il giorno seguente.

Eventi del genere non sempre diventano di pubblico dominio, eppure si susseguono con una certa frequenza, permeando la vita quotidiana in quelle zone di incertezza e diffidenza reciproca. Lo scenario non è quello da guerra civile che appare in ogni “day after” mediatico, ma si tratta comunque di un’area in cui le tante questioni irrisolte non essendo governate come meritano finiscono per incancrenirsi e ogni volta che riemergono in superficie si presentano ancora più ingarbugliate.

La numerosa e variegata comunità africana che si è stabilita da tempo negli ex insediamenti turistici lungo il litorale domitio, vi ha trovato affitti bassi e spazi per le attività commerciali. Sono case che risalgono alla fine degli anni Cinquanta, quando il boom economico spinse in molti, da Napoli e Caserta, verso la macchia mediterranea e la spiaggia incontaminata lungo la costa. Sorsero ovunque abitazioni per le vacanze. All’inizio attraverso lottizzazioni, poi con iniziative sempre più sregolate. Gli abitanti del posto vendevano quei terreni improduttivi per l’agricoltura. Le villette spuntavano a un ritmo febbrile, senza preoccuparsi di servizi e infrastrutture. I lotti producevano ricchezza immediata, nessuno voleva sentir parlare di piano regolatore. Negli anni Ottanta molte di queste case, già in declino, vennero requisite per dare ospitalità agli sfollati del terremoto. A distanza di anni parecchi napoletani finirono per rimanere. Nel frattempo arrivavano sul litorale gli immigrati di origine africana. La città di oggi è stata costruita anche da loro. Quando l’edilizia abusiva si fermò, gli africani si misero a cercare lavoro verso l’interno – Villa Literno, Giugliano, Quarto – ma per dormire tornavano nelle villette di Castel Volturno, ormai inutilizzate dai vacanzieri. Lo spaccio di droga con manovalanza immigrata fu un’ulteriore risposta alla crisi dell’edilizia. Dagli anni Ottanta, in località come Pescopagano o Destra Volturno, gli ex villaggi turistici si sono popolati anche di famiglie italiane in difficoltà, gente che vive alla giornata e non appena riesce a migliorare le proprie sorti si trasferisce altrove. Sono insediamenti formati solo da strade e case: strade senza fogne, tante case abbandonate, senza finestre, senza porte: piccole città fantasma.

Per il modo in cui si è formato questo tessuto sociale, e per la sua odierna complessità, l’area di cui parliamo meriterebbe, in modo parallelo ai provvedimenti di governo – prontamente annunciati, non si sa bene con quanta chiarezza d’idee né d’intenti – un serio monitoraggio, una ricognizione particolareggiata di luoghi e persone, di esigenze concrete e punti critici, per mettere a disposizione di chi deve intervenire dati certi, consentendo politiche più efficaci e tempestive. In effetti, la coabitazione di persone provenienti da tanti luoghi diversi, e spesso di passaggio, l’informalità di molte attività economiche, le molteplici forme di criminalità, un contesto urbanistico plasmato al di fuori delle norme; in generale, lo stato di clandestinità in cui molti vivono e agiscono, non solo gli immigrati, fanno di quest’area un microcosmo ancora in gran parte sconosciuto.

L’esercito ora non serve, non si tratta di dare la caccia a una banda sanguinaria come negli anni di Setola. Uno degli effetti di quella strage, e del clima che si creò in quel periodo, fu di indurre gli africani a rinchiudersi negli spazi privati delle villette, creando una città nella città, chiusa agli italiani – anche alle associazioni del terzo settore –, dove si fanno piccoli commerci, si guarda la tv africana, si parla inglese e si coltiva un disprezzo crescente per tutto quel che sta intorno. La prima cosa da fare dovrebbe essere riportare nello spazio pubblico, con le dovute garanzie, chi per proteggersi ha deciso di separarsi. Una politica che agisca innanzitutto sui permessi di soggiorno, e poi sulla legalizzazione delle piccole imprese artigiane e commerciali, attualmente del tutto informali. Un piano di assistenza sanitaria, che accerti e ponga rimedio alle molte situazioni in cui la miseria e l’isolamento stanno producendo effetti devastanti e del tutto sommersi. Infine, a cominciare dalla pianificazione urbanistica regionale, aprire finalmente gli occhi sulla realtà: smettere di pensare questi territori come luoghi di villeggiatura ma considerarli per quello che sono, nuovi quartieri dell’area metropolitana di Napoli. E quindi cambiare le destinazioni urbanistiche, migliorare i collegamenti con il centro, far nascere spazi favorevoli all’incontro e allo scambio. Insomma, riconoscere con i fatti l’esistenza di una comunità eterogenea e problematica che ha di fatto cambiato l’identità di quei luoghi. (luca rossomando)

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