«Vuttate guagliù!». Hanno voglia di scherzare gli operai Fincantieri. Per una mattina non si pensa alla paura di restare senza lavoro, alla necessità di lottare per difendere con le unghie e con i denti quel poco di lavoro che ancora c’è in quello che resta “il cantiere navale più antico del mondo ancora in funzione”, così come sa dirti con orgoglio anche un bambino figlio di una tuta blu se si tratta di descrivere l’ultimo pezzo di industria rimasto a Castellammare. Hanno voglia di scherzare. Magari per esorcizzarla, quella paura. E lo fanno.
Affacciati dall’alto del “Luigi Dattilo” – il primo dei due pattugliatori della Marina militare varato ieri mattina – quelli che stanno su, e hanno il compito di effettuare i primi test tecnici alla nave che di lì a poco scenderà in mare, dicono a quelli che stanno giù, e hanno appena tagliato le cime, di spingere. Di vuttare, appunto. Come se cento persone, o poco meno, potessero avere la forza di muovere tremila e passa tonnellate di ferro, acciaio, cavi. Una nave, insomma. Più piccola di quelle a cui si era abituati da queste parti, certo. Ma comunque una nave. «Perché per noi il varo è una festa. Comunque». Te lo dicono tutti gli operai che incroci in una mattinata gelida e dal cielo tanto limpido come solo d’inverno può esserlo. Te lo dicono mentre si guardano intorno. Qualcuno con l’aria un po’ smarrita e gli occhi che corrono lungo lo scalo. Vuoto per la maggior parte. «Una Grimaldi arrivava fin laggiù», ricorda un operaio che ha poco più di trent’anni, facendo cenno con la mano verso una parte dello scalo che è rimasta inesorabilmente vuota.
Non potrebbe essere che così, visto che una nave da crociera come quelle che pure qui si sono varate appena pochi anni fa, raggiungeva la bellezza di duecentoquindici metri di lunghezza. Il pattugliatore “battezzato” ieri mattina, invece, ne misura appena novantaquattro, ed è largo sedici. Dello scalo occupa giusto la parte finale. «Ma è una nave comunque», si ripetono tra di loro gli uomini che ci hanno lavorato: trecento, al picco della produzione. Per impegnare tutti i seicento dipendenti diretti, Fincantieri li ha fatti ruotare, alternando chi andava a lavoro con chi era in cassa integrazione, a seconda del reparto impegnato. Se si parla dell’indotto, i numeri sono molto più bassi. Ma qui ci si senti tutti della stessa famiglia, e non è un caso che quando Vincenzo Vicedomini, operaio, prende la parola nel corso della sobria cerimonia, lo dica a chiare lettere: «Il varo di una nave, piccola o grande che sia, è motivo di orgoglio per tutti i lavoratori. Quelli di Fincantieri e quelli dell’indotto. Un indotto che offre una manodopera qualificata e specializzata».
«Meglio questo che niente», commenta un altro operaio, mentre la cerimonia scorre sobria. Nessun politico presente, ora che il comune è commissariato. E neanche un rappresentante di palazzo Farnese. Solo i vertici delle forze dell’ordine, i rappresentanti di Fincantieri e della Marina militare (il committente dell’opera). Quando tra il 2009 e il 2010 il cantiere rischiava di restare a secco, si riuscì a strappare una commessa pubblica per dargli una boccata d’ossigeno, nella speranza che, nel frattempo, arrivassero nuove commesse private.
Ora che la prima nave pubblica prende il largo, sulle private la partita è ancora aperta. Gli operai lo sanno bene, e allora la preghiera di rito, pronunciata da don Pasquale Somma, diventa invocazione per un futuro più sereno. La benedizione, la bottiglia che parte, e si rompe. Buon auspicio. Luigi Scardulella Scarica alza le braccia in alto, come quando fa gol la squadra del cuore. Gli operai lanciano in aria i guanti di lavoro. Perché il varo è una festa. Comunque. (alessandra staiano)
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