Venerdì 7 luglio il nuovo numero de I Siciliani Giovani sarà presentato a Napoli (ore 18,00 all’ex Opg – Je so’ pazzo, in via Imbriani 218). La presentazione sarà occasione per discutere con i componenti dell’ultima redazione – quella “reclutata” negli ultimi due o tre anni – del loro lavoro. Pubblichiamo a seguire un articolo estratto dalla versione cartacea del giornale.
Tre dicembre duemilasedici. Viale Odorico da Pordenone, 50. Un vaso da cui svettano coloratissime sterlizie è probabilmente l’unico tocco di allegria nella stanza. La boiserie in legno pregiato avvolge un enorme tavolo e una dozzina di poltrone in pelle. Sulle antiche madie poggiano importanti sculture, altri vasi e ceramiche di Caltagirone. L’alluminio anodizzato delle finestre tradisce l’ambiente nobiliare e svela un anonimo palazzo moderno. Dalla parete il ritratto di Domenico Sanfilippo, fondatore del giornale La Sicilia, domina la stanza e gli ospiti.
Seduti intorno al tavolo undici uomini e nessuna donna. A capotavola Mario Ciancio Sanfilippo, direttore del giornale. Accanto a lui il figlio, condirettore, che porta il nome dello zio Domenico. Alla destra del padrone di casa Rosario Crocetta, presidente della regione Sicilia, alla sinistra Enzo Bianco, sindaco di Catania. Poi il procuratore della repubblica di Ragusa, Carmelo Petralia, il presidente catanese dell’Associazione nazionale costruttori edili, Giuseppe Piana e Michele Corradino, consigliere dell’Autorità nazionale anticorruzione. Insieme a loro le firme di punta del quotidiano La Sicilia. Si discute, nella modalità del forum, di lotta alla corruzione, di grandi progetti, di appalti.
Mario Ciancio, imprenditore, editore, proprietario terriero è uno degli uomini più ricchi di Catania e certamente uno tra i più influenti. All’epoca dei fatti e ancora oggi è in attesa di eventuale rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. La procura di Catania, la famiglia del poliziotto Beppe Montana, ucciso dalla mafia il 28 luglio 1985, e l’Ordine dei giornalisti ne hanno chiesto il rinvio a giudizio per mafia.
Tutti sanno, nella stanza di Ciancio, ma nessuno fiata. Essere a quel tavolo vale molto e nessuno vuol essere un cattivo ospite, far notare l’imbarazzo. Solo il presidente dell’Ance, alla fine, secondo il resoconto della giornata, ammette: «Non siamo credibili, ne sono consapevole». Ma si riferisce solo al tema della denuncia della corruzione nel settore edile.Pure Enzo Bianco, che appena qualche mese prima in Commissione antimafia diceva di non saper nulla dell’indagine a carico di Ciancio, presenzia ossequiosamente. Cosa che rifarà il 16 marzo 2017, in occasione di un altro forum nella stanza di Ciancio con Confindustria. Le fotografie di quell’incontro saranno pubblicate su due paginoni de La Sicilia il giorno dopo, i video saranno diffusi a mezzo stampa. È la centesima replica di uno spettacolo già recitato. In scena le solite maschere dell’arte: il politico moderato, l’imprenditore elegante, l’editore disponibile, il magistrato accomodante. Una sola anomalia rispetto al passato: la luce del sole.
Per molto tempo il potere si è nascosto, un po’ per per pudicizia, un po’ per prudenza. Ma a Catania oggi nessuno si camuffa più. I “cattivi” girano a testa alta. Come quando nella magica Inghilterra descritta da J.K. Rowling “cadde il Ministero” e coloro che per anni erano stati banditi tornarono nelle strade a terrorizzare maghi buoni e babbani.
Il governo dei “cattivi”
I centri di assistenza fiscale nei quartieri popolari di Catania hanno da decenni preso il posto delle sezioni di partito e delle sedi dei sindacati. Ogni CAF porta un cognome, stampato in maiuscolo sull’insegna, che in genere coincide col politico che l’ha aperto e che, grazie a esso, è diventato consigliere di quartiere o addirittura comunale. Un caso estremo vuole che un CAF porti addirittura il nome di un assessore. I CAF sono i serbatoi di voti di quel che fu il centrodestra catanese, erede della Democrazia Cristiana. Attraverso i CAF si risponde ai bisogni primari delle persone, e si chiede il voto. Voto che, il più delle volte, viene donato al titolare del CAF o al suo padrino col sorriso sulle labbra. D’altro canto chi altri s’è meritato la fiducia del suddito che quando ha avuto bisogno ha trovato la porta del CAF sempre aperta?
Un tempo faceva scandalo che all’interno dei CAF, finanziati con risorse pubbliche, si svolgesse attività politica. Si parlava di “clientelismo”, di “politica peggiore”, di “voto di scambio”, di compravendita di voti. Era il tempo in cui tali strumenti venivano utilizzati per eleggere i governi di centrodestra e democristiani, in città e alla Regione. I tempi di Cuffaro e Scapagnini, di Lombardo e Stancanelli. Il tempo dei “cattivi” di centrodestra contro i “buoni” di centrosinistra. Poi si capì che i CAF non erano strutture di partito ma truppa di mestiere. Per vincere le elezioni i patronati non andavano smantellati ma arruolati. A Catania lo capirono prima degli altri: i nemici politici divennero alleati.
Prima l’accordo di governo tra il Partito Democratico e il Movimento per l’autonomia di Raffaele Lombardo nel parlamento siciliano. Poi la confluenza di buona parte dei centristi nella coalizione di Rosario Crocetta alla Regione. Infine, ciliegina sulla torta ormai servita, il sostegno di quasi tutto il centrodestra catanese all’amministrazione di Enzo Bianco.
Durante la campagna elettorale per sindaco del 2013, Enzo Bianco si presentò a un’iniziativa organizzata da uno dei più rinomati capi-CAF della città, Pippo Spadaro. Ne era candidato il figlio, che poi riuscì eletto in consiglio. «Bisogna guardare alle persone prima di tutto – sentenziò là il candidato di centrosinistra Bianco – non al colore politico. E poi… io sono bianco». Il colore, in effetti, di un potere fine a se stesso, esercitato per il bisogno di esercitarlo, privato di ogni minima connotazione politica o semplicemente etica, alieno da ogni influenza ideologica. La traduzione cromatica del qualunquismo.
Così, mentre da una parte i nuovi garibaldini chiedono “onestà onestà” urlando alla pancia del popolo – e sovente agli istinti più retrivi – dall’altra liberali e borbonici, senza più alcun colore, si coalizzano in un partito unico, il cui statuto ha articolo solo: conservare il potere. Da quasi cinque anni la Sicilia e Catania sono governate dai nuovi governi incolore, composti dai vecchi “buoni” e dai vecchi “cattivi”. A livello nazionale per giustificare le larghe intese hanno parlato di emergenza nazionale, di senso di responsabilità davanti a una situazione catastrofica. A Catania si son limitati ad arruolare tout-court i “cattivi”, senza dare alcuna spiegazione.
“Se vogliamo che tutto rimanga com’è”
Mario Ciancio, angosciato dalle udienze nei tribunali, segue la vita politica con la stessa attenzione di sempre. Pino Firrarello dal suo feudo di Bronte, sempre dalla parte di Bianco, muove le pedine in modo da tornare a governare la regione. I signori dei rifiuti distribuiscono regali per accaparrarsi le autorizzazioni per le discariche e sbloccare la costruzione degli inceneritori. Il business dell’accoglienza inumana dei migranti riempie a pioggia le tasche di cooperative che portano gli stessi cognomi degli amministratori locali, in genere dello stesso partito. I costruttori ringraziano e finanziano coloro che sponsorizzano i loro megaprogetti nei consigli comunali. Gli uomini e le donne del Partito Democratico, del nuovo centrodestra (oggi Alternativa Popolare) e di Forza Italia si incontrano nei bar palermitani e catanesi con l’aria di chi è legato da amicizie di lunga data.
Loro sono i potenti, i gattopardi, i principi di Sicilia. Soli nelle loro stanze. Non più nella vastità dei latifondi ma nei monitor dei computer e negli schermi degli smartphone si dipana il racconto del loro potere, della loro influenza, del dominio.
Negli ultimi mesi vivono arroccati come in attesa di un’invasione di barbari. Un tempo controllavano l’intera vita politica e buona parte dell’economia. Oggi il sessanta per cento dei giovani siciliani è senza un lavoro e il settanta per cento di chi lavora è precario. Non resta più così tanta economia da controllare. Le forze politiche sono ridotte al lumicino e il partito che governa l’Italia, la Sicilia e la città di Catania, nei sondaggi è dato attorno al dieci per cento. La politica è diventata imprevedibile.
Una classe dirigente decadente e decaduta, ma ancora bramosa di un potere che vede svanire. Una Sicilia che sembra simile a quella narrata da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo. Eppure, ci sono delle differenze. Nel Gattopardo, Tancredi, intelligente rampollo della famiglia, riesce, prima del plebiscito, a convincere lo “zione” principe Fabrizio dell’opportunità che l’avvento dell’Italia unita avrebbe consegnato al Gattopardo. Bisognava quindi stare dalla parte del più forte. «Per il re, certo, ma per quale re?». Di fronte al mondo che mutava bisognava camuffarsi, fintamente redimersi. «Se non ci siamo anche noi quelli ti combinano la Repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
Doveva essere Renzi l’attuale Tancredi, colui che avrebbe resuscitato politicamente gli esausti potentati locali. Poteva anche essere il Movimento 5 Stelle il punto di riferimento nuovo di una borghesia disponibile a qualunque investimento politico. Non è stato così. La narrazione renziana si è esaurita prima ancora di giungere alla fine del primo capitolo. La voglia di riscatto, di dignità, di futuro del popolo siciliano ha travolto l’intero agone politico guardando subito altrove, fuori dal centrosinistra e dal centrodestra, lontano dalle organizzazioni di imprenditori, sputando su cavalieri e commendatori.
Così il potere, lasciato con le spalle scoperte, ha deciso di non nascondersi più. Uniti, tutti, un tempo rivali, accompagnati da un esercito di consulenti, di portaborse, di clienti, bianchi, azzurri, neri, rossastri, coloro che hanno governato e comandato fino a oggi si muovono insieme, dentro un unico disegno politico ed economico: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto rimanga com’è». La morte del gattopardismo e la rinascita del Gattopardo. La fine dei tentativi politici e il trionfo della restaurazione. Il governo dei peggiori, l’utopia dei cattivi. E poi basta.
La capitale di tutto ciò è Catania, senza sinistre né destre, e nemmeno grillini, ma con Bianco. A Catania dove in un palazzaccio senza alcun pudore, in faccia alle telecamere, s’incontrano governanti, magistrati e imprenditori indagati per mafia. C’è un’alternativa? E dove? In un quartiere popolare dove le famiglie non avessero più bisogno di dire grazie al signore del CAF e dove un reddito permettesse di non sfogare le frustrazioni sull’immigrato che chiede l’elemosina al semaforo, l’alternativa – l’unica alternativa – ci sarebbe. L’antidoto al potere dei mostri, e al loro lunghissimo regno. (matteo iannitti)
A mo’ d’accompagnamento
“Ma la sorda guerra della moglie non gli noceva meno della protezione dello zio duca. Questi, che oramai non andava più alla capitale, consacrava tutto il suo tempo ai propri affari, badava alle cose di campagna, migliorava le proprietà comprate dalla manomorta, speculava sugli appalti, si giovava del suo credito presso le amministrazioni pubbliche per rifarsi di quel che gli costava la rivoluzione. E con l’aria di consigliare Giulente, lo persuadeva a fare ciò che voleva. Ufficialmente, il sindaco era suo nipote; in fatto, era egli stesso. Non si rimuoveva una seggiola, al Municipio, senza la sua approvazione; ma specialmente nella nomina degli impiegati, nella concessione di lavori pubblici, nella distribuzione di incarichi gratuiti ma indirettamente o moralmente profittevoli, egli faceva prevalere la propria volontà, proteggeva i suoi fedeli, fossero anche inetti, metteva avanti la gente da cui poteva sperare qualcosa in cambio, non dava quartiere a quelli del partito avverso, qualunque titolo possedessero, da qualunque parte glieli raccomandassero. Aveva l’abilità di fingersi assolutamente disinteressato, di spingere il nipote a fare ciò che egli stesso voleva come se invece non gl’importasse nulla di nulla, e il Municipio diventava così, a costo di patenti ingiustizie, di manifeste violazioni della legge, un’agenzia elettorale, una fabbrica di clienti. Per rispetto e per soggezione, soprattutto per la speranza di raccogliere l’eredità politica dello zio, Benedetto non osava contrariarlo; se, per qualche fatto più grave degli altri, egli esitava un momento, il duca vinceva quegli scrupoli, o adducendogli le necessità della lotta politica, o impegnandosi a riparare più tardi, o facendogli semplicemente comprendere che, in fin dei conti, a quel posto l’aveva messo lui, perciò conveniva che facesse ciò che a lui piaceva. Per compenso, gli garantiva l’appoggio del governo e della prefettura, lo sosteneva in consiglio, tesseva i suoi elogi perfino in famiglia, tenendo fronte a Lucrezia, che lo vilipendeva dinanzi a tutti”. (federico de roberto, da: i vicerè)
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