Incontro Lena a Weserstrasse, una delle strade più vive di Neukoelln, quartiere a sud est di Berlino. Se fosse sabato sera sarei già circondata dalla folla pronta a iniziare la notte, invece è solo un pigro e comune pomeriggio autunnale. Lena Blanken è giovane, ha una presenza imponente e possiede due occhi vivi e lucenti. Sembra una vichinga, e in un certo senso lo è: a poco più di trent’anni ha già un ruolo di spicco presso Foodwatch, una delle più importanti organizzazioni non governative in materia di diritti dei consumatori. «Dopo una laurea in economia ho deciso di occuparmi di sostenibilità, ed è ormai da diverso tempo che le mie attenzioni sono rivolte al CETA». CETA sta per “Comprehensive Economic and Trade Agreement” e costituisce il principale accordo commerciale in corso tra Canada e Unione Europea, le cui trattative, ormai in conclusione, sono iniziate circa cinque anni fa. Il CETA viene definito il “fratello minore” del TTIP, altro importante trattato in materia di libero commercio. Ma mentre il TTIP è in fase di stallo, il testo del CETA è già stato negoziato. La Commissione Europea sostiene che l´accordo “offrirà alle imprese europee nuove e migliori opportunità commerciali in Canada e sosterrà la creazione di posti di lavoro in Europa”. Non soltanto, il CETA dovrebbe prevedere l´eliminazione del 99% dei dazi doganali. Esiste, però, un movimento, ben radicato soprattutto in Germania, che da circa tre anni prova a combattere questa intesa transatlantica e all’interno del quale Foodwatch è solo un tassello, tra la vasta rete di Ong e associazioni.
Lena monitora da tempo il processo alla base della negoziazione del trattato: «Si tratta di una questione di libertà. Se il trattato prendesse piede assisteremmo a una forte limitazione della democrazia in Europa. I vantaggi di cui si parla sono ben pochi e non abbiamo certo bisogno di ulteriori leggi che regolino i commerci internazionali: quelle esistono già. Il CETA, al contrario, investirà le multinazionali di un potere illimitato».
I punti controversi dell’accordo sono diversi. Uno in particolare riguarda il cosiddetto “Investment courts system”, che autorizza le aziende e gli investitori stranieri a fare causa agli stati, per mezzo di tribunali speciali (le private courts) nel momento in cui temano che una legge di un singolo paese possa limitare i commerci internazionali. «Questi tribunali non sono soggetti alle costituzioni degli stati coinvolti nel processo, per cui è come se si stabilisse un vero e proprio sistema giudiziario parallelo. Nel caso in cui vincano le cause, queste multinazionali potrebbero costringere i governi a risarcimenti molto cospicui. È possibile, così, che le singole nazioni inizino a rallentare rispetto all’esecuzione delle leggi in ambito ambientale e alimentare. Possiamo immaginare quanta influenza potrebbero avere, a quel punto, le grandi imprese internazionali su questioni delicatissime, a cominciare dal riscaldamento globale».
Proseguiamo nella discussione, e riusciamo a farlo con leggerezza, malgrado la complessità del tema. Lena mi parla dell’“Organismo di cooperazione sulla regolamentazione”, altra novità introdotta dal trattato. In parole semplici, ogni qualvolta un governo intenda negare il commercio di un determinato prodotto perché giudicato dannoso, questo organismo potrà decidere di rifiutare tale scelta. «Ciò significa che gli standard europei non faranno che peggiorare. Un esempio concreto sono le leggi canadesi in materia di Organismi geneticamente modificati, che sono molto meno rigide di quelle europee. Se il CETA dovesse essere applicato, si assisterebbe a un fluire considerevole, nel nostro continente, di Ogm non etichettati come tali».
Foodwatch non è l´unica Ong che si occupa di accordi commerciali, anzi sono tante le voci unitesi contro il trattato. Una complessa alleanza che ha dato vita, lo scorso 17 settembre a Berlino, a una immensa manifestazione nazionale. Svenja Koch è la press office di Campact, altra nota Ong che opera sul territorio tedesco. Svenja arricchisce il discorso sul CETA di un importante dettaglio: «In Europa viene applicato il principio di precauzione, secondo il quale, prima che un prodotto venga messo in commercio, è premura dell’azienda provare che esso non sia dannoso. In Canada e USA tale principio non esiste. Il problema è che in nessun punto del trattato è menzionata questa regola, per cui temiamo che vengano immessi nel mercato europeo alimenti potenzialmente nocivi. Per dirne una, in Canada, i polli, per essere disinfettati, vengono immersi nel cloro. Se l´accordo procederà, ce li ritroveremo anche sulle nostre tavole».
Pia Eberhardt si occupa da quindici anni di libero commercio, ed è referente di spicco presso Corporate Europe Observatory, ente indipendente impegnato ad analizzare l’influenza delle lobby sulla politica europea. Le chiedo se si possa giudicare pericoloso un trattato che garantirà la nascita di nuovi posti di lavoro: «In realtà – risponde – leggendo il testo dell´accordo, in nessun punto vengono menzionati studi concreti facenti riferimento a un reale aumento occupazionale».
Nell´ultimo mese si è svolta la prima fase di convalida del trattato, durante la quale abbiamo assistito a un incalzare di eventi e colpi di scena, terminati in un finale alquanto discusso. Questo primo stadio della negoziazione prevedeva la ratifica dell´accordo, il cui testo era stato già stato concordato lo scorso aprile, tra il governo canadese e tutti i ventotto stati membri dell’Unione Europea. Sebbene il 19 ottobre la Vallonia sia riuscita a bloccare le trattative sostenendo a gran voce il proprio no al CETA e influenzando, di conseguenza, la decisione di tutto il paese (il Belgio è costituito da stati federali, e ognuno avrebbe dovuto, per legge, fornire il proprio consenso all’intesa), la ratifica del trattato si è conclusa il 30 dello stesso mese con esito positivo. Dopo numerose pressioni, si è infatti raggiunto un accordo anche con questo piccolo stato. Adesso toccherà solo al parlamento europeo dare il proprio beneplacito. (laura federico)
Leave a Reply