Da qualche mese un fantasma si aggira per le strade di Roma ma, rispetto a più nobili esperienze del passato, ha le sembianze tragicomiche dell’Apetta con cui Carlo Calenda ha svolto parte della sua campagna elettorale. Un mezzo di locomozione a metà tra la visione felliniana e un’improbabile trovata alla Tomas Milian, alias er Monnezza (il quale da lassù ci perdonerà per l’accostamento): voleva essere un richiamo agli spostamenti “ruspanti” dei romani di una volta – secondo una rappresentazione inevitabilmente stereotipata –, ma è venuto fuori un veicolo chic, in stile Capri, come ironizzano quelli abitudinari di Capri. Ape Calessino (questo il nome tecnico) o no, tutta la campagna elettorale di Calenda si è caratterizzata per il tentativo di smarcarsi dall’immagine elitaria che riguarda il suo percorso familiare (figlio di una famiglia di cineasti, frequentava le scuole della Roma bene), professionale (è stato funzionario della Ferrari, tanto che Montezemolo se lo portò in Confindustria) e ovviamente politico (prima viceministro, poi ministro dello sviluppo economico). Non solo, anche la sua reclamizzata vicinanza al mondo delle imprese, mal si poneva rispetto al messaggio “io sono uno di voi”, lascito della stagione del populismo nelle sue varie declinazioni.
Dal punto di vista della dialettica politica, l’obiettivo principale di Calenda è stato il candidato del Pd e del centro-sinistra, sia quando era ancora una ignota X, sia quando ha assunto le sembianze di Gualtieri. Il problema principale di Calenda, d’altro canto, consiste nell’assenza di un partito alle spalle, di un apparato che possa fungere da tramite, anche solo nominalmente, con il territorio. A conti fatti, il Calenda di “Roma, sul serio” (questo il suo slogan, facile all’ironia) manifesta una incredibile – e per molti versi inattuale – “volontà di potenza”: lui vuole diventare sindaco di Roma, lo vuole tantissimo e dimostra una tigna quasi prepolitica al riguardo. Verrebbe quasi da pensare che il bambino viziato riuscirà nel suo capriccio, dopo aver stressato i genitori-elettori, quasi disabituati a gestire le pressioni politiche, soprattutto in un contesto in cui – più che la corsa a candidarsi come sindaco – si assiste alla fuga dalla candidatura.
Qui arriviamo a Michetti, idealmente agli antipodi di Calenda: non per ragioni politiche, ma ideali. Se il fondatore di Azione rappresenta un candidato senza partito, con Michetti abbiamo un partito senza candidato. Conduttore radiofonico e docente universitario (per quanto molto, ma molto periferico), non era prevedibile la sua clamorosa incapacità di parlare in pubblico, né quella di gestire il confronto elettorale con gli avversari. Nel gioco degli equilibri, a Roma toccava a Fratelli d’Italia esprimere la scelta di un candidato, anche perché gli alleati di centro-destra ne erano tecnicamente sforniti (oggi nessuno ricorda che il nome proposto da Salvini era quel Durigon poi balzato agli onori della cronaca per altre ragioni), ma ben poche personalità riconoscibili dal grande pubblico se la sentivano di lanciarsi in una contesa molto rischiosa. Ecco quindi che Michetti veniva affiancato da una tutor con un minimo di dimestichezza con la politica (e con la lingua italiana): il magistrato Simonetta Matone, in quota Forza Italia, subito presentata come “prosindaco”, invece che come futura ed eventuale vice, quasi a lanciare rassicurazioni rispetto al candidato formale. La stessa Matone, però, veniva presto ridimensionata, in quanto negli incontri ufficiali finiva per oscurare il trasparente Michetti, generando confusione e dubbi, invece di diradarli. Ne consegue il paradosso per cui il partito di maggioranza relativa in città, che ha recuperato il ruolo e lo spazio della vecchia Alleanza Nazionale (primo partito a Roma anche sotto Veltroni), rischia di vincere il Campidoglio nonostante Michetti, non grazie a Michetti.
Proseguendo secondo la linea interpretativa del populismo, l’incumbent di queste elezioni-horror è Virginia Raggi, reduce da un quinquennio talmente tragico da averne messo in dubbio, fino all’ultimo, la riproposizione in qualità di candidata. Non è un azzardo affermare come il suo ripresentarsi sia più il frutto di convenienze interne ai Cinque Stelle (o almeno ai pochi rimasti tra questi), che non di una consapevole volontà di giocarsi la riconferma elettorale: il bis della Raggi (alla terza consiliatura comunale, contando anche la prima all’opposizione) ha fornito, infatti, la derubricazione della regola, interna al Movimento, che vietava di superare i due mandati. Negli ultimi giorni di campagna, a fronte di sondaggi impietosi, la sindaca da un lato ha cercato il conforto di piazze “amiche” e della popolarità residua dell’ex premier Conte (con il paradosso di farsi accompagnare nei comizi da colui che era indiziato come suo possibile sostituto, quando era ancora in piedi l’ipotesi di accordo col Pd), dall’altro ha spinto sull’acceleratore della propaganda, da sempre un cavallo di battaglia grillino. Due sono i claim utilizzati dalla sindaca uscente, ambedue sostanzialmente auto-dichiarati: “Ho condotto una battaglia per la legalità” (con riferimento principale all’abbattimento di un paio di villette del clan dei Casamonica, un atto che viene invece rivendicato da Monica Lozzi, all’epoca presidentessa – grillina! – del municipio interessato e oggi avversaria della Raggi); “Sono stata la sindaca delle periferie” (confidando che i quartieri periferici romani possano essere ancora generosi con i Cinque Stelle).
Quest’ultima affermazione (o, meglio, aspirazione) potrebbe marcare un’importante differenza, se fosse vera, con il quarto e ultimo candidato principale, vale a dire Roberto Gualtieri, candidato di quel Pd che, a Roma e non solo, trova la sua roccaforte nei quartieri-bene, dove – non a caso – lo stesso Gualtieri ottenne, nelle suppletive di un anno e mezzo fa, il seggio da deputato. Se è ormai consolidata l’opinione per cui le forze considerate “progressiste” trovino difficoltà nelle borgate e nei quartieri periferici, non ottiene abbastanza risalto il fatto che il maggior partito del centro-sinistra è ormai il riferimento politico di un’alta borghesia che rivendica valori progressisti (spesso esposti solo sulla carta) e che è del tutto estranea alle necessità e alle richieste dei lavoratori subordinati. Non si può fare a meno di notare l’enorme scarto con l’insediamento del vecchio Pci nelle borgate romane, con il suo impegno per migliorare la qualità della vita nei posti dimenticati da dio e dalla Democrazia cristiana. Questo cambiamento epocale fornisce la misura dell’interruzione irreversibile della storia comunista (almeno nella sua corrente principale) nella città di Roma molto più della progressiva involuzione verso il centro eseguita da quel partito, congresso dopo congresso, “svolta” dopo “svolta”.
MARZIANI IN PERIFERIA
La domanda, a questo punto, è conseguente: tolto il Pci, quale agente di rappresentanza politica rimane nelle borgate e nelle periferie romane? La risposta resta sospesa: vive, cioè, la medesima sospensione che si registra nelle campagne elettorali, quando le periferie conoscono quella che non è effimera gloria, quanto atroce beffa, con l’allunaggio dei principali candidati, che scendono come alieni su un territorio sconosciuto. Fugaci incontri organizzati in batteria (mercati e supermercati, piazzette, opere pubbliche incompiute, qualche sede di associazione), strette di mano che adesso, causa Covid, si sono trasformate in meno impegnativi cenni, il poco convinto upload delle tante rimostranze fornite da residenti sfiniti, delusi, rassegnati, non di rado sarcastici e qualche volta pure rabbiosi. Poche “antenne” locali, pallidi quadri intermedi e confusi rappresentanti eletti in quel collegio si fanno in quattro per organizzare brevi “grand tour”, utili solo a segnare la distanza tra le borgate e il ceto politico, spesso prescindendo dal suo posizionamento destra/sinistra. Si deve ammettere, infatti, che l’estraneità rispetto ai quartieri popolari coinvolge anche le “ali estreme” dell’attuale contesa per il Campidoglio: né le tante micro-formazioni politiche della sinistra radicale che hanno deciso di candidarsi (e che sembrano puntare a una primazia “di area” tristemente giocata sui decimi e centesimi di percentuale), né la destra radicale, che ha sostanzialmente disertato le urne, preferendo accattonare pochi posti nelle liste del centro-destra, possono dire di saper colmare il divario, se non per micro-territori specifici, spesso grandi come un isolato. La verità è che le periferie metropolitane oggi sono irrappresentabili politicamente e la ragione risiede non solo nella deprimente qualità dell’attuale offerta politica, ma soprattutto nella condizione strutturale di borgate lasciate a sé stesse perché “coinvolte” nell’isolamento di coloro che le abitano.
Oggi che il capitale estrae il valore dal territorio, oltre che dalla produzione, il tema della “diseguaglianza geografica” diventa dominante e scompagina il concetto stesso di “città”, nata – in fondo – per integrare, almeno formalmente, i suoi residenti, nonostante le differenze di classe. Da tempo, invece, il processo di marginalizzazione del salariato e del proletario – rispettivamente sul posto di lavoro e nella società – trova un corrispondente urbano nella “periferizzazione” di intere aree cittadine, trasformate in luoghi di confino per i cosiddetti somewhere, cioè coloro che “vengono da qualche parte” e che si ritrovano a vivere in quartieri residuali, a volte di nuova edificazione, altre volte già con diversi decenni sulle spalle, ma ancora privi di una parvenza di identità. Espulsi dai quartieri gentrificati, nuovi nuclei familiari a basso reddito, immigrati interni ed esterni, ceto medio impoverito, lavoratori precari e genitori soli si ritrovano in un’unica condizione: quella di essere “gli sconfitti della globalizzazione”, potenzialmente recettivi, quindi, di proposte politiche che promettono un ritorno indietro delle lancette del tempo a “quando si stava meglio”, c’era la lira, l’Europa non imponeva l’austerity e “gli immigrati non rubavano il lavoro e le case popolari”. Votare Trump, Marine Le Pen, Salvini e la Brexit, quindi, altro non diventa che la declinazione locale di tale malcontento, nell’irreperibilità di un intervento profondo, continuo nel tempo, vivo nei contenuti e volto all’acquisizione di consapevolezza e all’indicazione di percorsi di emancipazione politica, non solo di rabbia elettorale.
LE DUE CITTÀ
David Tranquilli ha ricordato ne Il secondo tempo del populismo (a cura di Alessandro Barile, Momo edizioni, 2020), il passaggio dalla “città manageriale” – nella quale gli amministratori si impegnavano a gestire in maniera più o meno opportuna i trasferimenti economici dallo stato centrale – alla “città imprenditoriale”, in cui il sindaco – a prescindere dal suo colore politico – era proteso a mettere a valore “pezzi di territorio”, con l’obiettivo di intercettare flussi finanziari globali, è avvenuto durante le giunte rosé di Rutelli e Veltroni. Dal 1993 al 2008, infatti, il “modello Roma” propose uno sviluppo basato sulle nuove tecnologie, sul terziario avanzato, sull’economia della conoscenza, sul “general intellect”; al di là degli annunci, il contesto romano si caratterizzò, invece, per una robusta ascesa del comparto turistico – soprattutto post Giubileo –, con la conseguente diffusione di attività di servizio a bassa qualifica, scarsa remunerazione e forte precarizzazione contrattuale. Porzioni importanti del Pil urbano si trasferivano dall’edilizia – che all’inizio degli anni Duemila ne contribuiva per oltre il quaranta per cento – a un terziario senza progettualità né investimenti, subordinato a variabili incontrollabili (terrorismo globale, pandemie, limitazioni alla mobilità) e tale da cambiare anche il panorama produttivo della città.
L’ipotesi che il potere dei ben noti “palazzinari” sia stato – magari involontariamente – limitato, è vera però solo in parte: i meccanismi della rendita tradizionale venivano, infatti, parzialmente ricalibrati sulle opportunità fornite dal Piano regolatore del 2008, tanto più nefasto se consideriamo il contributo fornito, nella sua elaborazione, da esponenti della sinistra romana. Come risultato, il generone (storica “specie” animale, endemica della Capitale, che ostenta ricchezza, notorietà e potere di solida o recente acquisizione) non cambiava i suoi elementi costitutivi: banchieri, intermediari finanziari, alti funzionari delle istituzioni ed esponenti delle grandi famiglie del mattone. Il film La grande bellezza continua a essere proiettato. Certo, la Roma del centro-sinistra presentava statistiche economiche confortanti rispetto alla media nazionale, ma non andava oltre la fiammata estemporanea, quella che precede l’esaurirsi dello stoppino: già in quegli anni si configurava una città duale, “in cui i benefici della crescita venivano incamerati quasi esclusivamente dai grandi gruppi finanziari e dai ceti sociali medio-alti dei quartieri centrali e benestanti” (Tranquilli, op.cit., p. 207).
La “città di sotto”, d’altro canto, allargava le sue basi, includendo quartieri periferici ormai esclusi anche formalmente da politiche urbane di riqualificazione e oggetto di una vera e propria rimozione politica. In borgata finiva l’insieme dei “costi sociali” del vivere collettivo (discariche, centri di accoglienza, isole ecologiche, campi nomadi). Non solo, le periferie erano anche la sede di domicilio forzato per tutta quella forza lavoro che giornalmente andava a prestare servizio nei quartieri del centro, all’insegna di un pendolarismo che subiva la beffa – oltre al danno – di un sistema di trasporto pubblico che non ha eguali, in negativo, tra i paesi a capitalismo maturo. In un quadro del genere, l’odierna dualità che contraddistingue Roma si radicalizza nell’opposizione tra una Città (quella dei turisti, dei city-user, delle istituzioni) e un’anti-Città (rancorosa, riottosa e tremendamente sola) sempre più popolata, secondo flussi urbani che continuano a svuotare il centro e la prima periferia, colonizzando progressivamente quell’Agro romano che pure aveva fatto la storia dell’Urbe non meno dei suoi monumenti più fastosi.
Non desta sorpresa, quindi, che dal 2013 a oggi le aree romane socialmente e geograficamente più lontane dal centro storico abbiano aderito a proposte populistiche, prima nella versione “cittadinista” dei Cinque Stelle, poi in quella reazionaria ed escludente di Salvini, una volta resa manifesta l’incapacità amministrativa della giunta Raggi. E oggi? Il “turno” della sinistra radicale pare non essere ancora scoccato – se non per sporadiche “isole felici”, non generalizzabili – ma la paziente attesa, dal sapore quasi messianico, potrebbe essere utilizzata per una sana riflessione su alcuni quesiti fondanti, di ampiezza ben maggiore rispetto al singolo appuntamento elettorale.
Le forze politiche che mirano alla trasformazione sociale sono state capaci finora di interpretare i cambiamenti urbani? Quale modello per la città di Roma viene offerto ai proletari, ai lavoratori, ai subalterni? Posto che il neoliberismo tarato sul contesto urbano ha da tempo abbandonato ogni infingimento e rivelato la sua volontà escludente, tanto che l’implicita proposta di Gualtieri (tornare alla Roma di Rutelli e Veltroni) ha le stesse probabilità di successo di quella di Michetti (tornare alla Roma dei Cesari…), le forze della sinistra radicale si accontenteranno dei soliti apparentamenti all’insegna del “meno peggio”? Oppure, invece, coglieranno la triste occasione di una nuova, probabile, débâcle elettorale per iniziare un ragionamento comune, solido, conflittuale sui nuovi padroni della città? Il Movimento di Grillo, per un lustro al governo della capitale, ha tradito i suoi elettori su tanti punti, eppure quello più evidente è forse anche il meno “lamentato”: la mancata difesa, nonostante le promesse elettorali, della città come spazio comune, in cui proporre a ogni residente un percorso aperto, solidale, consapevole e dignitoso. Assistiamo, di contro, alla progressiva svendita di intere porzioni urbane, dentro operazioni che risultano oscure anche agli addetti ai lavori. In quanti sanno che i nuovi “proprietari della città” solo parzialmente rispondono ai cognomi delle famiglie da sempre egemoni nel mondo del mattone? Come ha ben raccontato Stefano Portelli, dopo la fine del controllo statale sugli affitti, dopo le cartolarizzazioni immobiliari degli enti pubblici, dopo l’interruzione dei finanziamenti per l’edilizia popolare, dopo l’ingresso del capitale finanziario nel mercato delle abitazioni, l’ultima frontiera dell’aggressione al diritto alla casa è rappresentata dai fondi di investimento, spesso provenienti da Oltreoceano e veloci nell’acquisire intere porzioni di zone periferiche e semiperiferiche. Non assumono nessuna importanza i progetti di auto-recupero proposti dai cittadini, le esperienze di occupazione dal basso, le fabbriche riavviate o riconvertite dagli ex operai, le cooperative, le Case delle donne, i luoghi di mutuo aiuto. Come facevano gli americani in Indocina usando il napalm, gli hedge fund disboscano la vita sociale, le forme di lotta per la dignità, i progetti alternativi al neoliberismo urbano: intravedono in quegli stabili, futuri studentati di lusso, co-working a cinque stelle, loft con vista sul fiume Tevere; luoghi esclusivi che abbiano il valore aggiunto di una narrazione alternativa, tipica delle transazioni immobiliari private: lì ci sarà lo storytelling del recupero dal degrado, della riqualificazione architettonica, del “riscatto delle periferie”, in una sorta di feroce paradosso.
Di tutto questo nella campagna elettorale per il Campidoglio 2021 non c’è stata traccia, almeno a livello dei contendenti che aspirano al ballottaggio. I quattro candidati principali (e molti di quelli “ancillari”) hanno mostrato un clamoroso ritardo interpretativo sulla città che aspirano ad amministrare. Oppure, a pensar male, una chiara complicità rispetto alle tendenze economiche in atto, nella consapevolezza che gestire Roma dentro i vincoli di bilancio e accettando decurtazioni clamorose nei trasferimenti erariali dallo stato (si veda, in tal senso, Il tramonto della città. La metropoli globale tra nuovi modelli produttivi e crisi della cittadinanza, di Alessandro Barile, Luca Raffini e Luca Alteri) è un’impresa onerosa e forse anche una fatica di Sisifo. Meglio, quindi, consegnare le chiavi della città a ogni forma di capitalismo possibile, anche quella più tossica, proponendo, nel frattempo, un programma cabarettistico completo, tra gaffe a ripetizione, programmi copiati, dibattiti evitati e citazioni fantasiose. Quelle di Michetti su Roma antica sono diventate proverbiali, ma ce ne è un’altra, del vecchio Stendhal (Voyages en Italie, 1826), che si rivela ancora oggi attuale ed estremamente inquietante: “Il romano mi sembra superiore, sotto tutti gli aspetti, alle altre popolazioni d’Italia: ha più forza di carattere, più semplicità e, incomparabilmente, più spirito. Dategli un Napoleone per venti anni e i romani saranno sicuramente il primo popolo d’Europa”. (luca alteri)
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