
La digestion. Atto IV. Giovedì 23 marzo 2017. Scugnizzo liberato. La fondazione Morra da un lato ha fiducia nel diroccato in quanto palcoscenico – l’estetica del recuperato post-abbandono si addice al paradigma artistico proposto; dall’altro si cautela con la doppia carta “liberatoria-fidelizzatrice”, ché il rapporto col pubblico è nella sua adesione fiduciosa. Il biglietto – cinque euro – ci fa disporre stavolta anche di un servizio d’ordine che riqualifica la funzione della maschera nei posti occupati.
Così siamo attesi all’ingresso dell’ex carcere minorile: un po’ di fila a sbrigare le procedure di cui sopra, altra al bar, altra ancora che organizza il primo “Montesantown” dell’anno, stavolta intra moenia. Quando arriviamo al primo piano, il pubblico sta zitto perché separato dalla possibilità di fare corpo, abbandonato nel corridoio, buttato sulle pareti. Xavier Charles, il clarinettista che apre la serata, parte da una cella buia per sondare gli spazi che lo ospitano con una passeggiata dal passo irregolare, mentre la macchina della documentazione fissa i reperti futuri. Davanti a questa performance stiamo proprio come gli infanti davanti a un nuovo giocattolo. Si ripropongono, insomma, tutti i problemi della importazione. La trama del suono è agita in una campitura ascrivibile a un quattro quarti mai interrotto grazie alla respirazione continua. Arrivano i passi e le parole di chi sale a rinnovare di gestualità altre la scena acustica. Il pavimento è una rete quadrata con la figurazione delle mattonelle che dà ritmicità al corridoio. Le interferenze dei residenti temporanei non mistificano il lavoro esecutivo del performer. L’ascolto cambia a seconda di dove ci si trova. Questo il limite, dunque le possibilità di un’esecuzione del genere.
Molta prassi esecutiva contemporanea è contaminata da gestualità di questo genere: lo strumento solista viene piegato a un utilizzo prettamente sonoro e non strettamente musicale, pur conservando la sua natura. Gli armonici che produce sono davvero intensi: lavora molto bene su questi suoni. Si gira dalla mia parte proprio quando a una signorina scappa un po’ di suoneria. E pure io do fastidio: infatti, col mio strumento di scrittura cellulare faccio interferenza sul registratore. Quanta sensibilità finalmente corrisposta negli strumenti tecnologici.
L’esecutore francese si fa spazio tra la gente ed entra nella cella da cui era partito per sfruttarne tutte le possibilità di riverberazione offerte: sono graffi acuti dal vibrato stringente che precedono multifonici che uniscono basse e alte. E sì, perché non sempre si esegue una sola nota con questi strumenti. E riprende a girare intorno, in una performance continua che non conosce silenzio. Quindi lavoro nello spazio, lavoro sullo spazio. Che termina così. Lontano. Bisogna aspettare quasi un minuto. La nota di chiusura la dà un cellulare che squilla.
Applausi. Cicaleccio. E poi, tutti in fila: i più, diretti verso il sottostante consumo. Gli altri restano in attesa di guadagnare il piano superiore, dove l’evento sarebbe arrivato al suo main stage. Il discreto fascino mondano dell’intervallo si spende così. Ce l’avevano promesso di venti minuti. Superiamo i trentacinque.
Fateci caso: la cosa fantastica della musica è che vede la conciliazione di tutte le scene culturali, non disposte a venire meno al suo fascino senza corpo, eppure incredibilmente materiale. Senza dimenticare i possessori del tempo libero. Nel prenderne atto, la barba cresce un po’ a tutti.
Quando saliamo a raggiungere l’agognato piano sede del concerto, siamo pendolari in attesa di cambiare binario. In gruppi, marciamo tra le polveri e le foglie di un piano che ha lasciato le sue tracce su chi indossa il nero come colore ufficiale. Siano benedetti i cellulari con le torce, le luci messe a terra, gli assenti segnali. Arriviamo alla sala deputata. Si crea un cono dove solo i più vogliosi accedono mentre il pubblico, nel compattarsi, ritrova finalmente la sua unità; prova altresì a esercitare il privilegio della visione nel godere dell’azione in primo piano.
Non trovando il tempo di un silenzio, il sassofonista francese Michel Doneda e il percussionista vietnamita Lê Quan Ninh rispondono guadagnandosi l’attenzione con frequenze molto alte. Inizia un lavoro sulla profondità del suono che interroga lo spazio.
Mentre il percussionista invade la sala con suoni derivati dalla gestione dei piatti alle alte frequenze, il lavoro di Doneda trama il disegno attraverso timbratissime tessiture. Dagli interventi sulla cassa derivano densissime basse frequenze: entrambi scalano di pitch attraverso una parresia ritmica senza altezze stabilite. C’è proprio tanta voglia di sollazzarsi in giro. Siamo sul filo. I suoni del sax soprano sono pieni quanto la durata dei suoi suoni filati. Interviene poi un lavoro di scardinamento della ritmia mentre il corpo del sax soprano viene esplorato dal soffio. Ho tutto il tempo di contarci. E siamo quasi due centinaia. Ancora suoni molto alti mutilano il silenzio insistendo non poco sulla sopportazione acustica. Non c’è possibilità per i musicisti di muoversi se non nell’abbondante scena a loro riservata. La sfruttano tutta, pareti comprese. Il fuoco è occupato dalle foglie non arse.
Molti restano a occhi chiusi mentre il lavoro di scardinamento stavolta è del sopranista: il controllo dello strumento e la tecnica non prevalgono sull’esecutore. La maestria del duo sta nel reciproco ascolto, nelle scelte responsabili operate. Per lo più il pubblico risponde con la “nicotina” a questi interventi. Certo, la parolina può scappare. Doneda è fortissimo: tutto il lavoro che compie col solo soffiare scava le pieghe di qualsiasi discorso musicale che interroghi la respirazione.
E poi ancora tanto altro in questa performance che non disperde, anzi coagula energie e scabrose, se non perniciose, tendenze filo-mondane. Credo siano anche un po’ stanchini, dato l’orario. Sono quasi le 23. Si torna a sonorità meno intense. Ora è la tessitura nella sua irripetibile variazione a dominare la scena. Addirittura compare un codice ritmico; finalmente un po’ di beat: muoviamoci! Sembra il preludio di quello che inevitabilmente dovrebbe accadere (ndr, il finale). No, macché. Si va avanti, ché le possibilità sono infinite. Eravamo alle alte frequenze e al gioco di dissoluzione. Poi ancora treni d’impulsi compulsivi che si dilatano oltre che nello spazio anche nel tempo. E si ritorna al fischio e alle alte frequenze. A dove eravamo partiti senza passare dal via, pur rimanendo nell’ex carcere.
Riconosciamolo, dopo venti minuti si perde tanto l’attenzione quanto la tensione, al punto che le persone che stanno dietro parlottano tra loro, riguadagnano la parola mentre dei tardi arrivati fanno di tutto per guadagnare la prima fila.
Il contesto spaziale funziona. Il posto scelto semantizza una rovina estetizzata in quanto aggettivazione architettonica, scelta per consegnare allo spettatore un corrispettivo acustico: tanto il suono quanto la rovina si fanno notare per la forma. Se poi l’operazione possa trovare riscontro nell’immaginario collettivo, la risposta ce la dà quella ragazza che, bicchiere vuoto sostenuto dall’arcata superiore, filma tutto in diretta Fb. Il finale è così poco finale che, come al solito, lo si deve aspettare. E poi buuu e fischi e yeah e battiti. E la richiesta ironica di un fantomatico bis, che permette al pubblico di recitare la sua ultima battuta.
Ora mondanità. Mondanità per tutti. Tra chiacchiere, alcool e droghe leggere assunte pesantemente. (antonio mastrogiacomo)
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