Don Roberto Sardelli è morto ieri sera. Nato nel 1935, è stato uno dei protagonisti delle lotte sociali nelle borgate romane fin dagli anni Sessanta.
Ha fondato nel 1968 la Scuola 725 all’Acquedotto Felice (dal nome della baracca dove era ospitata). Ha svolto una lunghissima attività educativa e politica che lo ha portato a scontrarsi ripetutamente con le istituzioni capitoline e a conoscere in lungo e in largo la periferia romana. Nel 2007, insieme ad alcuni dei ragazzi che trent’anni prima nelle baracche dell’Acquedotto erano stati suoi allievi, ha redatto un lungo documento intitolato Per continuare a non tacere, titolo che riprende il celebre Non tacere con il quale nel 1971 la Scuola 725 aveva raccontato le condizioni di vita nelle baracche e le proposte di emancipazione.
Pubblichiamo a seguire la prima parte di quel documento (e in coda al testo il link che rimanda alla sua versione integrale), che nel 2007 ha rappresentato una delle poche voci critiche romane al modello di città voluto dalle amministrazioni di centro-sinistra.
* * *
Per continuare a non tacere. Contributo per un rinnovato governo della città
Chi siamo
Sul finire del 1968 accadde un fatto strano che segnò una svolta nella nostra vita. Abitavamo nelle baracche dell’acquedotto Felice, un tugurio di miseria dove viveva un’umanità che le istituzioni e i cittadini avevano lasciato fuori dalle mura della città.
Era piovoso e freddo quello scorcio del 1968 e sotto gli archi dell’Acquedotto annottava anzitempo. Ci si preparava, ancora una volta, ad affrontare l’inverno, illudendosi di aver trovato una carta catramata che, stesa sui tetti, ci avrebbe riparato dalla pioggia durante le lunghe e paurose notti di temporale. Non c’era elettricità né acqua, che pur copiosa passava sulle nostre teste. Con pesanti cucine economiche di ghisa, alimentate con legna scartata nei cantieri edili, dove lavoravano i nostri padri, tentavamo di asciugare l’umidità onnipresente, che torturava le nostre ossa e i nostri polmoni. Unico rimedio ai dolori, che ci tenevano svegli per nottate intere, era la Nisidina.
Eravamo ragazze e ragazzi: mentre alcuni frequentavano la scuola pubblica, altri erano già sul mercato del lavoro e, espropriati della loro età e della scuola, facevano l’esperienza dello sfruttamento. Il più grande aveva quattordici anni. La città era assente. Noi, spinti dai genitori, frequentavamo la scuola, ma molti, classificati “caratteriali”, finivano nelle classi “differenziali”; tutti, a causa delle condizioni in cui vivevamo, giornalmente subivamo offese ed espliciti inviti a lasciare la scuola. Qui si pronunciavano parole che ferivano la nostra anima: chinavamo il capo e pensavamo che in quelle aule non sarebbe mai entrata la nostra vita. Vi avevano diritto di cittadinanza, invece, nozioni astratte, libri di testo stantii, privi di realismo e di tensioni liberatrici.
Studiare soli in un ambiente che era ingresso, cucina, camera da letto con bagno prospiciente, al lume delle candele donateci dalla parrocchia era impresa dei più ardimentosi. E ce ne stavano.
Mentre le istituzioni e la città ci costruivano intorno un muro fatto di diffidenza e pregiudizi, che aggravavano di giorno in giorno il nostro isolamento, i più volenterosi del quartiere e della parrocchia, di tanto in tanto, aprivano una falla in quel muro maledetto e venivano ad alleviare la nostra indigenza con la beneficenza. Il loro animo si commuoveva soprattutto a Natale e a Pasqua. Quella beneficenza non faceva che stendere un velo sopra una situazione che esigeva ben altri interventi che, né gli adulti né tanto meno noi ragazzi, in quel tempo, riuscivamo a intravedere.
In quello scorcio del 1968, sotto gli archi dell’Acquedotto annottava presto. Clelia moriva negli stracci. Laura, di un anno, moriva soffocata per una broncopolmonite doppia. Luigi si stringeva tra le mani le ginocchia doloranti, ma non poteva più riempirsi lo stomaco di Nisidina. Luciano voleva giocare sui binari: passò un treno e lo uccise. Angelo con un rene solo non poteva più lavorare nei cantieri, e aveva quattro figli.
Era piovoso e freddo quello scorcio del 1968: la città si agitava, la contestazione partiva dalle fabbriche e dalle università. Aria nuova. Noi, confinati oltre e fuori dal mondo civile, ne eravamo appena lambiti. Le nostre giornate trascorrevano come sempre.
Un giorno ci venne incontro un prete con la valigia. Noi lo guardammo perplessi e lui guardò con sospetto il pallone col quale stavamo giocando. Chiese come ci chiamassimo e ci disse che in una baracca avrebbe aperto per noi una scuola. Le nostre perplessità aumentarono. Pensammo a un doposcuola per aiutarci a svolgere i compiti che ci assegnava la scuola del mattino.
Ma avvenne un fatto cui nessuno di noi pensava. Alle cinque del pomeriggio quando, finiti i compiti, ci preparavamo a “rimbaraccare”, il prete fece accendere dai suoi collaboratori alcune candele in più e noi pensammo che ci avrebbe fatto dire il rosario. Invece aprì un libro: Americani e Vietcong. Da quel momento, in quella baracca 3×3, che era stata di Rita, nasceva la “Scuola 725”, la scuola del nostro riscatto.
Finirono le domeniche trascorse a gironzolare per l’Acquedotto o su qualche campetto di calcio. Finirono le vacanze estive: il riscatto aveva un prezzo che all’inizio pagammo con poca convinzione, poi, man mano, sempre con maggiore partecipazione. I compiti della scuola del mattino diventarono un’appendice e conoscemmo Gandhi, Luther King, Luthuli, Malcom X, don Milani, Camillo Torres, le lotte di liberazione dei popoli, il dottor Horn, la Sesta di Beethoven…
Ci affacciammo alla finestra del mondo. Vedemmo che non eravamo soli. Alla vergogna di abitare nelle baracche subentrò la dignità, al silenzio il grido. Rifiutammo di lasciarci integrare e alimentammo il rifiuto riflettendo sulla nostra condizione.
Scoprimmo il ruolo forte delle nostre mamme. Esse, prima dei padri, avevano preso la decisione di emigrare e, determinate a darci un futuro, si caricarono della responsabilità di sradicarci e di radicarci. Presero la valigia di cartone con nell’anima il dolore di chiederci un sacrificio, che loro capivano appieno, ma noi no; le seguivamo con gli occhi increduli e ignari: «Andiamo ad abitare in una casa nuova, in città». L’impatto fu indicibile e il dramma ci segnò.
Con questi ricordi, nella “725”, sera dopo sera, a lume di candela, tra inevitabili distrazioni, nacque la Lettera al Sindaco. Successivamente da sotto quegli archi malfamati, che i nostri genitori ribattezzarono “infelici”, nacque la Lettera ai cristiani di Roma firmata da tredici preti. Allora non ce ne rendevamo conto, ma il “grido” fu talmente forte che le istituzioni ne furono colpite e dovettero mettere allo studio un processo di rinnovamento che segnò la fine di un’epoca. In quelle due lettere chiedevamo cambiamenti radicali, cambiamenti che toccavano l’anima dei problemi che vi si esponevano.
Percepimmo così il vento del cambiamento del ’68 e coltivammo le speranze che conteneva. Già il Concilio Ecumenico, spinto dalle tensioni e dalle scelte dei preti operai, da Esperienze Pastorali, dalle comunità di base e dalla ricerca teologica più preoccupata dell’immobilismo ecclesiale, aveva timidamente parlato di inevitabilità dell’”aggiornamento”. Si cominciò a parlare di una chiesa povera e di poveri. Ma nell’aula conciliare c’era un limite: si parlava dei poveri, ma i poveri non parlavano.
Così, nella vita quotidiana, dovemmo prendere atto che i poteri forti, presi in contropiede, prima tacquero, poi si impossessarono in modo strumentale di quelle speranze e dettero spazio al ’68 parolaio, guidato da privilegiati figli di papà, che nulla avevano a che vedere con noi. Per molti di questi si spalancarono le porte del palazzo, dove aspiravano ad andare al posto dei loro padri e, come nuovi e arroganti padroni, ne occuparono le poltrone. Noi, pur nella radicalità del nostro messaggio, rifiutammo ogni forma di violenza e di compromesso e restammo propositivi.
Ancora oggi, quando si parla di quel tempo, si manipola la realtà, dando la parola ai convertiti, che hanno costruito il loro successo sul “pentimento”, ignorando le nostre proposte e tacitando le nostre speranze. Oggi, in un momento in cui è reale, vero e riconosciuto solo ciò chi si esibisce, noi ci sentiamo ancora più spinti a rivolgere la nostra attenzione ai “luoghi” non appariscenti della città e del mondo, laddove si insinua il “coraggio della speranza”. (continua a leggere…)
Leave a Reply