Quando si parla di cambiamenti sociali dalla portata epocale, come nel caso dell’abolizione dell’ergastolo, si commette molto spesso un errore, quello di considerare una presunta ineluttabile non-modificabilità dello stato attuale delle cose, dimenticando che in passato le condizioni sociali, politiche, culturali del contesto in cui operiamo hanno concesso di affrontare le stesse questioni con una prospettiva persino più avanzata di quella con cui ci confrontiamo nel presente.
Nel caso specifico, si dimentica per esempio che nel 1981 circa sette milioni di italiani votarono in un referendum a favore dell’abolizione dell’ergastolo, o che fino alla fine degli anni Novanta si è arrivati più volte a discutere in parlamento dell’abolizione di questo inumano istituto. Il 30 aprile del 1998 il Senato approvò il testo di un disegno di legge proposto dalla senatrice comunista Ersilia Salvato per l’abolizione dell’ergastolo (il provvedimento si arenò poi alla Camera, fu messo da parte e per sempre dimenticato con la caduta del governo).
In occasione del centenario della nascita del filosofo campano Aldo Masullo, ricorso questo 12 aprile, pubblichiamo il suo intervento, in qualità di senatore, con cui annuncia votazione favorevole al provvedimento.
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Signor presidente, ritengo che la mia esitazione a prendere la parola in aula in questo dibattito, legata al sospetto di dover parlare ad alcuni pazienti colleghi che avrebbero educatamente dissimulato il proprio sorriso di fronte a qualche considerazione filosofica, è stata messa in fuga dal fatto che in questa discussione, nonostante tutto, qualche traccia di filosofia vi è stata. Ho sentito comunque – essendo gli autorevolissimi colleghi senatori intervenuti per lo più uomini di legge, avvocati, giuristi – considerazioni soprattutto di carattere giuridico e sociologico. Queste considerazioni si sono soprattutto divise tra quelle raccolte sul tema della catastroficità dell’abolizione dell’ergastolo dal nostro codice, per le conseguenze che ne sarebbero derivate alla convivenza civile e alla tranquillità dei cittadini e, viceversa, le altre, che hanno tentato di mettere in fuga queste preoccupazioni.
Mi pare che il succo di tutta la questione sia che la sfiducia nella giustizia – sfiducia che io condivido per lo stato attuale in cui essa si trova, e che ogni cittadino condivide, non tanto e soltanto nella giustizia penale, ma anche e soprattutto in quella civile e amministrativa, con tutte le conseguenze che ne derivano alla vita sociale – non ha tuttavia nulla a che vedere con il problema dell’ergastolo, a tal punto identificato da alcuni sostenitori dell’abrogazione con un puro e semplice o addirittura fantomatico simbolo da farmi credere che questo finisca per essere il dibattito su di una foglia morta, la quale sta lì sul ramo, non è ancora caduta, ma basta una piccola scossa all’albero e la foglia cade. La foglia, appunto, è la pena dell’ergastolo.
Quello che però vorrei dire, per quanto mi compete data la forma della mia cultura, è che, al di la della questione che attiene al problema dei cosiddetti valori – sia valori di carattere giuridico, sia valori inerenti alla vita stessa dell’uomo – non è stato, credo, messo in luce un punto per me fondamentale. Si tratta di un punto fondamentale perché, mentre tutti gli altri punti rientrano nell’ambito della relatività – relatività storica, relatività naturale, relatività di situazioni sociali -, vi è un solo punto che ha un carattere secondo me assoluto. Si tratta di un assoluto pregiuridico, senza che esso sia un assoluto naturalistico. Di fronte al problema dell’ergastolo – abolirlo o non abolirlo – la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso violi o non violi il sacrosanto diritto alla vita, ma se violi il sacrosanto diritto dell’uomo all’esistenza, che e cosa distinta. Vita è quella di tutti gli animali: anche l’animale bruto vive. Ma l’esistenza è cosa squisitamente umana, perché esistere, ex sistere, designa la condizione, che noi sperimentiamo momento per momento, dell’incessante nostro perdere parte di noi stessi, del nostro essere per così dire scacciati dall’identità nella quale stavamo al riparo fino a questo momento, ed essere sbalzati verso un’altra identità, fuor della quale presto saremo ancora sbalzati: in questo momento io non sono più quello che qualche minuto fa ascoltava i suoi colleghi e fra qualche momento già non sarò più quello che adesso vi sta parlando.
Il collega Fassone ha molto bene richiamato il tema del tempo. Ma il tempo non è tanto la misura della vita, quanto piuttosto l’emozione fondamentale che ci caratterizza come uomini. Cos’altro sono io se non la pena di ciò che ho perduto? Sulla letteratura del tempo si è costruita tutta la cultura umana. Se il tempo spaventa perché è perdita, ciò avviene per il fatto che non siamo stati educati ad accorgerci che il tempo, cioè l’accidente del mio perdere ogni qualvolta qualcosa di me, si accompagna inevitabilmente, come ogni morte si accompagna alla nascita, all’apertura di una nuova possibilità. Nel momento in cui perdo qualcosa, nel momento in cui la foglia che sto guardando cade, si apre la possibilità di una nuova fioritura.
Che cos’è l’ergastolo? Non è la negazione di un segmento di vita o di tutta la vita residuale dell’uomo. Esso è la negazione all’uomo di ciò che lo caratterizza più profondamente nel suo esistere, cioè il fatto che mentre qualcosa muore qualche nuova possibilità nasce. L’ergastolano, nella sua condizione, di momento in momento, di ora in ora, vede morire parte di se stesso senza che nasca alcuna possibilità nuova.
Quando ciò avviene, poi, l’apertura di possibilità non viene tolta solamente all’individuo stesso, ma anche alla società degli uomini. Non possiamo infatti mai dimenticare che, se siamo uomini, lo siamo diventati in mezzo ad altri uomini, perché siamo stati educati al linguaggio, perché altri si sono rivolti a noi con la dolcezza della madre, o di chi ne fa le veci, e si è cosi instaurato quel rapporto “io-tu”, senza di cui può darsi ci sia una società, ma una società di formiche o di api. Una società di uomini è fondata sullo spirito comunitario, sul fatto che in ciascuno di noi l’esistere è sentirsi coinvolti nel destino dell’altro. Questo punto è decisivo.
L’ergastolo, simbolo che ormai viene addirittura assunto come una sorta di strumento esorcistico per neutralizzare la paura e l’insicurezza, è la negazione stessa del vincolo comunitario, la negata legittimazione di una società come società. Si tratta di un vincolo pregiuridico. Senza un vincolo pregiuridico, non si potrebbero costituire la norma e l’ordinamento giuridico. Prima di costituirla, che cosa saremmo? Saremmo forse meri animali bruti? No! Prima di costituire l’ordine normativo della società siamo relazioni intersoggettive, rapporto con l’altro, comunità vivente.
Violare, negare, sopprimere ogni apertura dell’esistente alla sua costitutiva possibilità, istante per istante, significa mortificare non solo il singolo, l’esistente, ma anche quella stessa originaria comunitarietà, senza di cui una società non è tale o è soltanto una società di insetti.
Credo che questo sia un motivo di fondo. E ritengo che averlo lasciato sottolineare in un’aula parlamentare per bocca di un povero filosofo come me non sia affatto incongruo con la pratica civile e politica, perché una società che appunto non voglia ridursi a società di api e di formiche è impegnata continuamente a ritrovare la ragione profonda di se medesima, al di là degli ordinamenti, che sono mutevoli, al di là delle circostanze, che sono transitorie, ad attivare quella ragione profonda senza di cui la nostra vita di esistenti non sarebbe tale.
Credo che il parlamento debba avere questa capacità. Già sono aleggiate, nelle parole di alcuni colleghi, riflessioni vicine a quelle che ora sto riassumendo, e io voglio semplicemente sottolinearle, con rispettosa enfasi. Credo che esse diano veramente respiro al parlamento, e che un governo e una maggioranza capaci di sentirsi portatori non di un ufficio di ordinaria amministrazione dello stato di cose presente, ma di un messaggio di civile rinnovamento e di ricostruzione morale, non possano fermarsi ai semplici calcoli delle economie sociali o delle economie giuridiche.
Non possiamo dimenticare che anche se vogliamo attenerci alle esigenze dell’economia sociale e dell’economia giuridica, vi è in ogni economia che attenga all’umano un fattore che non è una variabile dipendente ma un’invariante assoluta, l’esistenza appunto. Ho sentito parlare di uomo, di persona, di diritti umani della persona. Una parola tuttavia non ho ancora sentito, ed è la parola “soggetto”. Cari colleghi, io ho l’impressione che noi quando rivestiamo gli abiti pubblici nella loro oggettività, sembriamo vergognarci di guardare dentro la nostra soggettività. Ma così l’abito pubblico resta come un vestito che ricopre un manichino o sta sospeso ad un attaccapanni. Un abito pubblico che non rivesta un corpo vivente, un corpo che soffre e gioisce, che ha paura e speranza, è la negazione in termini di quella funzione che crediamo di stare esercitando.
Signor presidente, signori rappresentanti del governo, amici e colleghi, credo che nel momento in cui attraverso l’approvazione di questa legge noi abrogheremo un simbolo – come è stato detto – ormai privo di vita, un simbolo senza più alcun significato, un mero espediente esorcistico, nel momento in cui insomma seppelliamo questo simbolo morto, noi innalziamo un simbolo vivo. Segnaliamo infatti ai nostri concittadini che la forza del diritto e della giustizia non sta nella ferocia inumana, ma nella capacità di dare ordine e ragionante umanità ai nostri sentimenti, ai nostri bisogni e alle nostre passioni.
Se facciamo questo, signor ministro, e tutti insieme collaboriamo in questa direzione, noi additiamo all’intera nostra azione politica quell’asse culturale alto, senza di cui la politica rimane con la “p” minuscola, mentre tutti noi abbiamo la doverosa ambizione di fare una politica con la “P” maiuscola, intesa non all’amministrazione della situazione di fatto, o del futuro stesso come sostanziale ripetizione, ma all’apertura dell’autentica possibilità del futuro come innovazione: a lasciare insomma a coloro che verranno dopo di noi le condizioni per un ordine morale più ricco e alto di quello in cui stiamo vivendo.
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