Vorrei che nessuno tra quanti leggeranno le prossime righe mi giudicasse intimista. O, peggio che mai, come un egocentrico che crede che la propria banale vita meriti di essere messa in mostra e raccontata come se fosse speciale. Ma, d’altra parte, non saprei come parlare dell’esperienza di vivere nell’epidemia prescindendo da me stesso. Ed è in questo senso che parlerò di me stesso e del mio quotidiano come oggetto sociologico. Di me stesso, cioè, come individuo interno a un mondo di pratiche, relazioni e significati. Oppure, se si preferisce, come soggetto che percepisce il circostante e lo produce insieme ad altri, sforzandosi però di individuare il senso esplicito o nascosto delle proprie azioni sociali.
Quando è stato pubblicato il primo decreto della presidenza del consiglio dei ministri, ero seduto a un tavolino del bar-libreria che da anni è la mia casa, al cui interno ho scritto libri e un’infinità di articoli (“il tuo ufficio”, lo definiscono amici e colleghi). Ho ripetutamente letto e commentato la norma con i proprietari del bar. La loro è di fatto una cooperativa: un piccolo “impero” dell’industria culturale alternativa locale, che va dalla libreria alla promozione di incontri culturali, sino al clubbing, in inverno così in estate.
Mentre leggevo il decreto insieme a quelli che sono insieme amici e gestori di fatto della mia vita culturale e del mio quotidiano, pensavo che avevo voglia di riprendere in mano il capitolo sulla norma contenuto in Lineamenti di Sociologia del Diritto, un vecchio libro di Vincenzo Ferrari su cui mi sono formato durante il dottorato di ricerca, a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo. Non ricordo esattamente né tutte le tipologie di norme né tutte le caratteristiche che Ferrari individuava. Di certo, però, quello che avevo davanti non sembrava un atto “normativo”: non era realmente prescrittivo e non prevedeva sanzioni. Era, soprattutto, meramente “indicativo”: elencava cioè una serie di comportamenti auspicabili, da cui si poteva però derogare in presenza di determinate condizioni correlate soprattutto allo spazio.
Uscito da solo a fumare una sigaretta sulla soglia del bar, mi ritrovai a domandarmi se quell’atto – un atto comunicativo, ancora prima che una fonte normativa – potesse essere preso sul serio. Solo pochi giorni prima, su altre pagine, avevo osservato come il governo avesse praticato per settimane una comunicazione contraddittoria del rischio, optando alla fine per una condotta performativa incentrata sull’autorità, ma non sull’autorevolezza. La natura meramente “indicativa” del nuovo decreto confermava questa impressione: non vi era nulla che potesse farlo ritenere un atto serio. Un atto, cioè, volto a costituire come seria una situazione.
Mancando di questa qualità, il decreto mi apparve subito come un atto che richiedeva di essere aggirato. Spenta la sigaretta, rientrai e apostrofai il gruppo di gestori seduti torvi intorno a un tavolo, dicendo che non c’era ragione di preoccuparsi troppo. Bisognava essere etici e responsabili, dissi loro. Ma stando al decreto, la serata prevista quella notte al club e anche le prossime non andavano annullate: bisognava semplicemente calcolare un numero approssimativo di persone per metro quadro che garantisse la possibilità che queste mantenessero una certa distanza tra loro. Bisognava dunque limitare gli ingressi, introducendo magari delle liste. Certo, si sarebbe operato in perdita, ma era il solo modo per limitare i danni di un’impresa che ho definito “impero”, ma che in realtà opera sempre al limite della sostenibilità economica. E che, soprattutto, dà di che vivere o integrare i redditi a qualche decina di persone.
Qualche giorno dopo quella prima discussione, la comunicazione del rischio si è fatta più seria, se non più coerente. Gradualmente è cresciuta la percezione della gravità e l’angoscia. Il “mio” bar, tuttavia, non ha risentito eccessivamente della situazione. È stato soltanto sabato sera, osservando i clienti regolari del bar, che ho cominciato a riflettere con più forza su me stesso, sulla situazione collettiva e sugli altri avventori. In realtà, già da un paio di giorni ho cominciato a lavarmi più spesso le mani: un gesto che non è esattamente una coazione per me. Ho aumentato il riguardo per mio padre che, pur perfettamente autonomo e in salute, si avvicina agli ottant’anni. Ieri sera sono andato a fare la spesa per lui e gliel’ho portata a casa per evitare che uscisse.
Non direi che sono preoccupato per la mia vita. Se lo fossi non fumerei decine di sigarette al giorno a partire da quando apro gli occhi, non ignorerei il catarro che in certi periodi risale denso per la mia gola, mi metterei a dieta e andrei in palestra (tutte cose che evito di fare da quando, dopo quindici anni di body-building, sono diventato foucaultiano e avverso alla biopolitica; foucaultiano ma disinteressato alla cura del sé, che mi annoia moltissimo). Inoltre, come ripeto spesso, anche se non vorrei essere messo alla prova troppo presto, vivere o morire sono per me la stessa cosa. Non sono dunque preoccupato. Ciò nonostante qualcosa sta succedendo al mio interno e, pur essendo nella pratica del quotidiano, e al di là dei discorsi pubblici, sostanzialmente anomico e disaffiliato come molti, sento crescere in me una “responsabilità”.
Non saprei ben definire questo sentimento. Ma lo sento emergere con chiarezza quando, seduto all’interno del bar, osservo diversi gruppi di clienti e, in particolare, una comitiva di uomini e donne tra i trenta e i quarant’anni, professionisti, scapoli, che, come ogni giorno, si accalca intorno allo stesso tavolo a partire da un certo orario. Sono tutte persone che conosco, con gradi differenti di intimità. Non sto con loro in quell’istante solo perché al bar amo stare da solo. Leggo, scrivo e preferisco essere io ad avvicinarmi a persone e gruppi, incluso questo.
Osservo dunque la solita comitiva. E improvvisamente avverto fastidio. So – sento – che neanche loro sfuggono ai comunicati che si susseguono in rete e alla coltre di pesantezza che si sta impadronendo del paese. Improvvisamente la “regina” di quella comitiva – un’architetta e video-maker che conosco bene e la cui risata si eleva frequentemente nel rumore del bar – si siede accanto a me. È, come sempre, bella e curatissima. Il ritratto stesso della noncuranza, si direbbe in realtà. Si siede e mi dice: «Mi sento pesante. Non ho paura per me. Ho paura per mio padre, che sta avendo tutti quei problemi col cuore e la tiroide». Poco dopo si allontana, pronta a reimmergersi nella bolgia di corpi che ingurgitano cocktail.
Ogni tanto vado fuori a fumare e il tema è sempre lo stesso. Gestori e impiegati di questa impresa articolata in bar e club sono cupi. Anche loro non hanno paura per le proprie persone. Ma comprendo che pure loro stanno maturando un senso di responsabilità simile al mio. Tuttavia sono “bloccati”. Inizio a capirlo quando commentiamo la scelta di una discoteca commerciale che la sera prima ha organizzato un evento e che oggi si ritrova sotto minaccia di una sanzione da parte della locale amministrazione cittadina. Racconta uno dei miei interlocutori che gli organizzatori della serata avevano acquistato un termometro laser con cui misurare la temperatura dei clienti, promettendo di escludere coloro che avessero tracce di febbre. Infine qualcuno – un consigliere di quartiere – aveva diffuso un video in cui centinaia di persone ballavano in pista e il cui hashtag era “stiamo benissimo”. Il risultato è che oggi sono su tutti i giornali locali, additati come irresponsabili e avidi.
Ridiamo amaramente. Ma, com’è banale a dirsi, e come tanti hanno notato, ci ripetiamo che questa crisi non è semplicemente sanitaria. È, per i miei amici così come per gli altri esercenti, il fantasma di una crisi economica che si concretizza. Concerti bloccati e limitazioni agli ingressi significano meno introiti, ma anche spese fisse e tasse a cui fare fronte con il risparmio.
Mentre fumo guardo attraverso le vetrate. Il bar è tutt’altro che pieno. Ma le poche comitive si affollano intorno ai tavoli. Non resisto e dico allora ai miei amici gestori: «Bisogna essere responsabili, imporre una distanza; dire ai clienti che la politica del locale è che non sono consentite più di tre persone per tavolo». «Ma come facciamo? – è però la risposta – Possiamo davvero imporre alla gente di non sedersi insieme? Se siamo migliori amici e ci spartiamo il sonno, che differenza fa che stiamo seduti qui o da un’altra parte? Capisci, bisognerebbe fare come in Cina: dovrebbero dirci di andare tutti a casa. Ma come possiamo imporre alla gente di stare lontana un metro, se non lo vogliono fare? Come posso andare da quelli ora e dire loro mi spiace, dovete stare più lontani di così?».
Mentre torno al mio tavolo rifletto sul fatto che anche io non sto a casa, come il video di un’anestesista arrabbiata, attiva in una zona rossa, invita invece a fare dalla schermata del mio cellulare. Come sempre, in ragione del fatto che uso il bar come una postazione di lavoro, sto a più di un metro dalle persone e adesso offro le nocche, anziché la mano, a chi si avvicina per salutarmi. Ma non posso sempre evitare le strette di mano di persone che entrano e, a volte, anche i baci e gli abbracci. Non posso evitare di prestare un accendino a chi me lo chiede. Non posso fare a meno, insomma, di espormi virtualmente al contagio. Soprattutto, come i membri della comitiva dinanzi a me, non so davvero starmene a casa, dove comunque passo una gran parte della mia giornata.
Improvvisamente, mentre osservo il gruppo che mi sta davanti, mi viene in mente che io e loro trattiamo il virus come se fosse una sigaretta o l’ennesimo negroni. Accettiamo cioè il fatto di poter essere vittime consapevoli della nostra esposizione a un fattore di rischio, ma escludiamo dalla nostra percezione intima la possibilità di essere vettori di una malattia che potrebbe avere effetti blandi su di noi, ma seri su altri. Rifiutiamo, cioè, il nostro ruolo potenziale di vettori.
Inoltre – chissà se più alla maniera di uno Zingaretti, che di un kamikaze nichilista – vedo improvvisamente che la parte più istintuale di me vive queste sortite serali, oltre che come un automatismo, anche come un atto di resistenza contro un dispositivo retorico. Un dispositivo, naturalmente, che questa volta è tutto tranne che tale. Ma che ciò nonostante è fatto di espressioni linguistiche ed evocazioni di climi morali che, sia pure con modalità specifiche e per un oggetto di natura quasi completamente differente, hanno inseguito per settimane il repertorio linguistico-securitario permanente in questo paese. Ossia il linguaggio e il clima morale che sono parte della grammatica politica italiana da alcuni decenni.
Quel linguaggio e quel clima che ha fatto sì che io sia indifferente e sospettoso dell’idea di sicurezza perché refrattario alla menzogna pubblica. Alla menzogna, cioè, che per decenni ha accompagnato le politiche in materia di criminalità o immigrazione. È naturalmente un abbaglio quello di cui parlo, in questo caso. È chiaro e lo so. Ma questo mio sentire intimo e istintivo è il frutto di un lento processo di costituzione della cittadinanza – ossia di me stesso – che ha avuto come esito la costruzione di particolari tipi di soggetti. Individui, come nel mio caso, che per un complesso di ragioni ideologiche e per posizionamento rispetto alle verità pubbliche dominanti, possono diffidare del discorso di stato; oppure, più semplicemente, soggetti che possono avere interiorizzato l’idea di una inattendibilità dei pericoli al punto da diventare di fatto indifferenti ai richiami.
La qual cosa ci riporta a un tema a me molto caro, quello della capacità delle emergenze, delle crisi o dei disastri di mettere a nudo l’ordinario più che l’inconsueto. Che nello specifico significa, tra le altre cose, che i corpi della comitiva noncurante dell’epidemia che si staglia davanti a me riflette l’impossibilità di immaginare un’astrazione come la società. Sono persone e relazioni che esistono nella comunità e nel presente – per esempio, nell’asintomaticità della propria condizione attuale di salute.
Inoltre, li vedo improvvisamente come corpi orientati da un principio di piacere e dall’aspirazione a una libertà di poche ore, che segue un quotidiano di sforzi e isolamento volti alla produzione. Forse riflettendomi in loro, li vedo come individui che, nonostante tutto, esprimono un bisogno elementare di comunità – ossia di tangibilità, data dalla frequentazione di persone con cui sviluppare un’intimità extra-familiare. Per qualche istante divento così benigno nei loro confronti e trovo che, lontani dall’essere semplicemente incoscienti o irresponsabili, esprimono bisogni elementari, che seguono un quotidiano produttivo ordinario malgrado l’emergenza. Ciò che richiede spostamenti e incontri, e che sottintende obblighi fiscali e giuridici: la risultanza e la contraddizione di un sistema che dichiara l’emergenza, ma richiede loro di vivere e operare come sempre. Mi sembra così che esprimano un bisogno reattivo, improntato su un comunitarismo triviale, che è più forte di qualsiasi concettualizzazione astratta di società e di responsabilità nei confronti di un’alterità ugualmente prossima, ma fondamentalmente priva di volto. Concezioni, dunque, fondamentalmente astratte perché prive di vero significato. Ma dopo tutto – mi ritrovo a chiedermi – chi avrebbe dovuto inculcare in modo non retorico questa idea all’interno di un’organizzazione collettiva essenzialmente categoriale, oltre che competitiva e per larga parte impolitica com’è quella in cui sono cresciuti e diventati adulti?
Osservo così che in questo quadro è possibile, al massimo, temere di infettare i padri e le madri anziane e malate (senza, però, sapere davvero rinunciare all’immersione nella bolgia). Ma come immaginare di potere contagiare un volto senza faccia e senza nome, senza peraltro averne l’intenzione? In questo quadro, semi-anomico e tuttavia normale, esito di una precisa pedagogia pratica, come stupirsi del fatto che il comportamento in tempo di guerra non differisca da quello in tempo di pace? Come fare a esigere, cioè, una cittadinanza attiva e responsabile quando questa stessa idea è niente più che una nozione astratta su un manuale di educazione civica, smentita peraltro continuamente dalla pratica politica complessiva? Ci vuole davvero coraggio e ingenuità a esigerla e invocarla.
Con questo pensiero finisco il mio negroski e decido di tornare a casa. È tutto sommato presto, ma davvero non ce la faccio a tirare tardi. Non so se domani esco. (pietro saitta)
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