
Sarà presentato domenica 12 giugno a Milano il nuovo numero (n.8 / maggio 2022) de Lo stato delle città. I redattori della rivista incontreranno Emilio Caja, ricercatore e attivista, al centro sociale Cox18 (via Conchetta, 18) a partire dalle 16:00.
Pubblichiamo a seguire l’intervista che Caja ha rilasciato a Pietro Savastio.
Pietro Savastio: Ciao Emilio, ti volevo coinvolgere in una conversazione a due sul libro che hai curato insieme a Francesca Esposito e Giacomo Mattiello, Corpi reclusi in attesa di espulsione. La detenzione amministrativa in Europa al tempo della sindemia (edizioni SEB27, pp. 332, 2022). Il libro tratta della violenza della detenzione amministrativa legalizzata e, fammi dire, “sdoganata” nei confronti dei migranti, e lo fa offrendo una prospettiva a macchia di leopardo su vari paesi europei. Alla luce della tua esperienza sia in università che come attivista vorrei ragionare di alcune questioni che si ritrovano nel libro e che ci parlano di violenze razziali sistematicamente e sistemicamente in atto. Nella prefazione al libro, l’antropologo iraniano Shahram Khosravi scrive che ormai in Europa è stata istituita “una condizione di deportabilità permanente delle persone non cittadine”. Che cosa significa esattamente questa deportabilità permanente? Come si materializza?
Emilio Caja: Introduci subito un punto importante, cioè il processo europeo di strutturazione “plastica” del regime di frontiera, come lo descrive Ana Ballesteros nel libro. I centri di detenzione, in Italia come in altri paesi europei, stanno diventando il pezzo di un ingranaggio che si muove secondo una logica efficentista, che mira alla selezione tra chi ha il “diritto di restare” e chi è invece destinato alla deportazione (laddove ci sono accordi di rimpatrio con i paesi di partenza, come nel caso dell’Italia con la Tunisia). Questo è molto visibile in Italia da quando la situazione sanitaria legata alla pandemia è stata “sfruttata” per introdurre il sistema delle navi quarantena, dove tutte le persone che arrivano attraversando il Mediterraneo vengono confinate per almeno quattordici giorni. Parliamo di una pratica che va avanti da due anni a prescindere dalle “ondate di Covid” che ciclicamente condizionano la mobilità delle persone italiane. La nave quarantena non solo è un luogo dove si confina “per proteggere”, con la netta sensazione che a essere protetta non sia la salute delle persone migranti a bordo (dove sono morte già tre persone), ma la presunta “bianchezza” dell’Italia. La nave quarantena è anche diventato uno spazio lontano dagli occhi di attivisti e legali dove spesso vengono decise le sorti delle persone, categorizzate secondo chi “ha diritto” e chi “non ha diritto” di restare in Italia e in Europa. Ecco la strutturazione “plastica” di cui dicevo. Ma questo, è importante sottolinearlo, non è un unicum italiano e, anzi, rientra in un preciso piano europeo che, nel testo di presentazione del New Pact on Migration and Asylum, manifesta l’intenzione di creare una “procedura senza soluzione di continuità alla frontiera”. La plasticità del sistema di frontiera, cioè la sua capacità di reinventarsi, manifesta insomma la volontà di “salvaguardare un ordine sociale razzista”, come dice l’antropologo Barak Kalir. Per molte persone, quindi, lo spettro della deportabilità permanente comincia ormai ben prima dell’arrivo in Europa. Già prima di partire esiste questa minaccia che cerca di agire come dispositivo di amministrazione e dissuasione.
PS: Ma questa “deportabilità” che tu descrivi vale solo per i nuovi arrivati alle frontiere?
EC: No, anzi. Per chi riesce a superare la frontiera europea, il “sogno dell’integrazione” che molti giornali raccontano con episodi scelti a tavolino si trasforma invece in violenza quotidiana. Una violenza che è figlia del razzismo istituzionale e del capitalismo razziale che sono indissolubilmente intrecciati nella dinamica di disciplinamento dei corpi razzializzati. Quando parlo di razzializzazione faccio riferimento a un processo di attribuzione di caratteristiche razziali, disumanizzanti e inferiorizzanti operato nei confronti di alcuni individui o gruppi che finisce per produrre una esclusione materiale e simbolica. Di fatto, attraverso una serie di pratiche istituzionali, lo stato si offre come dispositivo che “crea” la condizione razziale e che mette le persone razzializzate al servizio delle industrie del mercato capitalistico in cui possono essere utili – agricoltura, turismo, logistica, lavori di cura, e così via. Nel libro dedichiamo particolare attenzione alle prassi discriminatorie (sgomberi, arresti, detenzioni) attuate nei confronti delle persone straniere senza documenti e senza fissa dimora, una condizione in cui sono costrette a causa delle incoerenze per cui senza lavoro e/o senza una residenza non puoi rinnovare il permesso di soggiorno; una condizione in cui le persone straniere si sono trovate sempre più frequentemente durante la pandemia a causa della chiusura di dormitori e luoghi di accoglienza, tanto in contesti urbani quanto in contesti rurali, in primo luogo nei ghetti delle campagne agricole. Vengono prese di mira persone che sono identificate – dai media e dalle forze dell’ordine – come socialmente pericolose e quindi “indesiderabili”. Nel libro ci chiediamo quali siano i meccanismi che relegano queste persone a vivere una condizione di marginalità. La risposta si trova negli infiniti tempi di attesa degli uffici immigrazione delle questure di tutta Italia, nelle loro richieste burocratiche spesso difficili da capire anche per chi parla la lingua; nei nuovi paradossi introdotti dalla pandemia, tra cui quello per cui non si può entrare nei pubblici uffici senza green pass, e questo vale anche per chi deve fare richiesta di protezione internazionale, tendenzialmente persone appena sbarcate, senza soldi e diritti sul territorio europeo. A fianco alle questure ci sono poi molti altri razzismi quotidiani che indirizzano le vite delle persone: accesso alla casa, diritto alla salute, possibilità di trovare un lavoro. Tutti ambiti in cui lo stato è assente o è coinvolto direttamente nel processo di marginalizzazione e criminalizzazione.
PS: Hai introdotto il concetto di “capitalismo razziale”, puoi spiegarci meglio di cosa si tratta? In qualche maniera sembri suggerire un legame tra la produzione del corpo razzializzato e l’economia politica europea. Per provare a sintetizzare la questione: che funzione svolge la persona migrante nel modello di produzione europeo?
EC: Riprendendo un’importante analisi sul capitalismo razziale, quella di Cedric Robinson in Black Marxism: The Making of the Black Radical Tradition (1983), si può dire che lo sviluppo della civiltà europea moderna sia basato sulla schiavitù, sulla violenza, l’imperialismo e il genocidio. Ecco, nel libro noi riprendiamo le parole di Françoise Verges da Un femminismo decoloniale (tradotto in Italia nel 2020), secondo cui l’odierna configurazione del capitalismo razziale affonda le radici nell’idea di trattare gli esseri umani come scarti, come rifiuti, istituendo così una politica di “vite usa e getta”. Il rapporto tra storia del colonialismo europeo, neocolonialismo e politiche di frontiera europea è dunque strettissimo. La pandemia ha reso la dinamica dell’usa e getta molto evidente, mostrando come le persone migranti e razzializzate siano inserite in una specifica logica di produttività in cui lo spettro della deportabilità permanente e il ricatto dei documenti giocano un ruolo fondamentale nel produrre soggetti precari da inserire in nicchie del mercato del lavoro che necessitano di manodopera a basso costo e “disciplinata”. Tutto ciò si è reso visibile, per esempio, quando nel 2020 si è assistito al movimento “sponsorizzato” di lavoratori e lavoratrici migranti considerati “essenziali”, per esempio nel settore sanitario, logistico, di cura e, soprattutto, agro-industriale. Con la chiusura delle frontiere per il Covid, questi settori si sono trovati in carenza di manodopera in tutto l’Occidente – Italia, Germania, Inghilterra per nominare tre esempi di cui parliamo nel libro –, e alcuni/e lavoratori e lavoratrici, per lo più razzializzati/e, sono diventati/e “essenziali”, mentre per decine di migliaia di altre persone i confini si sono ulteriormente sigillati e le frontiere interne inasprite. Una delle operazioni tipiche del capitalismo razziale è quella di dividere tra chi è “desiderabile” e chi è “indesiderabile”. Ed è proprio questa divisione, e la possibilità per tutte le persone senza documenti o con documenti temporanei di diventare “indesiderabile”, che rende chi migra una soggettività precaria. In quest’ottica la detenzione amministrativa è uno strumento che oltre a rimpatriare serve anche a disciplinare, sia sul piano materiale che su quello simbolico. Lo spettro della deportabilità precarizza le esistenze, costringendo così queste persone in nicchie di iper-sfruttamento.
PS: Hai chiarito bene l’intreccio tra criminalizzazione politica e sfruttabilità economica. A questo punto però emerge una grossa incoerenza tra i diritti umani sanciti e retoricamente sostenuti dall’Unione europea e le pratiche che essa realizza. A fronte della lunga detenzione resa possibile nei Cpr (fino a novanta giorni, dopo la riforma Lamorgese) e dello statuto di ricattabilità permanente, mi chiedo: i diritti umani non sono forse già calpestati nel momento in cui un essere umano non può mettere piede su un pezzo di terra emersa per il solo fatto di non disporre di un pezzo di carta che lo permetta? Sulla base di quale principio un uomo è privato della libertà per un tempo prolungato senza che abbia commesso nulla di disonesto?
EC: Certamente. Riprendendo un articolo molto chiaro uscito su Lo stato delle città n.7 a firma Teresa Florio, della Rete Mai Più Lager – No ai Cpr di Milano, la detenzione amministrativa e la sua violenza dipendono dalla vaghezza normativa che deliberatamente (non) disciplina il funzionamento di questi luoghi: circolari, regolamenti interni, prassi arbitrarie poco e male normate diventano lo standard di quella che Jodi Melamed nel suo libro Represent and Destroy (2011) ha chiamato “rule by rule” (stato di arbitrarietà), in opposizione alla “rule by law” (stato di diritto). Ciò che viene contestato a chi finisce in un centro di detenzione è un reato amministrativo, già di per sé un paradosso. Si finisce in strutture detentive, che la quasi totalità delle persone che hanno avuto esperienza carceraria definisce “molto peggio di una galera”, per il solo fatto di non avere i documenti. Ufficialmente questi luoghi servono per il rimpatrio, o per l’accertamento di questa possibilità, delle persone senza documenti, ma visti i tassi di deportazione molto bassi (che, come spiega Giulia Fabini nel libro, in Italia sono spesso inferiori al cinquanta per cento) questi luoghi si configurano sempre più come spazi di “difesa sociale”. Ne consegue che i soggetti presi di mira da queste istituzioni sono quelli considerati “non degni”: chi arriva alle frontiere e viene subito classificato come “migrante economico”, come il caso delle persone tunisine; persone che vivono in Europa da anni in condizioni di semi-legalità o illegalità e sono quindi considerate “marginali” o “pericolose”; persone che sono diventate “illegali” mentre scontavano una pena carceraria, i “devianti” che non appena finiscono di scontare la loro pena vengono trasferiti in un Cpr. Un esempio di selettività condizionata, poi, è davanti ai nostri occhi con la guerra in Ucraina. Come ha spiegato Gennaro Avallone su Effimera, l’Ue ha deciso di applicare la direttiva 55 del 2001 che permette di agevolare gli accessi dall’Ucraina senza seguire le procedure delle richieste di asilo ordinarie e senza i vincoli del Regolamento di Dublino. Questa misura è stata però applicata in maniera selettiva. Ai cittadini ucraini e ai rifugiati in Ucraina è stata concessa una protezione temporanea automatica (della durata di un anno in Italia); alle persone straniere con permesso temporaneo in Ucraina “che non sono in grado di ritornare in condizioni sicure e durature nel loro paese” il tipo di protezione temporanea che avevano in Ucraina dovrebbe essere convertito negli equivalenti dello stato europeo di destinazione. Vediamo qui, quindi, un primo ordine di discriminazione. Ma c’è anche una seconda differenziazione nella possibilità concreta di abbandonare il paese, con episodi di discriminazione razziale nell’accesso a treni, autobus e, soprattutto, di detenzione di persone razzializzate in Polonia ed Estonia. Ci sono poche informazioni su chi siano queste persone e quale sia il loro status giuridico (è da ricordare che a livello europeo ogni riferimento alle persone presenti in Ucraina senza documenti è escluso, quindi per loro non è prevista nessuna protezione), ma è evidente che la selettività delle frontiere stia già operando. Viene da chiedersi cosa succederà da qui a un anno, quando i permessi temporanei per le persone ucraine scadranno. Non bisogna infatti dimenticarsi la lunga storia di sfruttamento delle persone ucraine in Europa o il fatto che, fino alla dichiarazione di invasione, l’Ucraina era per l’Italia un paese “sicuro” dove poter deportare le persone, nonostante la guerra in Donbass andasse avanti da almeno otto anni.
PS: Quello che emerge è il ruolo giocato dall’Ue nella gestione dei singoli confini nazionali. Quale sembra essere la direzione da qui ai prossimi anni da un punto di vista istituzionale? Cosa ci dobbiamo aspettare in termini di violenza istituzionale, da parte dell’Ue, negli anni a venire?
EC: L’Unione europea, guidata dagli interessi dei singoli stati, sta portando avanti un processo di esternalizzazione dei confini europei che si basa su tre elementi chiave: militarizzazione, sorveglianza, umanitarizzazione. Per quanto riguarda i primi due, stiamo assistendo non soltanto alla configurazione delle strutture di identificazione e “prima accoglienza”, come gli hotspot e – più in generale – le isole, al fine di renderli dei luoghi funzionali alla classificazione delle persone in movimento. In questo senso posti come Lampedusa, Ceuta e Melilla, Lesbo e le isole greche, sono tutti luoghi in cui la differenza tra ciò che viene definito accoglienza e la detenzione sta andando sempre più sfumando, nel tentativo di “umanitarizzare” le frontiere. Un tentativo a mio avviso ingannatore se poi si prendono in considerazione gli altri due elementi, ossia la militarizzazione e la sorveglianza, con centri circondati da sbarre e inferriate e riempiti di telecamere. In quest’ottica i centri di detenzione amministrativa come i Cpr seguiranno sempre più la traiettoria di cui parlavo prima: da un lato punto di approdo finale per chi viene respinto al suo arrivo, dall’altro luogo di reclusione per chi, sprovvisto di documenti, è considerato “socialmente pericoloso”. C’è però un tema fondamentale di cui non possiamo non parlare. L’esternalizzazione sta avvenendo in quest’ottica di spostare i confini sempre più ai margini dell’Europa, ma si sta spostando anche oltre i confini europei: in mezzo al mare, sulle coste di Libia e Tunisia, in Marocco, nel Sahel. In quest’operazione necropolitica l’Ue gioca un ruolo fondamentale con Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera. Come riporta il sito abolishfrontex, “quella che era iniziata come una piccola agenzia in Polonia, è diventata una delle più grandi dell’Ue. Il suo budget è cresciuto di oltre il 7560% dal 2005, con 5,6 miliardi di euro riservati all’agenzia dal 2021-2027. Frontex ha reclutato un esercito di guardie di frontiera che possono possedere e usare pistole, e mira ad avere diecimila guardie entro il 2027”. Un esercito che, attraverso l’uso delle tecnologie più sofisticate in ambito di sorveglianza, decide la sorte di decine di migliaia di persone, condannando una gran parte alla morte prematura.
PS: Dai centri di detenzione a Frontex… Cosa è possibile fare, di contro? Per cosa battersi, di fronte a tutto questo?
EC: Il libro, come diciamo nell’introduzione, serve anche, e forse soprattutto, a portare alla luce le voci di dissenso, le azioni di solidarietà volte a squarciare il velo di opacità e isolamento intorno alle vite delle persone detenute, nonché gli atti di resistenza quotidiana, individuale e collettiva, che hanno messo e continuano a mettere in scacco la macchina detentiva – delineando come unica alternativa possibile quella della chiusura di queste strutture di privazione della libertà e violazione della dignità umana. Per provare, come diceva Franca Ongaro Basaglia, ad “aprire la contraddizione a un livello diverso”. Questa contraddizione riguarda i meccanismi di costruzione del “soggetto migrante”, nonché quelli della sua criminalizzazione e illegalizzazione, che ne giustificano il confinamento. Campagne che puntano sull’idea della “innocenza” delle persone migranti, detenute o meno, implicitamente – seppure non sempre intenzionalmente – riproducono la linea di demarcazione tra chi “merita” e chi “non merita”, chi è “innocente” e chi è “colpevole”. È proprio questa linea, tuttavia, che deve essere decostruita e cancellata al fine di rovesciare questa realtà drammatica e oppressiva. Il collante tra gli intenti di questo libro e tante delle lotte di cui facciamo parte, con tentativi e gruppi come Abolish Frontex, sta nella parola chiave “abolizionismo”. L’abolizione di queste istituzioni di violenza e morte vuol dire non scendere a compromessi legati a una loro presunta “riformabilità”, ma lottare per chiuderle e riappropriarci delle enormi risorse riservate al loro mantenimento. Inoltre, come attivisti europei e bianchi dobbiamo non soltanto dare risalto a queste forme di resistenza, ma anche essere in grado di mettere in discussione e rielaborare molte delle nostre pratiche e dei linguaggi consolidati, per permettere a chi subisce tutti i giorni la violenza di questo sistema di prendere la parola in questa lotta.
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