Giovedì 11 luglio in una parte della casa circondariale “Ernesto Mari” di Trieste è scoppiata una rivolta repressa dalle forze dell’ordine, sembra anche con l’uso di gas lacrimogeni, per cui si è arrivati alla chiusura per alcune ore dell’accesso all’adiacente via del Coroneo. La rivolta sarebbe scaturita da una contestazione disciplinare che il direttore ha fatto insieme a un agente. Dopo la contestazione il detenuto, molto giovane, di origine straniera, sarebbe tornato in sezione molto agitato sostenendo di avere ricevuto uno schiaffo. Durante la rivolta alcuni detenuti sono arrivati in infermeria, sfondando i cancelli. Il giorno dopo il magistrato di sorveglianza è entrato e ha sentito i “rivoltosi” (che saranno trasferiti). Le loro richieste erano soprattutto sulla riduzione dell’affollamento. La direzione del carcere sostiene che non sia stato necessario usare la forza per sedare la rivolta.
A differenza delle carceri più recenti l’istituto triestino, risalente alla prima metà del Novecento, è stato costruito nel centro della città, addirittura attaccato all’edificio del tribunale locale. Diversi edifici residenziali si affacciano sulle strade che circondano l’istituto e da lì in pochi minuti a piedi si arriva alla stazione centrale. Durante le prime ore della rivolta le forze dell’ordine hanno impedito l’avvicinamento al carcere, mentre intorno alle 23 la sorveglianza è stata allentata ed è stato possibile transitare almeno a piedi. Anche se a quel punto la situazione si era tranquillizzata, rimanevano diverse ambulanze e automediche con il motore accesso, mentre agenti della polizia penitenziaria facevano capannello davanti all’ingresso e nei ristoranti ancora aperti dei dintorni, commentando quanto accaduto. Da alcune finestre di una delle sezioni maschili ogni tanto si affacciavano pochi reclusi. Nel frattempo, dalle finestre che danno sulle scale interne si vedeva un certo viavai. Quando sembrava tutto finito una persona detenuta è stata portata fuori in barella: sembrava sedata, ma una volta nell’ambulanza ha iniziato a muoversi e poi ha alzato la testa. Poco dopo l’ambulanza è andata via, accompagnata da due macchine della polizia penitenziaria.
Difficile negare che ci si sia trovati di fronte a una situazione straordinaria. Il 12 luglio Antonio Poggiana, il direttore generale dell’Azienda sanitaria universitaria giuliano isontina (Asugi), ha fatto diffondere un comunicato in cui si ringrazia tutto il personale per aver “gestito correttamente una situazione potenzialmente molto rischiosa”. Secondo l’azienda sanitaria la rivolta sarebbe stata portata sotto controllo dopo una “mediazione” accettata dai detenuti. Leggendo il comunicato si apprende anche che per fare fronte alla rivolta l’Asugi avrebbe attivato il Piano di emergenza interna per il massiccio afflusso di feriti (indicato nel comunicato con l’acronimo Peimaf), con dieci ambulanze e due automediche. In un comunicato uscito lo stesso 11 luglio l’Azienda parlava di “maxi-emergenza” e diceva di aver trasportato al pronto soccorso sette pazienti: quattro con malori, uno con un’intossicazione da fumo e due per problemi legati a delle cardiopatie. Venerdì 12 due persone risultavano ancora ricoverate in medicina d’urgenza.
Nel frattempo però una persona, il quarantottenne sloveno Zdenko Ferjančič, è stata trovata morta in cella. Non faceva colloqui, probabilmente non aveva famiglia in Italia. Aveva un reato di droga ma non era in carico al Serd. Le notizie trapelate fino a questo momento parlano di metadone sottratto dall’infermeria durante la rivolta, che avrebbe causato al detenuto un’overdose. La presunta morte per overdose di metadone porta la mente alle rivolte della primavera del 2020 e soprattutto alla strage del carcere di Modena. È il caso di ricordare che il metadone è un oppioide sintetico che viene usato nel trattamento delle dipendenze da alcuni tipi di stupefacenti. Secondo la rilevazione di Antigone del 30 giugno 2024 nel carcere giuliano ci sarebbero cinquantadue persone tossicodipendenti, ma mancherebbe una sezione apposita per loro.
Il carcere di Trieste, composto da sette sezioni maschili e da una femminile, è come tanti altri strutturalmente sovraffollato. A fronte di una capienza di 150 posti, il documento di Antigone parla di 257 persone presenti (25 donne e 232 uomini). Di queste, 164 sono straniere. Nello stesso testo si fa presente che alcune celle sono infestate da cimici dei letti, mentre altre sono prive di riscaldamento e acqua corrente. All’interno del carcere triestino 89 persone farebbero uso di sedativi mentre 35 prenderebbero stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi. Nonostante ciò, non esisterebbe un servizio psichiatrico quotidiano nella struttura, ma solo in base alle necessità degli individui. Al momento, inoltre, secondo i dati diffusi da Antigone, solo tre persone detenute possono uscire per lavorare all’esterno.
Poche ore dopo la rivolta, Enrico Trevisi, vescovo di Trieste dal 2 febbraio 2023, ha diffuso una nota in cui invita a tenere alta l’attenzione sulle persone detenute. Trevisi fa notare che lo Stato, nel punire chi ha infranto le leggi, a sua volta non rispetta la normativa sulla detenzione visto che “il sovraffollamento […], l’inadeguatezza delle strutture e l’impossibilità di sanificarle […] rendono le pene inumane. Il caldo con strutture sovraffollate rende tutto ancora più esasperante”.
Nella sua nota Trevisi si sofferma anche sul concetto di pena, sostenendo la necessità di lavorare a delle alternative a quella detentiva. Forse è proprio questo uno dei punti cruciali, in un momento in cui il numero di suicidi in carcere continua ad aumentare e l’idea della privazione della libertà come retribuzione per un torto arrecato alla società sembra sempre meno convincente. Sarebbe il caso di riflettere anche sul concetto di rieducazione del condannato sancito dalla Costituzione, ricordando che lo stesso testo non dà per scontata l’esistenza, e quindi la necessità, del carcere. (redazione)
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