Dal momento del suo ritorno nel 1997 da colonia inglese a regione a statuto speciale cinese, Hong Kong vive nella condizione di stato indipendente sotto quasi ogni aspetto. Già nel 2014, tuttavia, la Cina aveva imposto uno screening dei candidati a Chief Executive (l’equivalente del primo ministro), atto che aveva causato la prima grande protesta, la cosiddetta Umbrella Revolution. Sulla carta, però, sistema legislativo, governo e corpo di polizia di Hong Kong restano indipendenti dal potere centrale cinese. È per questo che la società civile della regione si è mobilitata in massa contro la possibile approvazione di una legge sull’estradizione che avrebbe dato alla Cina la possibilità di estradare persone sulla base dei propri (spesso dubbi) procedimenti legali. Le proteste si sono sviluppate in vari momenti e in varie forme, e tuttora continuano da ormai due mesi.
Il giugno caldo
Le proteste sono cominciate a giugno, con marce monumentali nei sabati del 9 e del 16 del mese e con un’affluenza rispettivamente di uno e due milioni di persone. Come già durante l’Umbrella Revolution, le manifestazioni sono state pacifiche. In mezzo tra le due marce, mercoledì 12, c’è stato un primo tentativo di occupazione delle strade intorno ai palazzi del governo, anche questo già accaduto nel 2015. La polizia è intervenuta duramente, con tattiche rozze e atteggiamenti ostili anche nei confronti dei giornalisti. La violenza delle forze dell’ordine ha toccato l’emotività anche di quelle persone che solitamente rimangono estranee alle proteste, provocando il 14 giugno la cosiddetta “protesta delle mamme” e il 16 la seconda marcia generale che ha coinvolto il doppio delle persone di quella precedente.
A fronte di questi eventi la Chief Executive, Carrie Lam, ha sospeso il voto della legge, rifiutandosi però di ritirarla in maniera definitiva. Questo atteggiamento, ritenuto in malafede e ingannevole, aggiunto al rifiuto di fare ammenda rispetto all’atteggiamento della polizia, ha causato una radicalizzazione della protesta e un vortice di eventi che continuano a susseguirsi.
Il 21 giugno la stazione centrale di polizia è stata presa in “assedio”; il 1 luglio, giorno di festa nazionale che celebra il ritorno di Hong Kong alla Cina, un’altra marcia di circa quattrocentocinquantamila persone è sfociata in un’occupazione, per qualche ora, del parlamento. Muri, quadri e bandiere sono stati imbrattati, ma sempre – pare strano dirlo – con un certo contegno: i ritratti dei governatori ricordati come buoni amministratori sono stati lasciati intonsi, mentre quelli considerati troppo servili nei confronti della Cina sono stati sfregiati. Una bandiera cinese che sventolava fuori dal palazzo è stata tirata giù e lanciata in mare. È stato proprio questo gesto a cambiare la portata della protesta, infastidendo particolarmente il governo centrale cinese.
Ultima nota su questo periodo iniziale: cinque persone si sono suicidate in segno di protesta tenendo in mano lettere contenenti i “cinque obiettivi” delle manifestazioni: ritiro completo della legge sull’estradizione; caduta dei capi di accusa di “rivolta” nei confronti dei manifestati; rilascio degli arrestati; istituzione di una commissione indipendente di inchiesta sui comportamenti illegittimi della polizia; dimissioni di Carrie Lam.
La radicalizzazione
Da questo punto in avanti, l’intervento della polizia è stato sistematico. Gli agenti si sono sempre schierati in divisa antisommossa, privi di alcun numero di identificazione, facendo uso di gas lacrimogeni – secondo varie fonti scaduti e quindi più dannosi alla salute dei manifestanti – e intervenendo con manganelli contro persone perlopiù disarmate. Casi particolarmente gravi di abuso di forza sono stati registrati durante le proteste del 14 luglio a Sha Tin, dove la polizia ha tagliato le vie di fuga ai manifestanti e li ha inseguiti fin dentro centri commerciali e stazioni della metropolitana; poi, durante le proteste a Sai Yin Pun del 21 luglio e a Sheung Wan il 28 luglio. Da quel momento in avanti la polizia ha cominciato a usare proiettili di gomma e altre misure più dure per cercare di disperdere la folla.
All’occupazione del parlamento sono seguiti vari attacchi contro stazioni di polizia, consistenti in assedi durante i quali i manifestanti hanno lanciato mattoni verso le finestre o utilizzato fionde rudimentali nel tentativo di danneggiane le facciate. Solo nelle date più recenti (a partire dalla fine di luglio) si sono avute vere e proprie schermaglie “armate”, che hanno visto i manifestanti proteggersi con scudi e utilizzare altri oggetti trovati in strada. La necessità era quella di contrapporsi non solo alla polizia in antisommossa ma, occasionalmente, anche a gruppi delle triadi (la mafia cinese). I manifestanti hanno iniziato a creare barriere e a utilizzare rudimentali bottiglie-bomba.
Il ricorso alle triadi e le infiltrazioni tra la polizia
Un evento come Tienanmen ha ancora delle conseguenze sulle azioni dei governi cinesi, rappresentando il più celebre e spettacolare atto di repressione tirannica di una protesta. Per questo la Cina ha negli anni sviluppato altre tecniche, meno appariscenti, per risolvere situazioni scomode. Una consiste nell’utilizzo di bande armate prezzolate, solitamente affiliate a una triade (cosca mafiosa cinese), per intimorire gli oppositori. La sera del 21 luglio, mentre a Sai Yin Pun una marcia pacifica svoltasi durante la giornata si trasformava in un nuovo scontro tra polizia e manifestanti, a Yuen Long un gruppo di uomini in maglia bianca e dal forte accento mandarino (lingua parlata nella Cina continentale) cominciava a radunarsi. Inutili i tentativi di cittadini e rappresentanti politici locali di contattare la polizia, che rispondeva loro di non preoccuparsi, che erano al corrente della situazione e che non c’era nulla di cui aver paura. Intorno alle dieci di sera, mazze e spranghe in mano, i soggetti in questione hanno cominciato ad attaccare chiunque nei dintorni vestisse nero cercando di intercettare il transito di ritorno dalla marcia di Sai Yin Pun. Tristemente celebre è diventata la foto della schiena di uno chef che, finito di lavorare, è stato catturato dalla banda e pestato a sangue. Successivamente, un centinaio di uomini in maglietta bianca ha forzato l’ingresso di una stazione della metropolitana, pestando le persone in banchina e dentro i treni. L’arrivo con considerevole ritardo della polizia, quando le bande si erano già dileguate, ha dato adito a teorie di collusione tra polizia e questi gruppi armati. Ad agitare ulteriormente le acque, i filmati in cui si ascoltano gruppi di poliziotti in tenuta antisommossa, a volto coperto e senza numeri di riconoscimento, che comunicano tra di loro con accento mandarino, accreditando la tesi per cui la polizia cinese è attiva in città, ma in uniforme locale.
Il ruolo della “società civile”
Seppure ci siano varie organizzazioni che promuovono le azioni dei manifestanti, la composizione di chi protesta è molto vasta ed eterogenea. Anche per questo, a oggi, non è ancora emersa una voce singola che si possa definire quella di un “leader”. La maggioranza tra i manifestanti più attivi in atti di disobbedienza civile è costituita da studenti, anche giovanissimi. Nonostante i rischi e i toni accesi, però, la società civile ha avuto il suo ruolo nelle proteste. La “protesta delle mamme” del 14 giugno e poi del 5 luglio ha puntato il dito contro la violenza spropositata della polizia (in un momento della protesta ancora “calmo”). Il 17 luglio è stato il turno della “protesta dei pensionati” e ancora, a partire dalla fine di luglio, delle manifestazioni in aeroporto, quando lo staff di Cathay Pacific (compagnia di bandiera) ha organizzato sit-in pacifici per spiegare alla gente in arrivo la situazione politica in città. Il 21 luglio e il 2 agosto a scendere in strada sono stati i dipendenti statali, poi gli ordini professionali e gli operatori del settore finanziario. Ancora, i “vestiti neri” – l’ordine degli avvocati – mobilitatisi contro gli arresti indiscriminati e i capi di accusa ritenuti eccessivi nei confronti dei manifestanti, con modalità illegali e per fini politici; e dopo anche i medici, che hanno denunciato le irruzioni della polizia negli ospedali, per prendere illecitamente informazioni su manifestanti ricoverati. Intanto, i rappresentanti di Hong Kong hanno cercato di scuotere l’opinione pubblica internazionale, denunciando gli abusi al G20 di Osaka.
Lo sciopero generale
Il 5 agosto la città è stata paralizzata dalle proteste. Aeroporto e strade sono rimaste bloccate fino alle sei del pomeriggio, quando i manifestanti si sono scontrati con la polizia in più luoghi, in simultanea. In quell’occasione i gruppi armati delle triadi sono tornati a farsi vedere a North Point, trovandosi però di fronte manifestanti agguerriti che con ombrelli e altri oggetti hanno respinto l’attacco.
La città si è svegliata il mattino dopo profondamente turbata. Dei mille e ottocento lacrimogeni usati dal 9 giugno, ottocento sono stati impiegati solo il 5 agosto; centocinquanta le sponge grenade e centoquaranta – solo nella notte in questione – i proiettili di gomma. Gli arresti sono invece cinquecentosettanta, tra cui molti con accuse di rivolta e il rischio di una pena che parte dai cinque anni di galera.
Il governo intanto rifiuta qualsiasi tentativo di negoziazione. Che Carrie Lam fosse una pedina del potere cinese era cosa nota e sin dalla sua nomina ha dimostrato un atteggiamento arrogante, oltre a uno zelo senza precedenti nell’attuazione di un’agenda a solo beneficio del governo centrale. Non essendo Hong Kong una democrazia, il mantenimento del consenso non è un elemento così necessario. Seppure il Chief Executive sia estensione del governo cinese, però, i membri del parlamento sono in gran parte espressione di lobby e interessi commerciali della città. Aver deciso di portare avanti una legge sull’estradizione di cui la comunità non sentiva il bisogno, senza passare al vaglio di questo oligarchico consiglio, è stato un atto avventato pagato a caro prezzo, anche perché l’unico passo, quello della sospensione del voto di metà giugno, non è stato poi seguito da alcun tentativo di mediazione. Le apparizioni della Lam si sono anzi fatte più rade, poiché ogni sua parola ha avuto il risultato di ingrossare le file dei manifestanti ed esasperare ulteriormente la situazione.
Si è ipotizzato, in questi mesi, che la Lam abbia anche provato a dimettersi, vedendo però le dimissioni rifiutate dal governo centrale del presidente Xi, iracondo e preoccupato di salvare la faccia in questa contesa che costituisce il più grande affronto alla sovranità nazionale dai tempi di Tienanmen. Ogni protesta è così stata bandita, ogni richiesta di occupazione del suolo pubblico per esprimere dissenso negata, l’opinione di due milioni di persone, coi più vari interessi, ignorata. Con “corpi” vari provenienti dal continente, in un clima di tensione in cui i manifestanti vengono salutati con gas lacrimogeni e inseguiti da mafiosi armati anche nella loro ritirata, pare che la legge abbia lasciato campo libero ad abusi che non saranno mai puniti.
La propaganda intanto rimpasta gli eventi in una narrativa grottesca che pure trova un certo successo tra le fasce di popolazione meno preparate a valutare la veridicità dei contenuti digitali. Intere famiglie sono state lacerate dalle proteste e divise su barricate agli opposti estremi della scena di battaglia. Persone di mezz’età contro i propri figli e nipoti, ritenuti aggressivi e belligeranti. Persino tra la polizia, specie prima che la protesta degenerasse, sono stati espressi malcontenti, uniti a un grande senso di rabbia nel vedersi costretti a rappresentare un governo illegittimo che ha lasciato degenerare una battaglia politica in guerriglia.
L’estetica della protesta
Anche i colori rivestono un ruolo importante nella protesta. Vestiti di bianco per la prima marcia del 9 giugno, i manifestanti sono poi passati al nero dal 16 giugno in poi, scontrandosi con la polizia prima in blu, e poi in verde militare, quando passata all’assetto antisommossa. In maglietta bianca o azzurra sono invece le gang delle triadi. Allo stesso modo si colorano i muri, sui quali i manifestanti hanno cominciato ad attaccare post-it con messaggi di speranza verso il futuro, tanto a Hong Kong quanto in altre città in giro per il mondo dove vi sono comunità di hongkonghesi numerose. Persino in un momento estremo come l’occupazione del parlamento gli atti di vandalismo sono stati “mirati”, coronati da scritte colorate sui muri, del tipo: “Siete stati voi ad insegnarci che le marce pacifiche sono inefficaci. Non ci sono riottosi, solo tiranni”.
Il 6 agosto la polizia ha poi arrestato un rappresentante delle organizzazioni degli studenti accusato di aver comprato puntatori laser colorati, ritenendoli “armi pericolose”. Le forze dell’ordine si sono addirittura prodigate a realizzare una dimostrazione video in cui un laser veniva puntato per tempo prolungato contro un foglio di carta nel tentativo di dargli torto. La risposta è stata immediata e migliaia di persone, “armate” del pericolosissimo aggeggio, si sono radunate sul lungomare di Tsim Sha Tsui per un party improvvisato e clandestino, animato da raggi di luce verdi e blu.
Un nuovo tipo di warfare
La giornata dell’11 agosto ha visto in atto una repressione particolarmente violenta con gas lacrimogeni lanciati all’interno di stazioni della metropolitana e proiettili di plastica (bean bag rounds) sparati a distanze ravvicinate dalla polizia. Una ragazza che offriva servizio come paramedico durante gli scontri è stata raggiunta da uno di questi e ha perso un occhio. Nelle ore più tarde della notte, vari manifestanti di ritorno a casa sono stati aggrediti dai gruppi armati delle triadi che hanno agito nella totale impunità. Ma l’elemento nuovo che ha alterato le dinamiche psicologiche della protesta è stato la presenza di agenti in borghese, travestiti da manifestanti, che tirati fuori i manganelli hanno picchiato e arrestato tanti tra quelli che li avevano creduti compagni di protesta. Si vociferava già da mesi di infiltrazioni di polizia tra i manifestanti e di agenti cinesi operativi da entrambe i lati. Questa conferma filmata – e poi ammessa in conferenza stampa dalla polizia – ha però instillato dubbi e alimentato paranoie rendendo sempre più difficile la distinzione tra il vero e il falso.
Le reazioni
L’occupazione dell’aeroporto successiva alle proteste dell’11 agosto è durata due giorni e ha fatto emergere per la prima volta una certa disillusione anche tra i manifestanti. Il primo giorno la protesta si è svolta in maniera pacifica, ma il secondo la tensione è salita, anche a causa dei tanti viaggiatori irritati che hanno attaccato verbalmente tanto i manifestanti quanto le compagnie aeree decise a effettuare i voli nonostante l’impossibilità dei passeggeri di accedere ai check-in.
Tra i presenti è stato individuato un poliziotto cinese infiltrato, catturato e perquisito, e i cui documenti sono stati poi diffusi in internet a prova della sua identità. Tutti i tentativi di sottrarre il soggetto alle mani dei manifestanti hanno trovato resistenze, fino all’intervento della polizia con spray al peperoncino e alla seguente colluttazione con vari arresti. Un altro “infiltrato”, accusato di essere un finto giornalista, è stato bloccato e costretto a rivelare la propria identità, ovvero quella di reporter di una testata governativa cinese. L’uomo è rimasto in custodia dei manifestanti, legato ad una sedia con stringhe di plastica, e rilasciato solo successivamente al personale medico giunto in soccorso. L’immagine è diventata virale, rendendolo una sorta di eroe popolare in patria e inasprendo ulteriormente i toni dello scontro. Dopo questi episodi Pechino ha definito i manifestanti come “terroristi”, mentre in conferenza stampa questi si sono scusati per i gesti più estremi compiuti durante l’occupazione.
La Cina intanto ha tracciato la sua linea. Chiunque non supporti il governo attivamente è dal lato dei manifestanti. Il mondo del commercio, che aveva lasciato una certa libertà di coscienza ai propri dipendenti, è stato richiamato all’ordine. Prima azienda a pagarne le conseguenze è stata proprio la compagnia aerea di bandiera, cui è stato richiesto di bandire dai voli diretti in Cina o di passaggio sullo spazio aereo cinese qualunque membro dello staff che avesse preso parte alle manifestazioni. L’escalation di questa richiesta ha portato poi al licenziamento di due piloti e le dimissioni del CEO della compagnia.
Nonostante le pressioni del governo e gli errori dei manifestanti, in ogni caso, la partecipazione alle proteste da parte della cittadinanza rimane inalterata. Domenica 18 agosto un presidio stanziale autorizzato al Victoria Park di Causeway Bay si è trasformato in una marcia di quasi due milioni di persone che hanno camminato per ore, sotto una pioggia torrenziale, nel tentativo di raggiungere il parco. In assenza di forze dell’ordine e repressione, Hong Kong ha dato una nuova prova del suo senso civico, auto-regolandosi e ribadendo lo spirito originariamente pacifico della protesta, scandito dallo slogan che ha assunto un significato simbolico, in una giornata del genere: “Non ci sono manifestanti violenti, solo regimi tirannici”. (gianluca crudele)
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