Anche se l’estate è già finita, lasciate che vi dica che Cracking non è un libro da portarsi in spiaggia. O, almeno, questo è quello che mi ha detto il suo autore, Gianfranco Bettin: veneziano di Porto Marghera, classe 1955, sociologo, politico, ma soprattutto abitante di un territorio. Quando ho letto il libro, però, era già troppo tardi. Per chi ancora non lo avesse fatto: mettetevi comodi e scegliete il momento dell’anno che più vi aggrada. Cracking vi farà male lo stesso.
Quando arrivate a leggere della distesa viola del limonium in fiore sulla laguna avvelenata, per esempio. O quando, passo per passo, viene descritto come gli operai del Petrolchimico di Porto Marghera vennero a conoscenza, verso la fine degli anni Settanta, delle proprietà cancerogene del cloruro di vinile monomero, il materiale che inalavano e manipolavano giorno dopo giorno. Quando iniziano a morire: Dino, per primo. Dino a cui piaceva cantare e andare in montagna, che aveva cominciato ad avere delle febbri a cui cercava di non badare. Forse perché il rischio di restare senza lavoro pesa(va) più di quello di ammalarsi.
Cracking fa male perché mette a nudo le fibre tumorali di una terra che, seppur malata, continua a combattere. La sua storia viene raccontata attraverso istantanee intime e industriali: sono i ricordi di Celeste Vanni, anni sessantatré, vedovo. Ex operaio specializzato, entrato al reparto del cloruro di vinile nel 1973, figlio di un padre morto di silicosi per aver lavorato nei forni del carbon coke. Mentre scala la ciminiera più alta della zona industriale di Porto Marghera, da quei centocinquanta metri di vertigine, Celeste ripercorre i cambiamenti arrivati con l’industria e quelli provocati con il suo smantellamento, riporta in vita i rioni ormai spazzati via dai centri commerciali e riconosce le ferite invisibili scavate dalle moderne ecomafie.
Celeste però non osserva solo la distruzione dei luoghi che ama: dalle alture della fabbrica i suoi ricordi si intrecciano fino ad arrivare alle cime della Civetta, del Pelmo, quelle montagne imperiose da cui la laguna veneziana può essere vista in tutto il suo fragile splendore. Il suo sguardo, allora, prende dentro tutto: paesaggi montani e lagunari si fondono con panorami industriali per creare un dialogo continuo tra vita e morte. Il circolo però è impazzito, in questi paraggi la simbiosi tra veleno e vita è arrivata al punto limite, non è più equilibrio precario ma distruzione, è l’avvelenamento pianificato a norma di legge che ha trasformato Porto Marghera in una trappola per le genti che l’hanno abitata o che tuttora ci vivono. Bisogna spezzarlo questo vortice nocivo e Celeste è salito lassù per questo.
Celeste Vanni però non è solo un ex operaio che sta per fare un gesto estremo, quasi eroico, in nome degli amici morti o umiliati a causa della fabbrica. È anche un uomo che convive col dolore di aver perso la persona che amava. Rosi, la compagna di una vita portata via dal cancro; è lei l’altra protagonista del libro. La sua presenza è costante, quasi fisica: i passaggi in cui Celeste la ricorda si leggono con commozione, non solo per la tragicità della sua morte ma, sopratutto, per il modo in cui insieme scoprono e si innamorano della terra che li ha visti crescere. Lungo le pagine di Cracking l’amore di Rosi e Celeste si scinde in molteplici molecole e diventa un sentimento ramificato: è affetto per un territorio, per le persone che lo popolano, per la natura e i colori che lo rendono unico.
Ha questo di meraviglioso, Cracking: sa ritrattare senza pudore l’intimità che unisce le persone al territorio. E trasforma questo legame in un corpo unico, un organismo vivo che gioisce, si ammala, si arrende, lotta. A ritmo serrato, Cracking va plasmando un gesto eroico, ma lo fa a partire dalla vulnerabilità. «Casa nostra è qui sotto», dice Celeste al vecchio amico d’infanzia Max che, tornato dopo anni, non riconosce nulla. Al posto del rione in cui sono stati bambini, ora svetta uno dei centri commerciali più grandi della zona: il progresso arriva, tra le altre cose, per svecchiare i ricordi. O per sabotare le nostre mappe psico-geografiche, quelle che credevamo eterne. Sarà per questo rischio di estinzione affettiva che Gianfranco Bettin insiste tanto nel descrivere Porto Marghera: ne nomina le strade, gli odori, i colori. E così sappiamo che la laguna può tingersi d’oro e turchese, che i canali industriali hanno il bianco dei fosfati e il nero del catrame, o che, quando l’impianto ancora funzionava, c’erano vampate scarlatte che squarciavano la notte.
Non si tratta solo di gusto per il dettaglio. Tanta accuratezza è un esercizio di memoria: la compilazione di un archivo storico-sentimentale della città. Quelle nominate, sono strade che parlano di promesse di sviluppo economico fatte alle centinaia di famiglie operaie che, a inizio Novecento, arrivarono da ogni parte d’Italia. Sono luoghi densi di storia che alle volte Bettin rende esplicita con digressioni quasi tecniche, da specialista. In altri passaggi i riferimenti restano più velati e solo chi conosce Marghera li può cogliere al volo come elementi che si distinguono dal romanzo. È soprattutto alla comunità di Porto Marghera – a chi qui ha lavorato, vissuto e lottato – che sembra dedicato Cracking. Eppure una comunità – una comunione con il territorio – ce la portiamo dentro tutti, anche se annerita o sbiadita. Quello che suggeriscono Celeste e Rosi, allora, è che esiste un abitare più forte della svendita di questi territori intimi, un abitare testardo che pretende afferrarsi alla vita con le unghie. (caterina morbiato)
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