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Ho un amico in Galilea, fa il saldatore. La sua officina ha un tetto di lamiera, strumenti sparsi in disordine e una chitarra appesa sopra il tavolo di lavoro. Ora costruisce una ringhiera per la casa del fratello. C’è un fornello per il caffè e quando ci sediamo con la tazza in mano vediamo una pineta vicina. Le radici ancora stringono le macerie d’un villaggio palestinese: frammenti di case distrutte, massi nascosti fra aghi di pino. Su una pietra ho trovato il buco dove s’incardinava la porta d’un ingresso. «La foresta dei fantasmi», dice il mio amico, e ogni mattina innaffia l’albero di jawafa dietro l’officina. Vive accanto, in una roulotte abbandonata dai braccianti tailandesi che stavano nelle campagne. Sulle pareti restano ancora un’immagine buddista e scritte sparse in alfabeto thai, nell’angolo c’è il letto e sotto la piccola finestra una scrivania con un libro di poesie, una bottiglia di vino e fogli per scrivere. Il mio amico è musicista, scrive canzoni quando trova quiete dai periodi delle ombre. Un giorno mi ha sussurrato una ballata che si chiama L’ebreo errante. Comincia così: “Mio padre migrò dall’Argentina / su una barca di ferro / Mia madre dal Galles / La nonna dalla Germania, e il nonno anche / Fuggirono giusto in tempo / Quando i pogrom colpirono le città bianche / Il nonno Moshe fu nascosto in un sacco di patate / E così passò il confine fino a Istanbul / Montò sull’ultimo treno. / Ebreo errante, hai trovato il luogo dell’ultimo riposo? / Sotto l’albero di fico / con un comodo mutuo? / Dopo tutto, ti sei così stancato / ed è tempo di andartene di nuovo? / Devi continuare a vagabondare?”.
È autunno in Galilea. Dopo la metà di ottobre inizia la raccolta delle olive. Gli alberi sembrano appesantiti, cupi nei colori e poveri d’argento. Grava sugli ulivi la polvere accumulata in stagioni avare di pioggia. Il primo di novembre si vota per il parlamento in Israele: è la quinta elezione negli ultimi tre anni. Il mio amico non parla volentieri di politica, è nauseato dalla gestione della pandemia. Un mattino – eravamo in un sobborgo di Tel Aviv – mi ha detto che non si è vaccinato, non se la sentiva e ancora adesso si domanda se ha fatto bene, ma tutti intorno sono così sicuri di sé: «Generosi di punti esclamativi». Beveva un caffè e diceva che il governo della pandemia è stato insensato, l’informazione del tutto appiattita su un discorso unico: «Come si può accettare la sospensione dei lavoratori senza vaccino? La sinistra in Israele è finita». Ha detto di voler annullare l’abbonamento alla rivista progressista, e basta, non voterà il solito partito socialdemocratico, Meretz. Eravamo in Rashi Street, vicino al macellaio kazako e mi chiedevo se davvero importano i colori, le idee e i programmi dei partiti in queste elezioni. Le coalizioni sono due: una è a favore di Netanyahu; l’altra contraria. Si procede così da anni in un paese senza orizzonti. Ho visto la tradizionale manifestazione del sabato a Tel Aviv: cittadini in bici portavano una bandiera nera sulle spalle, un segno contro Netanyahu (“Bibi”, lo chiamano). Prevedo che anche il mio amico, alla fine, andrà a votare: soltanto per fermare Bibi, e nonostante la disillusione e lo sconforto.
All’inizio dell’autunno ero nel deserto del Sinai, in Egitto, e incontravo tanti cittadini d’Israele. Intorno a Santa Caterina, in montagna, ci sono antichi giardini curati dai beduini e molti israeliani in vacanza organizzano escursioni nell’alto deserto, montano le tende, viaggiano in cammello e dormono sotto le stelle. Ero con Shaban, la guida beduina, e Susan del Cairo: viaggiavamo a piedi noi tre soli, ogni notte dormivamo in un giardino diverso, fra ulivi e mandorli, e capitava di incontrare comitive lungo la via. Susan non voleva parlare con gli israeliani, secondo lei erano maleducati e rumorosi. «Hai visto che mi chiedono sempre chi sia, da dove venga? Sono sospettosi», diceva Susan. Io ho notato che erano ben equipaggiati: avevano scarpe adatte a lunghe traversate, vestiti leggeri e funzionali, un’attitudine alla vita all’aria aperta e con loro camminavano bambini temprati. «Si comportano come se questa terra fosse loro», diceva l’amica. Susan è figlia di un militare egiziano: la sconfitta del 1967 e l’occupazione israeliana del Sinai durata fino al 1982 sono ancora ferite aperte. Anche io notavo che la voce dei viaggiatori era spesso rumorosa, si rivolgevano ai beduini con la condiscendenza dei borghesi che sognano società multiculturali. Eppure non riuscivo ad arrivare a conclusioni generali che riguardassero “gli israeliani” e il loro comportamento.
Un mattino in montagna ho compreso meglio la mia sensazione. Gli israeliani nel deserto, disposti a buttarsi addosso qualche coperta, dormire sotto una tettoia e cagare in un compost toilet, m’apparivano come gli eredi dei lavoratori nelle originarie comunità agricole. Il riflesso contemporaneo d’un sogno di kibbutz. I turisti nel Sinai montuoso sono addestrati alla vita in terre aspre, conoscono le relazioni di un ecosistema, sanno orientarsi fra valli e anfratti rocciosi; dunque sono preparati al controllo militare del territorio. Avrei voluto dire a Susan che le passeggiate degli israeliani e i loro atteggiamenti sono il riflesso di un progetto politico, per quanto inconscio possa essere. E poi nei bagliori dei fuochi serali, avevamo una scodella di zuppa in mano, ho discusso con due viaggiatori: lei è docente in università, lui compositore, odiano Bibi, sognano la pace con i palestinesi e stimano i beduini. Mi sembravano il resto di una sinistra travolta da una crisi senza soluzioni. In Israele, tuttavia, vivono tanti altri frammenti di società: ortodossi nazionalisti, ebrei d’origine araba, ebrei d’Etiopia, religiosi che detestano il sionismo, agricoltori impoveriti, immigrati russi, e quanti altri ancora. E nessuno di loro viaggia fra le montagne desertiche del Sinai, avrei voluto dire a Susan; avrei anche voluto dirle che lei ha incontrato la parte migliore di Israele. Per fortuna ho taciuto: che cosa può mai significare “migliore”?
Spesso leggo alcune pagine del Quaderno di Israele di Giorgio Voghera. Voghera, scrittore triestino, ebreo, pubblica nel 1967 pagine di diario risalenti al tempo del secondo confitto mondiale: era stato, per un periodo, colono in un kibbutz. Erano i primi anni Quaranta e non esisteva ancora uno stato ebraico. Dal diario emerge un paesaggio che prende il colore dello sconforto e delle inquietudini del narratore. I racconti d’una vita dura nella comunità agricola s’alternano a riflessioni come questa: “Mi viene da pensare che la vittoria di Hitler sugli ebrei sarebbe ancora più completa, se – angustiati dalla loro terribile situazione e sbalorditi dagli immensi successi di un pazzo criminale […] – finissero anch’essi col fare proprie alcune delle tendenze che hanno formato il fondamento della sua spietata, ottusa e inutile forza: il nazionalismo aggressivo accompagnato dalla disconoscenza per i meriti ed i diritti delle altre nazioni; l’esaltazione dello Stato e la noncuranza per la sofferenza dei singoli; lo spirito militarista e il culto dell’eroismo per l’eroismo; lo sprezzo della vera cultura e l’attenzione minuziosa per tradizioni particolaristiche senza alcun effettivo valore; la divinizzazione dei capi e la degradazione dei gregari a puri esecutori, dei quali si premia soltanto il conformismo e la fanatica, acritica devozione. – No: questo non deve essere mai e non sarà; e se tale dovesse essere davvero il prezzo per salvare dalla catastrofe questo nostro ultimo rifugio, allora sarebbe meglio la catastrofe. Ma io mi rifiuto di credere che solo una specie di fascismo ebraico possa salvarci”. E Voghera chiude le sue fosche note con uno spunto di speranza: “Se c’è un popolo che dovrebbe essere refrattario al fascismo, questo è proprio il popolo ebraico”.
Ho attraversato il confine a Taba e sono entrato in Israele insieme a Tomi, un amico conosciuto nel deserto del Sinai. Tomi ha appena vent’anni, è sensibile e ha una conoscenza profonda della storia politica del suo paese. Studiava programmazione di software, ma ha abbandonato l’università e adesso monta condizionatori nel deserto del Negev. So che Tomi è riuscito a evitare il servizio militare, ma non mi ha detto perché; non ho insistito, ho intuito la sua vergogna. Vive a Ein Yahav, villaggio agricolo di un migliaio di abitanti accanto al confine giordano. Nella depressione desertica si vedono scorrere piantagioni di palma da dattero, qui i pozzi succhiano in profondità le acque di falda per un’irrigazione intensa ogni giorno. Oltre ai palmeti intorno a Ein Yahav ci sono serre per la coltivazione di peperoni, melanzane, pomodori. L’insediamento fu fondato nel 1950, quando Israele s’immaginava come paese agricolo capace di colonizzare il deserto a sud del Mar Morto. Ora l’agricoltura è in crisi. I prodotti dovrebbero essere venduti sui mercati esteri, ma non sono più assorbiti e per diversi motivi: l’innalzamento dei prezzi in Israele rende le merci poco competitive; inoltre la Russia è il principale interlocutore per le esportazioni agricole, ma il conflitto in Europa e le sanzioni occidentali ostacolano gli scambi. Infine, sostiene Tomi, lo stato non sostiene l’agricoltura: tutte le risorse sono dedicate allo sviluppo dell’industria high-tech e del turismo.
A casa di Tomi mi hanno accolto i genitori. L’interno era un ampio spazio aperto, dalla cucina al soggiorno, e intorno c’erano vetrate che davano sul cortile e il giardino. Il condizionatore era sempre acceso, uno strano macchinario a forma di cupola forniva acqua fredda o bollente, il televisore lasciava un ronzio di sottofondo. Il padre mi ha chiesto se finalmente in Italia fermiamo gli immigrati, era serio. Poi con una risata ha detto che la moglie ha origini tunisine. «Io non sono tunisina, sono israeliana!». Lei ha affermato di odiare i beduini, ma nemmeno Bibi le piace. Il fratello minore era in corridoio, si muoveva in modo scomposto con un visore sugli occhi. Mi chiedo come Tomi si sia formato in questo moshav, se si senta solo. La mattina Tomi mi ha portato in giro per Ein Yahav. Abbiamo incontrato alcuni lavoratori kenioti, nuova manodopera nei campi che affianca i thailandesi. Ci siamo avvicinati al confine e abbiamo superato il wadi, cartelli suggerivano di non avventurarsi fuori strada perché il territorio era ancora minato. Abbiamo raggiunto una base militare abbandonata dopo gli accordi con la Giordania del 1994. Accanto si apriva un tunnel buio, alla luce della torcia è apparsa la stanza che ospitava i missili. Il tunnel sboccava all’aria aperta e una scala con protezioni dai colpi dei cecchini portava su un’altura. Ecco il confine, vicino: il territorio giordano non aveva insediamenti, ma pallido deserto contro una catena montuosa. Ho visto un soldato giordano andare avanti e indietro da una garitta all’altra. Mi sono voltato e ho osservato una corona di verde attorno a Ein Yahav. Molte serre erano abbandonate: il sogno di Israele come un miraggio che vibra labile in via di sparizione.
All’alba di lunedì 3 ottobre i soldati israeliani hanno aperto il fuoco contro un’auto presso il campo palestinese di Jalazone, vicino a Ramallah. Trenta proiettili hanno raggiunto l’auto e due ragazzi sono stati uccisi: Basel Basbous, di diciannove anni, e Khaled Anbar, di ventidue. Soltanto nel 2022 più di centodieci ragazzi palestinesi sono morti, in West Bank, a causa delle operazioni militari d’Israele. Ero a Ramallah quella mattina. I negozi chiudevano le serrande per protesta, la città s’era fermata all’improvviso. In centro ho incontrato una manifestazione di centinaia di giovani e nelle vie laterali gruppi di adolescenti carichi di rabbia si lanciavano in cortei spontanei, tumultuosi, portavano bastoni, aste e la forza dell’esasperazione. «In West Bank ci sono omicidi quasi ogni giorno», mi ha raccontato giorni dopo Mazin Qumsiyeh. «Oggi sono morti due ragazzi, pochi giorni fa cinque a Nablus. Sta diventando una routine. Quello che è interessante, a proposito delle elezioni israeliane, è che i problemi palestinesi non esistono nell’agenda del dibattito politico. Le elezioni riguardano solo le personalità delle classi dirigenti: Netanyahu contro Lapid, o contro Lieberman. Costoro rappresentano solo ambizioni e interessi personali. E perché non si dibatte sulle politiche? Perché le politiche sono le stesse, non ci sono differenze fra Lapid, Netanyahu o altri». Mazin è professore di biotecnologie e genetica ed è il direttore del museo palestinese di storia naturale. Il museo conserva un archivio vivente della flora sviluppata fra il Mediterraneo e le rive del Giordano. Si trova alla periferia di Betlemme, a pochi passi dal muro. Dal giardino del museo ho visto un antico uliveto con i terrazzamenti, circondato da costruzioni in cemento d’un isolato residenziale.
Con un gruppo di attivisti israeliani, e amici, ho trascorso due giorni in West Bank, a Hemdat e Hamra. Hemdat è una colonia fra Nablus e il confine giordano. Sta su un’altura, ho visto soltanto le sue luci dal piccolo presidio di Raed. Raed è un pastore palestinese, alleva circa duecento pecore e ogni giorno le conduce attraverso le colline brulle, aride nei dintorni di Hemdat. Ha subito attacchi e intimidazioni dai coloni e per questo gli attivisti dormono con lui la notte, di giorno lo accompagnano con il gregge. La presenza di cittadini israeliani o di solidali internazionali ha il compito di inibire i propositi più violenti e fornire testimonianze sugli eventuali soprusi. In cresta sorge una base militare e un’altra base si trova all’imbocco della valle. Tettoie di lamiera difendono le pecore dal sole, anche il pastore vive al riparo di sottili lamine di metallo. Nel suo rifugio l’energia è prodotta dai pannelli solari. In un angolo c’è un fornello, due frigoriferi dismessi servono da armadio e in fondo sono ammassati materassi da disporre per terra la notte. Fuori, nel piccolo spazio che separa l’area del pastore dalla stalla, c’è un container che raccoglie l’acqua ed è riempito periodicamente da un camion che viene da lontano. In verità, a poche decine di metri, c’è una conduttura d’acqua che sale alla base militare, ma Raed non ha il diritto di collegarsi, nemmeno a pagamento. L’acqua è importante per la sopravvivenza del gregge: gli animali non possono idratarsi a sufficienza dalle scarne erbe che masticano sulle colline. Il pastore deve compensare la scarsità di cibo con foraggio rovesciato ogni pomeriggio nelle mangiatoie. Questa è la vita dell’uomo: morso dal sole, senz’acqua corrente, accerchiato da soldati e coloni, in un mondo di mosche e intorno cani spelacchiati e furenti che abbaiano come ossessi.
La mattina ci siamo alzati all’alba, a piedi siamo scesi verso la strada principale, sopra di noi le illuminazioni della base militare erano ancora accese. In fondo al sentiero ci attendeva in auto Agar. È un’attivista della rete dei solidali, ha settant’anni, un corpo esile e scattante e un filo di trucco sugli occhi. Agar è determinata e accompagna i pastori in West Bank più volte alla settimana. Abbiamo viaggiato verso sud e siamo arrivati ad Hamra, colonia di agricoltori circondata da reti elettriche e filo spinato. Ero già stato qui e le colline mi sono apparse le stesse: dolci, brulle e ricche di sfumature di giallo, marrone. Due pastori palestinesi conducevano le rispettive greggi su per i pendii e per accompagnarli ci siamo divisi in due gruppi di solidali. Io ero con Agar e Muin, un pastore di trent’anni, sereno in apparenza nel suo silenzio. Agar parlava arabo, era sicura di sé stessa; abbiamo seguito Muin in un’alba cosparsa di ocra.
Una ragazza della colonia israeliana ci seguiva con le sue pecore, sembrava tranquilla, manteneva le distanze. Muin lasciava brucare le bestie ed era indifferente, Agar invece si avvicinava alla colona e la inquadrava con il telefono, forse in attesa di un atto violento. Avevo la spiacevole impressione che l’ansia di giustizia di Agar sovrastasse le esigenze concrete del pastore. Perplesso, osservavo Agar inviare messaggi vocali in canali virtuali, come se la comunicazione in rete fosse più urgente del paesaggio materiale intorno a noi. Poco dopo, a valle, gli altri solidali hanno avuto uno screzio con un colono e Agar ha chiamato la polizia senza avvertirmi. Ci mancava la polizia. Muin mi ha sorriso, sornione mi ha chiesto: «Non è che hai cinquanta sheckel?»; intanto laggiù arrivava l’auto blu. In basso vedevo Hamra, le sue serre erano abbandonate. Se crolla il mercato agricolo, ho pensato, aumenta la rabbia e con essa la fame di terra, i soprusi contro i palestinesi: un circolo perverso, una lotta fra impoveriti e oppressi. Quando se ne sono andati gli agenti, Agar mi ha sorriso e mi ha offerto un caffè ancora caldo; ne avevo bisogno. Ho compreso che la sua forza e il suo entusiasmo sono indispensabili al movimento di solidali. Soltanto pochi giorni dopo Agar è stata aggredita da coloni vicino a Ramallah, le hanno rotto le ossa e le hanno preso tutti i soldi. Le hanno detto che le traditrici come lei dovrebbero essere uccise. Per fortuna mi ha assicurato che tornerà con i pastori appena si riprenderà.
È Sukkot in Galilea, la festa delle capanne. A Gerusalemme ho visto i balconi nei quartieri ortodossi foderati di pannelli in compensato, le uniche capanne possibili fra palazzi affollati. Qui invece i genitori anziani del mio amico hanno costruito una piccola impalcatura coperta con rami di palma. Per terra ci sono materassi e coperte e tutti i loro nipoti – ci sono almeno dieci bambini, ho perso il conto e a malapena ricordo i loro nomi – passano una notte di avventure all’aperto. Per cena mangiamo memulaim, peperoni stufati e ripieni di riso, cipolle, salsa di pomodoro e spezie. L’amico mio ha una chitarra in mano, sta in disparte e mi racconta dei traumi che segnano le coscienze di coloro che tornano dal servizio militare: alcuni rompono il silenzio, altri vanno avanti con i farmaci. Immagino che questa sia una chiave per comprendere il paese. Ilan, come finisce la tua canzone, quella dell’ebreo errante? Fa così: “Il nostro piccolo paese, fra trent’anni, sarà rimpinzato come un memulaim / Se è vero quel che dicono sul riscaldamento globale, / qui sarà l’inferno, / e i capi religiosi, che saranno al potere, / si rivolgeranno a Dio, forse finalmente Lui aiuterà. / Ebreo errante, hai trovato il luogo dell’ultimo riposo? / Sotto l’albero di fico / con un comodo mutuo? / Dopo tutto, ti sei così stancato / ed è tempo di andartene di nuovo? / Devi continuare a vagabondare? / Grecia o Cipro, si spende poco ed è vicino / Ma, forse, troppo vicino / Cento dunam di ulivi in Portogallo? / La notte sogno un’inquisizione di massa. / Canada, Nuova Zelanda – ora ci siamo! / Ci sono aperti paesaggi là, e l’aria è pulita / Ma uno come trova un amico, lontano dalla sua gente? / E come può trovare l’angolo dell’hummus, /degno del suo nome?». (francesco migliaccio)
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