La storia non è scritta una volta per tutte: quella passata sarebbe potuta andare in modo diverso, quella futura potrebbe prendere direzioni inaspettate. Dopo aver finito di leggere il secondo romanzo pubblicato da Luca Cangianti per l’editore Diarkos, I morti siete voi (2019, pp. 238, € 16), il pensiero è incoraggiato a immaginare nuovi mondi possibili. Non si tratta però di un libro dall’esito pacificante. Le ingiustizie del mondo e le ferite dei protagonisti non vengono sanate. La tensione drammatica alla fine si scioglie, ma soltanto grazie a un’immagine onirica che ci proietta verso un futuro ancora tutto da conquistare.
Possibile che tutto questo sia il frutto di un romanzo in cui troviamo azioni spettacolari, furti di armi, assalti a commissariati, catture, mostri antropofagi e, addirittura, il Raggio della morte, un’arma ideata da Guglielmo Marconi in persona? Sì, è possibile, se queste avventure spaventose sono ambientate nella Roma “ribelle e mai domata” sotto il tallone dell’occupazione nazista e, in particolare, nella borgata della Garbatella in cui si muovono i partigiani di Bandiera Rossa, formazione maggioritaria della resistenza romana, ma fortemente osteggiata dal partito ufficiale, cioè il Pci di Togliatti. Accanto a questo filone narrativo se ne sviluppa un altro, ambientato nel 2001, che attraversa il romanzo come un’interferenza irregolare, quasi si trattasse di un intruso. Salvo poi prendersi la scena finale, dove si raccontano gli scontri del G8 di Genova.
Il libro è avvincente e lascia con il fiato sospeso fino alla fine. Vale la pena di leggerlo anche come mero romanzo fantastico e di avventura. Ma tra i vantaggi di un romanzo di genere c’è la possibilità di immergere con leggerezza il lettore nella complessità dei nodi storico-politici che attraversano la narrazione.
Cangianti descrive con molta partecipazione il milieu popolare che caratterizza i militanti di Bandiera Rossa. C’è Spartaco, il ladro con una rigorosa etica professionale che gli impone di rubare solo ai ricchi, sbruffone, attaccabrighe; c’è Dante, l’oste panciuto e zoppo, ex operaio licenziato dai fascisti e abbandonato dalla moglie, la saggezza popolare fatta persona; c’è Gloria, la diciassettenne ribelle che, sbeffeggiata dalle sue compagne di estrazione borghese, studia alle magistrali per riscattare sé stessa e la sua comunità sognando un mondo in cui le ragazze possano vivere liberamente. Questo ambiente è visto attraverso gli occhi del protagonista, Vittorio, che ne è attratto ma al contempo fa fatica a lasciarsi completamente coinvolgere. Tenente dell’esercito regio, laureato in economia e commercio, figlio silenzioso e tormentato di un squallido gerarca fascista, Vittorio rimane lungamente sulla soglia e questo suo sguardo distante permette all’autore di descrivere il mondo della borgata romana con un certo lirismo, ma senza indulgere in stucchevoli romanticismi.
Vittorio è un eroe nel senso tipico della narrazione contemporanea. Prima ancora di combattere il nemico esterno deve combattere contro sé stesso facendo i conti con la sua ferita originaria, risolvere il rapporto di amore e odio nei confronti del fratello, suo vero e proprio alter ego, decidere se prendere parte ai conflitti del suo mondo o fuggire via in una terra lontana, la Malesia del suo amato Salgari, scrittore che aveva alimentato i sogni di fuga della sua infanzia in cui sventolava la bandiera rossa dei pirati di Mompracem. “La guerra per me è finita. Qualsiasi guerra”, sostiene Vittorio all’inizio del racconto. In quel momento è convinto che l’ultimo atto del suo impegno sia stata la partecipazione alla battaglia di Porta San Paolo a Roma, quando l’esercito regolare italiano, privo di ordini coerenti dei comandi, si sfalda di fronte ai nazisti e viene affiancato nei combattimenti dal popolo in armi (l’affresco corale che descrive le vicende del 10 settembre 1943 è molto coinvolgente). Dopo l’8 settembre, confessa a un certo punto Vittorio, “ho sentito che non dovevo più nulla a nessuno”. Ma, subito dopo, aggiunge di essersi sbagliato: alla passività subentra una cieca rabbia, un sordo desiderio di vendetta che spingono il nostro protagonista ad agire senza che venga meno la sua disillusione.
Dall’altra parte abbiamo l’eroe popolare. Questa tipo di personaggio può certamente essere rabbuiato dalle mille difficoltà del vivere quotidiano, può essere scosso dalla collera perché sente in profondità la sua oppressione, ma rimane fondamentalmente allegro, scanzonato e persino un po’ sbruffone perché sicuro della sua appartenenza di classe, del legame che lo unisce alla sua comunità, quella della Garbatella, teatro di relazioni umane profonde e rifugio sicuro nei momenti di difficoltà. Questo tipo di eroe si incarna nei molti personaggi del racconto che, singolarmente presi, possono sembrare attori secondari ma che, nel loro insieme, costituiscono il vero e proprio coprotagonista del romanzo.
Questo personaggio collettivo va a raffigurare il profilo umano della formazione partigiana Bandiera Rossa (che in realtà si chiamava Movimento Comunista d’Italia, ma era conosciuta con il nome del suo giornale, Bandiera Rossa appunto). Si tratta di gente di umile estrazione, ma fortemente radicata e rispettata nel proprio territorio, decisa a combattere i nazifascisti e a farla finita con le ingiustizie sociali del capitalismo. La distanza rispetto ai “signorini so-tutto-io” del Pci è notevole. Ma questo non porta il racconto a una sorta di esaltazione del buon selvaggio proletario, “populisticamente” celebrato per la sua illetterata autenticità. Come sostiene Dante: “Noi di Bandiera Rossa avremmo voluto studiare di più: imparare dai poeti l’arte di commuovere e che so dagli astronomi come guardare lontano, oltre le stelle. Perché la nostra causa ha bisogno di parole e immagini belle per essere spiegata a tutti. Ma siamo figli di gente qualsiasi che al fascismo serve solo per sgobbare e andare in guerra a morire. Ecco perché ci riempiamo d’orgoglio quando una nostra compagna è così brava da poter studiare”.
Questo profilo socio-antropologico porta con sé una concezione della politica lontana dai machiavellismi del Pci, dalle sue giravolte strategiche motivate dalla realpolitik. Nell’ideologia di Bandiera Rossa c’è poco spazio per la democrazia progressiva, figlia della limitazione della lotta partigiana all’obiettivo della liberazione nazionale. Per i nostri partigiani alla lotta di liberazione dal nazifascismo sarebbe seguita in tempi brevi la rivoluzione sociale. Sarebbe presto scoccata l’Ora X e, a quel punto, il comunismo sarebbe stato fatto “senza tanti cazzi”, come afferma Spartaco. Certamente le concezioni politiche del Movimento sono talvolta ingenue: si critica la linea di Togliatti in nome di Stalin, promuovendo al contempo un comunismo libertario; si sostiene una democrazia di base lontana mille miglia dall’Unione Sovietica che però continua a rappresentare un esempio, senza essere un modello da copiare. Un po’ di confusione è innegabile, ma si tratta di concezioni che mai si separano dalle aspirazioni e dal sentire dalla classe che le ha originate.
Tutto ciò emerge nel romanzo soprattutto attraverso vivaci dialoghi, talvolta innaffiati da abbondanti quantità di vino che obnubilano la lucidità di giudizio e irrorano le discussioni con originali ricette per l’osteria dell’avvenire, anche in senso letterale: quando ci sarà il comunismo, afferma con certezza Spartaco, “ci sarà lavoro per tutti e a nessuna mancherà mai un bel piatto di rigatoni con guanciale e pecorino. Anzi sarà garantito anche mezzo litro di bianco con il secondo e il contorno tutti i giorni”. Vittorio ancora una volta si mantiene sulla soglia e questo consente alla narrazione di procedere senza cadere in facili manicheismi: egli ammira la disciplina dei militanti del Pci, contrapposta all’arruffata generosità dei suoi compagni, comprende le ragioni del realismo togliattiano, di contro al sincero utopismo di Bandiera Rossa.
L’eresia ribelle del Movimento sarà soffocata dall’ostilità del Pci, spalleggiata dall’Unione Sovietica, per mantenere l’ordine stabilito a Yalta che prevede l’Italia sotto l’influenza statunitense. Ma si esaurirà anche per le sue insufficienze interne, per l’incapacità di proporre una linea alternativa al realismo togliattiano. La qual cosa è rappresentata con la descrizione del primo comizio di Togliatti a Roma dopo la sconfitta dei nazifascisti, a cui i militanti del Movimento si recano per contestare finendo invece per applaudire nonostante molte delle cose sostenute dal segretario del Pci siano in netta contraddizione con le posizioni di Bandiera Rossa. Vittorio assiste ammutolito e amareggiato. Nella realtà storica, dopo l’aperta denigrazione, il Movimento viene condannato all’oblio, seppellito sotto la narrazione patriottica della resistenza alimentata dal partito ufficiale.
Ma alle volte ciò che sembra scomparso per sempre riemerge dalle viscere della storia. I sogni a occhi aperti non adempiuti nel passato, direbbe Bloch, possono alimentare lo spirito utopico del presente. Le lotte del presente si incaricano di riscattare le sconfitte del passato.
I protagonisti delle giornate di Genova nel 2001, a dire il vero, appaiono nel romanzo molto distanti dai sogni di palingenesi sociale di Bandiera Rossa. Cangianti ci fa rivivere i dibattiti e le contraddizioni di quel periodo attraverso gli occhi di Valeria, studentessa di Villa Mirafiori, la facoltà universitaria di filosofia della Sapienza di Roma. Di fronte a chi voleva abbattere l’Impero, Valeria non era sicura “che si trattasse di portare a compimento un ideale del secolo scorso, quanto piuttosto di fare emergere un nuovo modo di vivere insieme. Qualcosa di più pratico, insomma”. Nel secondo filone narrativo del romanzo si mette dunque in scena la precaria coesistenza tra le diverse anime del movimento no global: le roboanti dichiarazioni di guerra simulata delle tute bianche, le tattiche di guerriglia urbana dei black bloc, le posizioni femministe contrarie agli eccessi “testosteronici” dei compagni, il lavoro lillipuziano di migliaia di volontari, i progetti di cooperazione e di commercio equo e solidale.
Questa generazione fu schiacciata dalla brutalità della repressione. Probabilmente non aveva gli strumenti per elaborarla perché aveva introiettato una parte della narrazione dominante. Era come se la violenza dello stato non fosse neanche concepibile, almeno qui in Occidente, perché all’idea di stato si associavano quasi automaticamente quelle di democrazia e di diritto. “Perché? Perché? Ci sparano addosso invece di proteggerci”, urla Valeria nel mezzo degli scontri di Genova, non riuscendo a farsi una ragione della ferocia repressiva della polizia.
Ma se le cose allora fossero andate diversamente? Se in quell’inizio di millennio un invisibile filo rosso della storia, in una maniera “assurda e inattesa”, avesse consentito di portare a termine ciò che era rimasto in sospeso quasi sessant’anni prima? E, soprattutto, se una simile occasione si presentasse in futuro? C’è di che essere scettici, difficile negarlo. Ma anche un romanzo può, nel suo piccolo, aiutare a combattere il senso di impotenza che ci attanaglia. Non offrendo ricette, è ovvio, ma, per esempio, proponendo in forma narrativa alcune domande. Come quelle che l’oste Dante rivolge a Vittorio che guarda sconfortato l’armata Brancaleone formata da “ladri, cicoriane, ragazzini e padri di famiglia” con cui avrebbe dovuto affrontare la battaglia decisiva: “E però chiediti una cosa: perché a Porta San Paolo c’eravamo noi mentre il re scappava? Perché solo noi, rifiuti della società, siamo disposti a credere che qualcosa di mostruoso mette in pericolo l’esistenza della vita umana? Perché solo noi siamo disposti a combattere e a sognare un mondo senza mostri”? (fabio ciabatti)
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