Dal n.58 di Napoli Monitor
In un arco di tempo abbastanza ristretto sono usciti in città alcuni dischi che raccontano in maniera efficace le evoluzioni della scena musicale napoletana.
Alla fine dello scorso mese di gennaio, dopo una lunga attesa, i Sangue Mostro hanno lanciato Cuo-rap. I meriti principali dell’album sono una di presa d’atto della realtà e la voglia di confrontarsi con chi negli ultimi anni ha espresso con stili e metriche nuove una esigenza di rinnovamento (solo in alcuni casi all’altezza di chi l’aveva preceduto) della scena hip hop. Non deve essere stata una operazione difficile, dal momento che Speaker Cenzou, Ekspo, Ale Zin e Dj Uncino non avevano certo fermato in questi anni la propria attività a dispetto del silenzio discografico dei Sangue Mostro. Di conseguenza il disco risulta di buon livello, a tratti un po’ disorientante nei passaggi da un pezzo all’altro, proprio a causa delle tante collaborazioni con artisti molto diversi tra loro.
Un discorso simile e diverso è da fare per Curre curre guagliò 2.0 dei 99 Posse, uscito a marzo. Si tratta di un disco nostalgico, pubblicato in occasione di un anniversario: i venti anni dall’uscita del quasi omonimo album che aveva consacrato il gruppo a punto di riferimento del mondo rap partenopeo e nazionale. Oltre che una presa di coscienza musicale, il disco dei Posse sembra una presa di coscienza politica (È fernuto ‘o tiempo, si chiamava, tanto per rimanere in tema, l’ultimo disco di James Senese). Non è finito, certo, il tempo per fare rap, né tantomeno quello per fare politica. Chi ha desiderio, però, di rileggere un percorso come quello delle posse, dei centri sociali, della costruzione di un movimento antagonista esploso assieme al colpo di pistola che uccise Carlo Giuliani – rilettura necessaria alla luce della scarsa saggistica, nonché dei pochi e brutti film e romanzi che hanno provato a descrivere (sempre con superficialità) quegli anni – deve farlo con onestà intellettuale, esplicitando la propria intenzione di ripassare la storia, magari con la pretesa di condizionare il presente. Questo non vuol dire che artisti e gruppi storici di quel movimento non siano più in grado di dire qualcosa di nuovo e anzi, musicalmente, negli arrangiamenti soprattutto, il disco dei Posse è molto innovativo. Non è un caso, però, che per chi ascolti i due ultimi album prodotti dalla band risulti abissale la differenza tra questo e il precedente Cattivi guagliuni, che aveva sancito la reunion del gruppo catapultandolo in un contesto (quello degli anni Dieci) in cui Zulu & co. sembravano essere ancora disorientati.
In mezzo a questi due dischi, nel mese di febbraio, il giovane rapper salernitano Rocco Hunt vinceva Sanremo Giovani, conquistando la critica e il pubblico con la sua faccia da bravo ragazzo e una canzone che sembra lontanissima dalle modalità e dalla storia del genere musicale a cui appartiene. Il ragazzo ha un grande talento e ha velocemente assimilato le lezioni dei più grandi con cui ha lavorato negli ultimi due o tre anni, su tutti Clementino e Nto, che poi sono le espressioni migliori delle generazioni di rapper successive a quelle de La Famiglia, dei 13 Bastardi, poi dei 99Posse e dopo dei Co’Sang. Non è un caso che a nemmeno venti anni Rocco firmi un contratto con la Sony per la produzione del disco, e pochi mesi dopo vinca l’edizione giovanile del festival più amato e odiato di Italia.
Rispetto a chi l’ha preceduto, e rispetto anche alla sua produzione passata, Rocco Hunt scrive oggi testi più miti: le metriche sono meno aggressive, il concetto di periferia è spesso accompagnato da quello di riscatto, e Nu juorno buono, in particolare, la canzone che ha trionfato a San Remo, racconta di giornate di sole e odore di caffè, di ottimismo e di un’aria pulita molto diversa da quella inalata dai sicari del sistema di cui si sentivano vittima, per esempio, Luchè e Nto. Uno stile più buonista e pop (nel nuovo album, oltre a quelle con Clementino e Avitabile ci sono collaborazioni con Ramazzotti e Tiromancino) che ha subito conquistato un pubblico che del rap ‘e miezo ‘a via – che comunque è un concetto molto diverso dal gangsta americano – aveva conosciuto poco o nulla. Una scelta commerciale che ha fatto storcere un po’ il naso ai puristi, ma che, numeri alla mano, riscuote grande successo.
Causa o forse conseguenza di tutto ciò è il fatto che negli ultimi due o tre anni, soprattutto grazie a Clementino prima e a Rocco Hunt adesso, la musica rap abbia iniziato a parlare anche ai ragazzini dei quartieri popolari napoletani. Una cosa che aveva sempre provato a fare e talvolta fatto, con La Famiglia, i 99Posse e i Co’Sang, ma a un livello diverso. Più consapevole probabilmente, ma numericamente meno consistente. È difficile dire se questo successo sia un merito dei cantanti, sia frutto dei cambiamenti stilistici e nei testi, o sia la ovvia conseguenza (è accaduto anche con Clementino) dello sdoganamento reciproco tra i cantanti e le grandi etichette discografiche. Fatto sta che quello che fino a poco tempo fa era un pubblico che scandiva la propria adolescenza con le canzoni di D’Alessio, Finizio, Ricciardi e Galletta prima, Tony Colombo e Pino Giordano poi, sembra sempre più rapito da un mondo che gli è probabilmente meno vicino culturalmente ma verso il quale sente un’attrazione naturale, istintiva.
Le scene di panico a cui ha assistito chi ha avuto la fortuna di trovare un biglietto per gli ultimi show di Clementino e Tony Colombo al Palapartenope sono molto simili tra loro. Il concerto del neomelodico, addirittura, in concomitanza con un Napoli-Juve in cui le due squadre si giocavano l’onore o poco più, è stato anticipato alle sei del pomeriggio e non posticipato alle undici anche in virtù della giovane età anagrafica del pubblico. Un pubblico, quello tra i dodici e i sedici anni, che conosce bene i testi e le musiche dei cantanti neomelodici che hanno oggi quindici o venti, ma che più che nel passato dei loro predecessori, cerca nei giacconi larghi e nei cappellini hip hop di Rocco Hunt & co. la spinta verso il futuro. Una commistione di generi che non può che essere guardata positivamente, anche se con la necessaria rassegnazione, da parte di chi ha qualche anno in più, che il rap e l’hip hop che ascolteranno gli adolescenti napoletani da qui in avanti sarà sempre più diverso da quello delle battle e delle rivalità, dei centri sociali e dei binari della cumana. Con la speranza che riesca ancora ad assolvere al compito di racconto della città e delle periferie, così come ha sempre fatto da venti anni a questa parte. (riccardo rosa)
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