Sono tornati ieri in piazza i braccianti e i lavoratori delle campagne del foggiano. Lo hanno fatto nella giornata di sciopero globale delle donne, a Foggia, sotto un vento forte che non ne ha spazzato via la determinazione e la voglia di affermare la propria dignità e i propri diritti. Lo avevano chiarito in precedenza già alla regione Puglia, al dirigente Fumarulo, e al presidente Emiliano: il ghetto è la conseguenza, non la causa dello sfruttamento, e se non si vuole affrontare la questione dei rapporti di produzione e lavoro in agricoltura nell’intero territorio, nessuna struttura di “accoglienza” potrà essere la soluzione.
Come ormai è noto, nonostante le enormi reticenze dei media nell’affrontare la questione, lo sgombero delle scorse settimane, che gli amministratori avevano annunciato come “umanitario”, si è trasformato in una tragedia dai contorni oscuri che ha strappato via la vita di due lavoratori, gli ultimi di una lunga serie.
Sono passati cinque giorni dall’incendio, sono le 14:30 e la piazza antistante la stazione inizia a popolarsi. In un angolo, a distribuire piatti africani ai braccianti che giungono per manifestare dal Gran Ghetto e dalle campagne circostanti, c’è Margherita Bambara, rappresentante della comunità burkinabè per il sud Italia, giunta per l’occasione da Casal di Principe. «Come donna – dice – sono qui in questo giorno importante per noi, per sostenere i fratelli e le sorelle nella conquista dei loro diritti». Non è la prima volta che viene qui, Margherita. L’ultima era stata per la manifestazione che chiedeva verità e giustizia dopo l’assassinio di Mamadou Sare, suo compaesano ucciso nelle campagne foggiane per un melone. Negli anni di permanenza a Napoli, dove viveva gestendo un ristorante vicino la stazione (la cui storia è stata raccontata in uno dei cinque episodi del film Benvenuti in Italia), Margherita aveva avuto l’opportunità di conoscere bene il nostro paese, le sofferenze dei migranti e in particolar modo quelle dei braccianti. Viene dal Burkina Faso, il paese degli “uomini integri”, entrato nella storia grazie al nome del rivoluzionario comunista Thomas Sankara. Un nome che riecheggia spesso durante questa manifestazione, per ciò che rappresenta, ma anche in opposizione a quel progetto di “accoglienza” che porta il nome di Casa Sankara, che i braccianti scesi in piazza rifiutano con forza. Lo stesso pensiero è sostenuto dai sindacati, dalle associazioni, dai solidali, da chiunque abbia contezza di ciò che accade da queste parti, e sa che questa faccenda non può trovare soluzione in un approccio assistenziale, come succede per i richiedenti asilo, alimentando il business dell’accoglienza. Un tipo di approccio, d’altronde, che aveva già mostrato tutte le sue crepe e prospettive di fallimento nel caso di Ghetto Out, uno dei primi progetti messi in piedi dalla Regione per svuotare il Ghetto, ma che, rivelatosi null’altro che una tendopoli, fu velocemente abbandonato.
Nelle ultime ore, come accaduto allora, anche coloro che volontariamente avevano accettato, durante lo sgombero, di trasferirsi a Casa Sankara e Arena di San Severo, stanno abbandonando i loro propositi. Nelle strutture non c’è acqua calda e non c’è posto per tutti, tanto che ai migranti – “caricati” e “scaricati” ogni giorno come pacchi dai caporali, sotto gli occhi delle forze dell’ordine che presidiano le strutture – capita di finire a dormire in tenda.
Col passare delle ore la manifestazione si ingrossa. A solidarizzare con i braccianti in piazza c’è la Rete Campagne in Lotta, il Lab. Pro/Fuga, i sindacati di base, l’Osservatorio Migrante della Basilicata, i militanti e gli attivisti provenienti da Bari e da altre città. Davanti a tutti le donne rivendicano con forza il diritto alla casa e a un lavoro dignitoso. Il corteo prosegue per le vie della città fino al minuto di silenzio per i due braccianti morti nell’incendio, Mamadou e Nouhou, ma anche per Sekine e Paola, e per tutti quelli che come loro hanno perso la vita nella morsa dello sfruttamento.
Si arriva in prefettura, ancora una volta, per essere ascoltati e dire che le soluzioni vanno trovate insieme ai lavoratori. Se è vero che il degrado dei ghetti va superato, va da sé che non basterà uno sgombero, e poi un altro, e un altro ancora, a mettere fine alla loro esistenza. Aggredire il caporalato e il suo contesto, piuttosto, è la necessità, con la produzione e la filiera agro-alimentare, lo strapotere della grande distribuzione organizzata, che ha permesso in questi anni al caporalato di affermarsi come forma “dittatoriale” di intermediazione di manodopera. E poi dare l’opportunità ai lavoratori di affrancarvisi, uscendo dalla marginalità (e quindi dai ghetti), il che non può prescindere dal riconoscimento dei diritti di cittadinanza e dal rilascio di permessi di soggiorno per i lavoratori delle campagne. Sono queste le richieste portate al governo, strappando una promessa che da qui si riparta e che non ci siano al contrario ulteriori passi indietro sul terreno di diritti.
È sera ormai. L’ennesima giornata di lotta finisce, con il ritorno alle uniche case ancora rimaste in piedi, per quel centinaio di lavoratori circa, che fanno ritorno ai casolari non abbattuti dalle ruspe del Gran Ghetto. (alessandro ventura)
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