«Oggi perquisizione e forza».
(dai messaggi degli agenti)
Il traffico sulla statale Nola-Villa Literno è costante, colpa delle file dei tir che sono in processione fino alla svolta per l’interporto di Teverola. Nonostante alcuni rallentamenti, la SS 7Bis di Terra di Lavoro è tra le strade più comode per arrivare al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Dopo alcune rotonde sospese tra i magazzini colorati e dislocate come in un orrendo parco Disneyland, compaiono i casermoni dell’Istituto Uccella.
L’erba è troppo alta per capire cosa è stato piantato per i raccolti primaverili nei campi di fianco all’aula bunker e il fetore della discarica è diventato più intenso con il caldo di maggio. Il processo ha raggiunto le fasi finali dell’udienza preliminare e il giudice dove ascoltare le discussioni delle parti. Molti hanno atteso impazienti le conclusioni della Procura, alcuni si aspettavano una lunga discussione forse sottovalutando che nessuno intende scoprire le proprie carte in questo momento processuale dove non si discute della sostanza dell’accusa e della responsabilità degli imputati ma soltanto della sostenibilità delle contestazioni in dibattimento. I pubblici ministeri, dopo un passaggio necessario in cui hanno chiesto una sentenza di “non luogo a procedere” per un agente che ha dimostrato di trovarsi da tutt’altra parte durante gli eventi del 5 e del 6 aprile 2020, non hanno speso molte parole. Forse anche la pronuncia della Corte di Cassazione, che chiude la possibilità di rivedere la misura degli arresti domiciliari applicati a un comandante della penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria, ha nei fatti rafforzato l’impianto accusatorio.
In sede cautelare la Corte decide sui presupposti della misura, ma i giudici, dovendo ricostruire i fatti contestati all’imputato, hanno qualificato in modo netto le condotte del 6 aprile: si è trattato di tortura. “Secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020 tra le 15:30 e le 19:30, all’interno del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, numerosi agenti di polizia penitenziaria hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il cd. ‘corridoio umano’ (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie e aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. –, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria. Dopo le quattro ore di ‘mattanza’…”, così si è espressa la V sezione della Corte di Cassazione (sent. 8973/22).
Inevitabile ripercorrere quest’interpretazione. Difatti, la Procura ha richiamato le motivazioni della sentenza per sostenere di proseguire il giudizio nei confronti di tutti gli imputati, ha proposto la Corte di Assise come tribunale competente per il dibattimento e si è soffermata brevemente sull’omicidio colposo di Hakimi Lamine. Questo è un piano delicato della ricostruzione accusatoria, secondo i pm una “posizione ancora aperta”.
A seguire, secondo procedura, hanno preso parola i difensori dei detenuti costituiti in giudizio e all’appello del giudice in molti hanno risposto con un asettico “la difesa si associa alle richieste della Procura”. La routine processuale induce a ritenere che questa fase preliminare (il più delle volte) sia superflua e di fronte a un impianto accusatorio così complesso per molti difensori è più facile andare a traino della Procura: poche ore di lavoro e massimo risultato.
Tuttavia, hanno ritenuto di sottolineare l’importanza di questo processo i difensori delle associazioni costituite (Antigone, il Carcere Possibile, Yaraiha Onlus e Acad), del Garante nazionale e dei genitori di Hakimi. Le condotte gravi emerse durante la “perquisizione” straordinaria “impongono degli interrogativi sul modello di tenuta dell’esecuzione penale”, “sono fatti che hanno reciso le regole democratiche dello stato di diritto” e “il processo non sarà l’unico modo per ricucire questo strappo ma è un passaggio necessario”. Inoltre, hanno precisato che l’organizzazione di un movimento sincronico da parte dei soggetti che hanno agito, promosso, facilitato la realizzazione degli episodi violenti induce a ritenere l’esistenza di un “sistema di intervento strutturato”. Le vicende che hanno portato alla morte di Lamine evidenziano che il massacro è durato a lungo, almeno per i quattordici detenuti sottoposti all’isolamento; pertanto, è necessario ampliare lo sguardo non fermandosi alla perquisizione del 6 aprile, tenendo dentro i falsi, i depistaggi e le violenze che si sono verificate dopo la perquisizione, valutando ogni singolo apporto causale.
Terminate le discussioni delle parti civili, il giudice D’Angelo ha dato la parola alle difese degli imputati calendarizzando i loro interventi per il mese di maggio e giugno. Due hanno discusso già nella scorsa udienza, martedì 17 maggio. Come già accennato, alcuni avvocati hanno scelto la strategia tipica delle difese dei militari in azione nelle zone di guerra; senza scoprire eccessivamente le carte, hanno sottolineato che l’agente Tizio, individuato dalle telecamere, ha avuto un ruolo marginale nella vicenda, dovendo adempiere controvoglia a un ordine. L’atteggiamento di Tizio è chiaro secondo i difensori, ed emerge dal fatto concreto che aveva appena terminato il proprio turno ed era stato richiamato poco dopo in servizio dal superiore, senza potersi opporre.
Un’imputata, dirigente della polizia penitenziaria e responsabile del reparto Danubio – la sezione in cui è morto Hakimi, dove sono stati messi in isolamento per circa un mese i quattordici poveri cristi identificati come i promotori della protesta del 5 aprile, quelli che hanno ricevuto il trattamento peggiore, lasciati senza lenzuola e ricambi, a cui è stato impedito di fare i colloqui con i familiari e di vedere un medico – ha preso parola in udienza rendendo “spontanee dichiarazioni”. L’intervento era già stato programmato dal difensore e preannunciato al giudice. La voce correva sul filo del pianto mentre la commissaria, dopo aver descritto la propria formazione e la carriera per motivare la distanza da certe condotte violente, rimarcava la propria estraneità rispetto a quanto è accaduto nel reparto di sua competenza. Sembra che la “mattanza” sia ormai un dato di fatto e tutti cercano di scrollarsi la responsabilità di un episodio così atroce e sfortunatamente innegabile.
L’udienza è terminata poco prima delle due e il sole picchiava forte sui camion carichi di merci, sulla monnezza, sul carcere e sui detenuti rinchiusi lì. Lungo la statale, prima dell’imbocco dell’asse mediano, dopo una piccola osteria che si trova a ridosso di un cavalcavia, in mezzo ai campi coltivati, al cemento dei rivenditori di mobili e di articoli per il bagno, il primo bar disponibile per prendere un po’ d’acqua è il Savaris. Eventi da Favola. Il “rifugio” si trova sotto alla facciata imponente di un finto tempio greco, in parte ancora in costruzione. Il parcheggiatore locale sostiene che ci faranno un altro centro commerciale. (napolimonitor)
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