da la Repubblica Napoli del 10 luglio 2011
Un libro appena uscito, Insegnare al principe di Danimarca, edizioni Sellerio, ci permette di alzare lo sguardo dall’ossessivo dibattere sulle questioni dell’immondizia e, partendo da un altro tipo di rifiuto, quello riservato ai giovani cresciuti nei ghetti della periferia, ci invita a riflettere su questioni altrettanto importanti per il futuro della città.
Il volume raccoglie gli scritti di Carla Melazzini, a lungo insegnante negli istituti tecnici e in seguito tra i fondatori di Chance, progetto che proprio lo scorso anno si è chiuso definitivamente e in maniera non indolore. La maggior parte dei testi, ordinati secondo nuclei tematici, ha origine da questa esperienza, che formalmente consisteva nel ripescare i ragazzi esclusi anzitempo dalla scuola dell’obbligo e accompagnarli, secondo un modello di scuola più flessibile, fino al raggiungimento del diploma di terza media. È l’avventura dei maestri di strada, molto raccontata in questi anni da giornali e televisione, spesso nel modo schematico e idealizzato che si riserva alle esperienze didattiche di frontiera. La stessa Melazzini annota, qualche mese dopo l’avvio del progetto: “Nel giro di quattro settimane Chance ha smesso di essere un progetto di recupero scolastico (…) e sta diventando qualcos’altro”. Che cosa sia stato Chance nel corso del tempo, quali sentieri abbia aperto, che potenzialità recava in sé e quante ne ha realizzate, si può dedurre in parte da questa sorta di diario di campo tenuto durante i suoi dieci anni di insegnamento nel modulo Chance della zona orientale (San Giovanni, Barra, Ponticelli). Annotazioni e ragionamenti spogliati di ogni retorica, anche perché nati spesso come strumento di lavoro e auto-riflessione, alla ricerca di una didattica che reggesse l’urto di tante giovani vite disorientate.
Il contesto è descritto apertamente come un teatro di guerra, in questo caso i rioni più malfamati dell’antica periferia industriale. Otto alunni su dieci provengono da famiglie prive di reddito regolare, più della metà ha contatti con il carcere, un nucleo più ristretto di famiglie “appartiene” alla camorra ma molte altre vi gravitano intorno per fatalità o necessità. Se da un lato l’insegnante non smette di riflettere sull’inadeguatezza degli adulti (a partire dalla propria), dall’altro non idealizza certo gli allievi adolescenti: ne descrive l’incontinenza verbale e fisica, la pigrizia, il conformismo, gli scoppi di violenza, e soprattutto non ha paura di guardare in faccia la condizione servile riservata alle donne fin dalla più tenera età (una segregazione da età medievale che è realtà diffusa e drammaticamente sottovalutata non solo in quei quartieri ma ovunque nella nostra città). Allo stesso tempo si fa carico di rintracciare le origini di quei comportamenti, dell’odio, delle paure, dell’incomunicabilità; non per giustificarli o compatirli, ma per provare ad affrontarli nella fatica quotidiana con la stessa lucidità. Non a caso, per sintetizzare il significato dell’esperienza di Chance, utilizza a un certo punto la definizione di “incontro antropologico”.
Come se volesse estrarre il succo da ogni accadimento quotidiano, dai conflitti e dagli errori, ma anche dalle piccole rivelazioni e conquiste, l’autrice ricorre ad alcune parole chiave – spazi, paura, cittadinanza, gruppo, tempo – per definire un percorso in cui la sfera personale e quella didattica finiscono per fondersi insieme; in cui “imparare a camminare”, “andare fuori” (dal rione, dal quartiere, dalla città e così via) diventa fondamentale per prendere possesso del mondo sconosciuto; in cui la parola è ancora al centro della relazione ma il suo significato non può essere imposto, si deve conquistare insieme da alunno e docente. Questo vuol dire per l’adulto saper accogliere i silenzi immotivati ma anche i suggerimenti, le aperture improvvise; e poi istituire zone franche, spazi anche fisici dove rielaborare i lutti e le sofferenze, luoghi tanto più efficaci quanto potenzialmente “pericolosi”, perché aprono “prospettive di relazioni e di vita sentite come inaccessibili”.
La descrizione di un tale metodo empirico fa piazza pulita di tante narrazioni “eroiche” legate all’insegnamento, come delle ricette facili e del lamento fine a se stesso, delle parole vuote del progressismo che pretende il rispetto e l’accettazione “di tutte le specie di diversi e emarginati (…) da chi non si sente né accettato né rispettato nella sua entità di persona”. Ci sono naturalmente le domande che prima o poi ogni insegnante deve farsi – fino a che punto posso sopportare la sofferenza che ho intorno? fino a che punto il mio lavoro può cambiare una vita, un destino? – mentre in controluce filtrano le immagini di quello che manca: una scuola attenta anche al corpo e alle emozioni, in cui le parole non provengano sempre dalla stessa unica direzione; dei docenti che abbiano l’umiltà e l’intelligenza di ascoltare e di imparare dai loro allievi; una città che non sia prevenuta verso il malessere che i suoi giovani non esitano a mettere in scena pubblicamente. “Un insegnante di media cultura e umanità – recita un breve corsivo che introduce il libro – è presumibilmente disponibile a commuoversi sul dramma del giovane principe di Danimarca, e a riconoscere le ragioni dei suoi atti, anche i più estremi. Ma quanti insegnanti sarebbero disposti a riconoscere la stessa legittimità ai sentimenti di un adolescente di periferia che vive il tradimento della propria madre con l’intensità e la consequenzialità del principe Amleto?”.
Insegnare al principe di Danimarca è un libro postumo. Carla Melazzini è morta il 14 dicembre del 2009. Era nata in Valtellina ma ha vissuto buona parte della sua vita a Napoli. Leggere e usare criticamente le sue parole può essere un modo per sentirla ancora dalla nostra parte. (luca rossomando)
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