Se il film Diaz, don’t clean up this blood, aveva lo scopo di “colpire”, va detto che ci riesce in pieno. E non solo perché dedica praticamente tutte le due ore di pellicola al racconto delle violenze da parte delle forze dell’ordine all’interno della scuola genovese, e alle torture di manifestanti nella caserma Bolzaneto, ma anche perché va a toccare un tasto delicato per chi quei giorni li ha vissuti, da protagonista, da spettatore emotivamente coinvolto, da troppo adolescente per essere lì.
È forse presto per capire se Diaz sia un film veramente storico (in senso etimologico, cioè come narrazione di fatti realmente accaduti) anche perché il regista ha scelto la strada della fedeltà agli atti di un processo non ancora terminato, ma che come è stato chiaro fin da subito, avrà degli sviluppi assolutamente insufficienti per spiegare quello che è successo quella notte. Tuttavia, il film ha un ruolo fondamentale, in un paese in cui un fatto esiste soltanto quando legittimato dalla televisione o dal cinema, quando riesce a svincolarsi dalla presunta non autorevolezza di alcune cronache, considerate minori solo perché partigiane (sempre in senso etimologico), e riesce a imporsi all’attenzione di tutti.
Lascia stupiti alla luce di ciò, che chi come Vittorio Agnoletto i giorni di Genova li ha vissuti in prima linea, monti delle polemiche fragorose riguardo le (pur evidenti) falle che il film presenta nella ricostruzione dei fatti. Soprattutto perché estremamente ingenuo sarebbe stato aspettarsi da Diaz – tanto più a processo virtualmente chiuso, ma tecnicamente ancora in corso – attacchi indiscriminati e frontali al capo della polizia dell’epoca (oggi alto dirigente dei servizi), al ruolo rivestito in quei giorni dal ministro degli interni, o comunque un punto di vista diverso da quello che è stato fornito, nel caso di tutti gli altri appunti che sono stati mossi al film da quel versante.
Il film, è vero, è probabilmente una pellicola “commerciale”, e sarà pure un film “furbo” (a dire il vero, ascoltando le dure risposte e gli attacchi fatti da parte di regista e produttore nei confronti di chi ha mosso le critiche, questa possibilità è seriamente da prendere in considerazione), tuttavia è un film prima di tutto utile. Quante persone sono uscite dalla sala agitate, in silenzio, sconcertate, perché non si aspettavano di vedere quanto hanno visto? Quante non conoscevano, o conoscevano in maniera assolutamente sommaria il limite oltre il quale la polizia del proprio paese si era spinta quella notte, con la violenza, la rabbia, l’arroganza che invece la caratterizza abitualmente? Quante, dopo il film, si sono fatte raccontare, o hanno aperto dentro di loro una riflessione, mettendo in discussione la storia che in questi dieci anni gli è stata fornita, sul G8 di Genova? Quante hanno, dopo aver visto le scene della caserma Bolzaneto, provato a capire cosa stesse accadendo in quegli anni, si sono predisposte in un’ottica diversa nei confronti di un grande movimento (purtroppo alla lunga, sconfitto, Agnoletto compreso) che voleva cambiare il mondo, dello spauracchio black block, della morte di Carlo Giuliani? Io credo molte, e questo chi critica il film non può far finta di ignorarlo.
La riflessione da fare, e che invece è finora mancata, è al contrario quella riguardo quale ruolo possa assumere un film del genere, sia pur commerciale, in un paese come il nostro, dove la maggior parte delle storie raccontate in maniera “non commerciale” viene bollata e screditata di volta in volta, scalzata implacabilmente dalla solita asettica ricostruzione da telegiornale. Se un ragazzino che esce dal cinema sconvolto, non ha chiaro a pieno quali fossero le responsabilità del capo della polizia o del ministro degli interni in quei fatti, è un peccato (veniale) da attribuire agli autori, più che al film, ma non mi pare la fine del mondo. Avrà tempo, purtroppo, per capire chi sono De Gennaro, Scajola, Fournier, nel corso degli anni (ammesso che sia questa la cosa importante), dal momento che non gli sarà difficile notare che sono quasi tutti ancora in sella.
Si provi, piuttosto che a ragionare sul nulla, a far si che sulla scia di questo film venga dato lo spazio adeguato a documentari come Bella Ciao e Black block, che arrivano dove Diaz (furbescamente, volontariamente o meno, chissà) non è arrivato. Ma la si smetta di combattere battaglie contro i mulini a vento, che hanno il solo risultato di buttare sempre tutto in cagnara – come avvenuto nel caso del recente film su Piazza Fontana, quello si, fuorviante e revisionista – oltre che di dar spazio e visibilità a personaggi che spesso si dimostrano valere meno dei lavori a cui danno vita. (riccardo rosa)
Leave a Reply