La sede romana di BNL-BNP Paribas è un palazzo di dodici piani lungo duecentocinquanta metri, tutto ricoperto di vetro, proprio accanto all’area dell’alta velocità della stazione Tiburtina. Si chiama Palazzo Orizzonte Europa, ed è così stretto e diafano che da alcuni punti quasi non si vede. Sull’enorme facciata a specchio si riflette la città intorno – il cielo, la stazione, i treni, il traffico sul ponte, anche le punte dei cipressi del cimitero Verano. Dietro lo specchio ci sono 175 mila metri quadri di uffici; una cisterna d’acqua degli anni Quaranta; una collezione di opere d’arte tra cui un De Chirico e un Guttuso; un asilo nido aziendale, a cui Repubblica ha dedicato più articoli che al palazzo stesso; e forse anche le carte che spiegano come faccia il colosso bancario ad accaparrarsi continuamente pezzi di città pubblica, tra cui gli stessi terreni su cui ha costruito questo palazzo. Proprio nel periodo dell’inaugurazione, intorno al 2018, BNP-Paribas era riuscita ad appropriarsi anche di un “portfolio” di appartamenti ex pubblici: le case di Enasarco, la cassa previdenziale degli agenti di commercio.
Le diciassettemila case di questo ente previdenziale sono quasi tutte nei quartieri più popolari di Roma: Torre Maura, Torrino, Don Bosco, Aurelio, Val Melaina, Gianicolense, e anche Cinecittà Est, Tiburtino Sud, Torre Maura, Tor Tre Teste, San Basilio, Casal Bruciato (si veda qui). Al tempo, questo patrimonio era affittato a circa 50 mila persone, perlopiù di fasce sociali deboli, in affitto concordato con i sindacati inquilini. Tra gli anni Settanta e gli anni Novanta, infatti, la legge attribuiva agli enti previdenziali pubblici una funzione sociale aggiuntiva rispetto ai compiti istituzionali, prescrivendo di destinare quote consistenti dei propri fondi alla costruzione e gestione di un patrimonio abitativo in affitto calmierato (all’epoca in equo canone) da destinare a persone in difficoltà e fasce sociali protette. Ma nel 2008 lo specchio magico delle cartolarizzazioni ha trasformato Enasarco in una società privata; la sottoscrizione di nuovi affitti è stata bloccata, gli appartamenti sono stati impacchettati in un portfolio e, dopo una fase di prelazione agli inquilini regolari, sono stati conferiti a fondi immobiliari. Il processo di privatizzazione, colossale e diafano come il palazzo di BNP Paribas, che se ne è presi varie migliaia, si chiamava Progetto Mercurio, e prevedeva un ricavato di tre miliardi e mezzo, con un miliardo di profitto.
Così, mentre i dipendenti di BNL-BNP si sistemavano nei loro uffici a inventare nuovi modi per estrarre profitti da persone in difficoltà, vari abitanti delle ex case tutelate ricevevano lettere di sfratto. Tra questi, la signora Modesti, il cui nome sembra di fantasia: nel 2014 aveva perso il lavoro in un bar e non era riuscita più a pagare l’affitto; fu sfrattata, ma con due figli minori sperava di avere abbastanza punti per aspirare a una casa popolare. Dopo qualche mese passato in casa di amici, sempre con una bambina a carico, era entrata in uno degli appartamenti che Enasarco teneva vuoti, cercando subito di negoziare un contratto regolare con l’ex ente previdenziale. Ma il fondo immobiliare BNP Paribas, che ormai gestiva la casa, non le rispose mai, e a inizio 2019 le mandò un ordine di sfratto, chiedendole anche di pagare cinquantamila euro di multa. La procedura di sfratto è stata bloccata dal lockdown, ma è ripartita nell’estate 2021, quando la donna ha anche capito che la Regione Lazio aveva sbagliato le procedure e l’aveva esclusa dalla lista delle case popolari. L’ufficiale giudiziario ha iniziato a bussare ogni mese alla sua porta, ma ogni volta c’era più gente davanti a difenderla dallo sfratto. A settembre è arrivata anche la comunicazione dell’Alto Commissariato ONU ai Diritti Umani, chiedendo la sospensione dell’espulsione finché il Comune non le offrirà una casa dignitosa. Come abbiamo spiegato in un precedente articolo, l’Italia nel 1978 ha sottoscritto il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (PIDESC), il cui articolo 11 afferma che tutti hanno diritto a una casa, e nomina una Commissione che vigila sul rispetto di questo trattato. Ma il comune di Roma dice di non avere soluzioni e il rappresentante di BNP Paribas, un giovane geometra, di fronte all’ufficiale giudiziario ripeteva: «A noi non interessa, la casa è nostra, ci facciamo quello che vogliamo».
Questa è la finanziarizzazione: il continuo gioco di specchi con cui i fondi immobiliari internazionali trasformano tutto quello che abbiamo, tutto quello che serve per vivere, in strumenti di profitto estratto direttamente dai corpi e dagli spazi più vulnerabili. Come nel decennio scorso le compagnie elettriche si presero l’acqua dell’altopiano della Bolivia, le case farmaceutiche attaccarono i brevetti delle piante medicinali amazzoniche, l’agro-business le terre comunitarie del Chiapas, così le Nuove Grandi Recinzioni oggi sbattono in strada uomini, donne e bambini in tutte le città del mondo; a chi prova a criticare si risponde che altrimenti non si fanno abbastanza profitti. Questa era la risposta che gli industriali davano un secolo fa a chi criticava il lavoro minorile: se non mandiamo i bambini in miniera non guadagniamo abbastanza. Oggi la risposta del geometra del fondo BNP-Paribas, ma anche del Comune, della Regione e dello Stato che autorizza lo sfratto, è la stessa: se ci costringono a non sfrattare almeno i bambini, come chiede l’ONU, non si fanno abbastanza profitti.
Di fronte a questa assoluta ristrettezza di vedute da parte dei garanti del welfare, l’alternativa si deve costruire dalla base. Con gli scioperi e le battaglie sindacali del ventesimo secolo si riuscì non solo ad abolire il lavoro minorile, ma a ottenere la giornata di otto ore, le ferie, i contratti regolari e trasparenti: sono conquiste precarie ma importanti della lotta globale contro lo sfruttamento sul lavoro – che anche nei paesi più ricchi non è certo finito, ma non è così selvaggio come un secolo fa. Ora bisogna mettere in campo strumenti analoghi contro lo sfruttamento selvaggio del mercato immobiliare, rivendicando il diritto a una casa, il diritto a rimanere dove si abita, il diritto al quartiere e alla città. Il fulcro del conflitto di classe oggi è incentrato sull’abitare e sulla città, sugli strumenti di riproduzione, oltre che sulla produzione. È per questo che sindacati, comitati e piattaforme per la casa di tutta Europa stanno rivendicando, e a volte ottenendo, forme di tutela collettiva sugli alloggi, come il controllo degli affitti, la creazione di case popolari, il freno agli affitti speculativi e alla gentrificazione, o l’esproprio delle case indebitamente cedute dagli stati ai fondi immobiliari. L’intero continente sta cercando di recuperare il terreno perduto negli anni delle privatizzazioni e della liberalizzazione degli affitti. Vediamo come, e cerchiamo di capire come muoverci anche in Italia.
IL REFERENDUM PER L’ESPROPRIO A BERLINO
Berlino è una delle città europee con la maggiore percentuale di popolazione in affitto, e fino a pochi anni fa i canoni erano rimasti bassi. Ma l’effetto combinato delle politiche pubbliche di privatizzazione (tra il 1990 e il 2016 gli alloggi pubblici sono passati dal 28% al 18% del totale) e dell’offensiva del complesso finanziario-immobiliare, che si è concentrato soprattutto sul mercato degli affitti, ha fatto salire di molto i prezzi degli affitti privati. Tra il 2011 e il 2018 il canone medio è salito del 65%, arrivando a 10,70 €/m2, e in un decennio è raddoppiato (+104%). Alcuni comitati per il diritto alla casa nell’ottobre 2020 erano riusciti a far passare una legge regionale che istituiva il Mietendeckel, un limite massimo agli affitti nelle zone particolarmente colpite dalla gentrificazione. Ma il tribunale federale ha annullato la legge, sostenendo che una misura del genere non poteva essere di competenza di un’autorità locale.
Invece di rassegnarsi, le attiviste e gli attivisti per la casa hanno alzato la posta: niente controllo degli affitti? Allora vogliamo l’esproprio. Il referendum Deutsche Wohnen & Co. Eintegnen, per la rinazionalizzazione delle proprietà immobiliari superiori ai quattromila appartamenti, e in particolare delle cinque compagnie (tra cui Deutsche Wohnen e Vonovia) che hanno acquisito circa 240 mila ex case popolari, è stato preceduto da una campagna di manifestazioni, assemblee pubbliche, video esplicativi, e da una delle più grandi raccolte di firme nella storia della città. Anche la data fissata ha aiutato: il 26 settembre 2021, infatti, si votava anche per le elezioni politiche, così molti berlinesi hanno preso parte alle votazioni, che hanno superato di molto il quorum previsto. Purtroppo si tratta di un referendum non vincolante, e la nuova sindaca – a parole socialdemocratica – ha già affermato di essere contraria (sarebbe da chiedersi cos’è secondo lei la socialdemocrazia). Ma il 56.4% di voti favorevoli all’esproprio della grande proprietà immobiliare è comunque un risultato storico. Oltre la metà delle berlinesi e dei berlinesi che sono andati a votare credono che il Comune dovrebbe recuperare il possesso delle proprietà cedute alla speculazione immobiliare per affittarle a prezzi calmierati agli abitanti più poveri. Almeno in una grande città europea, il consenso verso il modello economico neoliberale non è più generalizzato.
È paradossale, tuttavia, dover celebrare questa vittoria come se fosse un gesto rivoluzionario: sappiamo infatti che ampliare l’offerta di case popolari, calmierare i prezzi degli affitti e contrastare la concentrazione di capitali immobiliari sono le misure minime che tutte le organizzazioni internazionali raccomandano agli stati membri per evitare l’aumento di povertà estrema. Sono le stesse misure raccomandate nella risoluzione Ue di gennaio 2021, che tra le altre cose chiede ai governi di “contrastare gli investimenti speculativi” (art. 45) e di attuare “protezioni legali, tra cui il controllo degli affitti” (art. 40); ma anche quelle che la Commissione ONU ha richiesto all’Italia
LA RIBELLIONE ABITATIVA IN OLANDA
Negli stessi mesi del referendum di Berlino, una coalizione di cinquantaquattro organizzazioni olandesi per la casa ha dichiarato che ne aveva abbastanza delle politiche neoliberali portate avanti negli ultimi dodici anni da Mark Rutte e dal suo partito conservatore. A gennaio l’intero governo si è dimesso dopo uno scandalo di razzismo e xenofobia istituzionale: si è scoperto che per un decennio migliaia di famiglie migranti erano state accusate ingiustamente di aver truffato lo stato sugli aiuti sociali per i figli, e condannate a pagare multe da centinaia di migliaia di euro. Usando la stessa logica con cui in Italia si attacca il reddito di cittadinanza, queste donne, quasi tutte migranti, sono state stigmatizzate pubblicamente come imbroglione, per poi ritrovarsi in un baratro economico, senza nessuna ragione. Ma il truffatore era il governo di Rutte che le accusava ingiustamente. Il primo ministro ha ammesso le responsabilità e ha presentato al re le sue dimissioni, convinto che avrebbe comunque ripreso in mano il potere. Per oltre sei mesi il paese non ha avuto un governo, proprio nel periodo delle decisioni importanti del post-lockdown.
A quel punto, tutti i problemi sociali aggravati dalla pandemia sono emersi con forza e le organizzazioni della società civile hanno iniziato a chiedere riforme sul lavoro, sugli accordi collettivi e sulla casa. Nonostante la stampa continuasse ad alimentare le posizioni minoritarie dell’estrema destra, i sindacati e i collettivi di base hanno organizzato una grande manifestazione di ventimila persone il 12 settembre ad Amsterdam (si veda questo video), il giorno successivo a un’altra giornata di protesta contro la gestione pandemica. La polizia ha provocato scontri, e naturalmente la stampa ha approfittato per criminalizzare la protesta; ma il 17 ottobre una protesta analoga ha avuto luogo a Rotterdam: circa diecimila partecipanti hanno bloccato il ponte Erasmus e la polizia ha caricato ripetutamente senza riuscire a sciogliere il blocco stradale. Alla fine la polizia è stata costretta a ritirarsi, anche se dopo cinquanta fermi e otto arresti. Il 24 ottobre c’è stata un’altra manifestazione a Arnhem, dove è stato convocato anche un anarcho-block contro la speculazione immobiliare. La prossima manifestazione è prevista per il 13 novembre ad Amsterdam.
È la Dutch Housing Rebellion: “In pochi decenni, le politiche per l’abitare pubblico sono degenerate in politiche che sostengono principalmente il mercato immobiliare”, dice il manifesto unitario del movimento per l’abitare. “Le forze del mercato sono andate troppo oltre, e sempre più persone sentono le conseguenze negative della finanziarizzazione degli alloggi. Chiediamo una visione della casa radicalmente differente. La casa è una necessità di base e un diritto fondamentale”.
Non è solo la crisi sanitaria a rendere indispensabile una nuova politica per la casa, ma anche quella energetica: gli aumenti sulle bollette del gas previsti per il prossimo anno ricadranno in modo sproporzionato sui settori più poveri della popolazione, quel 19% di inquilini olandesi che vivono nelle centinaia di migliaia di case costruite tra gli anni Quaranta e Ottanta, che i proprietari si rifiutano di adeguare agli standard necessari per risparmiare energia. La rivoluzione abitativa olandese ha articolato dieci richieste: massima priorità alla prevenzione degli sfratti, soluzioni abitative immediate a chi rimane senza casa; fine della svendita delle case popolari e quattro miliardi extra all’anno per le case pubbliche per i redditi medio-bassi; regolare gli affitti nel settore privato; ritornare all’abitare permanente come norma, con l’abolizione di affitti temporanei e la protezione contro l’aumento dei canoni; fine degli incentivi sproporzionati all’acquisto della casa, equiparando i sussidi per affitto e acquisto; frenare gentrificazione ed esclusione per reddito, garantendo case accessibili ad anziani e disabili; democratizzare le decisioni sui quartieri, sull’immobiliare e sull’ambiente, includendo gli abitanti nelle decisioni; frenare la finanziarizzazione del mercato eliminando gli incentivi finanziari agli investitori; combattere proprietari disonesti controllando strettamente il mercato degli affitti e punendo gli abusi; e depenalizzare l’occupazione di immobili sfitti. “Quando ci sono case vuote e così tante persone senza una casa, l’occupazione è logica e legittima”, conclude il manifesto.
IL CONTROLLO DELLA RENDITA URBANA A VIENNA
Vienna, città stato saldamente in mano ad amministrazioni socialdemocratiche, in cui la maggioranza dei cittadini di qualunque ceto sociale vive in affitto, non ha mai venduto le abitazioni municipali, che sono arrivate ad essere oltre 220 mila. La città si fregia di primeggiare nei ranking di “vivibilità” soprattutto grazie all’intervento deciso dell’amministrazione pubblica nel mercato degli alloggi: circa la metà dei viennesi può contare su un sistema di welfare che garantisce abitazioni di proprietà comunale o cooperative di qualità e a basso costo, e permette agli abitanti di risparmiare, lavorare meno e non doversi preoccupare di accendere un mutuo per acquistare casa. Tuttavia, in quanto città globale e attraente crocevia di investimenti fin dalla caduta del muro, anche Vienna ha subito le pressioni speculative sul mercato residenziale. Con una domanda in forte crescita (dal 1990 a oggi ci sono oltre 300 mila nuovi abitanti!) e l’aumento di liquidità in mano agli investitori internazionali, il valore dei terreni urbani per i nuovi insediamenti è passato da meno di seicento euro al metro quadro nel 2000 a quasi mille nel 2010, raggiungendo anche i duemila euro nei quartieri migliori. L’aumento della rendita urbana ha preoccupato l’amministrazione, perché ha una ricaduta diretta sugli affitti; questi in media sono cresciuti di poco, grazie alle varie politiche di protezione (da 7,7€/m2 nel 2013 a quasi 9€/m2 nel 2017); ma nelle nuove costruzioni private arrivano anche a 25€/m2.
Per contrastare questo aumento e mantenere la pace sociale, la città ha utilizzato l’agenzia municipale Wohnfonds Wien, sotto il controllo dell’assessorato alla casa, che ha incamerato grandi quantità di terreni prima di concedere l’edificabilità (quindi impedendo l’innesco della speculazione immobiliare) da concedere a cooperative per la costruzione di alloggi in affitto calmierato permanente, con affitti netti intorno ai 5€/m2. Inoltre, per compensare la penuria di terreni acquistabili a basso costo, la città ha introdotto dal 2018 una regola di zoning per lo sviluppo immobiliare su terreni privati: tra il 65% e il 70% delle unità costruite devono avere l’affitto calmierato, gestito dalle cooperative edilizie sotto la regia e il controllo dell’agenzia municipale, per sempre. Sono politiche abitative fortemente redistributive, che godono di ampio consenso tra i viennesi ma che vengono fortemente avversate dalle organizzazioni dei developer e degli immobiliaristi speculativi. In questo modo l’amministrazione cittadina impedisce che la rendita urbana, un valore che è generato dalla cittadinanza e che dev’essere usato per la cittadinanza, diventi preda degli speculatori immobiliari, che hanno invece mano ben più libera quasi in ogni altra città d’Europa. Sarebbe proprio questo il compito e la ragion d’essere delle amministrazioni pubbliche, ovunque. (stefano portelli e marco peverini, con la collaborazione di victor serri, simone tulumello, sam / domani seconda parte)
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