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LA BATTAGLIA TRA SPAGNA E CATALOGNA È ANCHE SULLA CASA
In nessuna regione europea i sindacati per la casa sono così forti come in Catalogna. Forse anche perché l’offensiva immobiliare è qui particolarmente violenta – un terzo delle case in affitto della città sono proprietà di fondi speculativi o grandi proprietari. In una regione che ha più di trentamila case vuote – trenta volte la lista di attesa per le case di emergenza –, tra gennaio e giugno di quest’anno ci sono stati circa quattromila sfratti. Il corpo antisommossa dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, è intervenuto in ben centocinquantatré casi, a volte senza neanche la richiesta del Tribunale. Ci sono stati sfratti con dieci, dodici furgoni carichi di poliziotti, e le attiviste per la casa sono state spesso denunciate per resistenza o addirittura per “pressioni” nei confronti della proprietà – oltre a subire continue multe da parte del comune di Barcellona per i picchetti, anche con la scusa delle norme anti-Covid.
Anni di lavoro politico di base da parte dei collettivi anti-sfratto dei diversi quartieri di Barcellona e delle altre città catalane – i cosiddetti Sindicats d’habitatge – hanno finalmente dato il loro frutto: nel 2020 il Parlamento catalano, a maggioranza indipendentista, ha approvato una legge per la casa molto radicale, che prevede un limite massimo dei canoni d’affitto nelle zone ad alta pressione immobiliare. La legge era tutt’altro che perfetta, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, ma rappresentava un passo avanti fondamentale nella tutela del diritto alla casa, in particolare nel Sud Europa, dove le politiche abitative sono tradizionalmente deboli. La Catalogna diventava la prima regione di quest’area geografica ad avere reintrodotto un freno agli affitti dopo le liberalizzazioni selvagge degli anni Novanta. Ma la regolamentazione catalana è stata fortemente osteggiata dal Partito socialista, al governo nello stato centrale e alleato principale della sindaca di Barcellona. Durante la campagna elettorale i socialisti avevano ceduto alle pressioni di Podemos, promettendo una riforma della legge sulla casa, ma per anni si erano rifiutati di agire in questo senso; durante l’estate hanno addirittura presentato un ricorso al Tribu
Dopo l’estate, con incredibile trasformismo, lo stesso governo centrale del socialista Pedro Sánchez che provava ad affossare il controllo degli affitti in Catalogna, ha varato una nuova legge statale sulla casa. Ma l’apparenza progressista delle misure previste maschera la loro sostanziale inutilità. La legge non prevede di controllare gli affitti, ma permette alle amministrazioni comunali di richiedere al governo il permesso di calmierare i canoni, attraverso complesse procedure che richiedono almeno quattro anni di burocrazie: quattro anni di respiro per la grande proprietà. L’intervento proposto in alternativa al controllo degli affitti è un sussidio di 250 euro mensili per i “giovani” (18-35 anni) in difficoltà con l’affitto. La ministra Raquel Sánchez ha annunciato che ci sono in tutto duecento milioni di euro disponibili all’anno, quindi al massimo potranno beneficiarne settantamila persone: ma i potenziali richiedenti di questo sussidio, i “giovani” censiti con meno di 25 mila euro di reddito nel 2019, erano cinque milioni. L’aiuto arriverà al massimo al 2% di questi. Inoltre, mentre i sussidi all’affitto previsti dalla legge catalana erano percentuali dei canoni e del reddito, la legge spagnola promette un tetto massimo per tutti: ma 250 euro hanno un impatto diverso a Lugo in Galizia, dove il prezzo medio dell’affitto è 363 al mese, e a Barcellona, dove se ne pagano 900. In breve: la legge spagnola non avrà alcun effetto rilevante sugli sfratti e sugli aumenti degli affitti, ma annullerà anche delle regolamentazioni locali progressiste, come la misura del comune di Barcellona che prevedeva un 30% di appartamenti pubblici per ogni nuova costruzione importante. La legge spagnola rende opzionale questa misura, e i costruttori hanno già detto che non hanno nessuna intenzione di applicarla. Pur se lodata dai commentatori italiani, come sempre, la nuova Ley de Vivienda sembra soprattutto uno strumento propagandistico per annullare le conquiste del controllo affitti catalano.
A questa nuova offensiva del complesso finanziario-immobiliare si somma un altro dramma: l’aumento vertiginoso del prezzo dell’energia, deciso dall’oligopolio delle compagnie elettriche. La Spagna è il paese europeo dove l’incremento globale del prezzo dell’energia ha avuto maggiore ripercussione sulle bollette, aumentate del 44% in un anno. Il governo “più progressista della storia” rispondeva alla nuova crisi con un piano di shock che in pratica riduce le tasse dei consumatori in bolletta; quindi trasferisce dall’erario pubblico le risorse che garantiscono i colossali nuovi profitti delle compagnie energetiche. Ancora una volta, sono state le reti di protesta di base e i sindacati abitanti a rispondere efficacemente: oltre a diffondere tutorial video per bloccare i contatori della luce, il 6 novembre hanno organizzato manifestazioni in trenta città, tra cui una molto grande a Barcellona.
LISBONA, L’ONU PER LA PRIMA VOLTA SOSPENDE UNO SFRATTO
Chi conosce Lisbona e la sua area metropolitana ha visto come negli ultimi anni nei suoi quartieri si siano dispiegate tutte le forme possibili della gentrificazione – dagli affitti brevi nei quartieri del centro storico (come Alfama, Mouraria e Graça
Dalla “Carovana per il diritto alla casa” organizzata da una decina di collettivi di base e che a settembre 2017 ha visitato quindici città (anche nelle Azzorre!), alla grande manifestazione nazionale Rock In Riot contro gli sfratti nel 2018, fino alla pressione sul governo durante il lockdown perché la crisi abitativa fosse considerata parte della crisi sanitaria, il movimento è stato in grado di costruire una narrazione unitaria che ha fatto breccia anche nelle politiche pubbliche. Queste mobilitazioni hanno reso la questione della casa un tema così importante, che il nuovo PNRR portoghese ha destinato oltre un miliardo di euro alla costruzione di alloggi per chi vive in condizioni abitative precarie, inclusi i quartieri di auto-costruzione. Il riconoscimento del problema – completamente assente nel PNRR italiano, nonostante la forza molto maggiore dei collettivi che si battono per il diritto alla casa rispetto a quelli portoghesi – è sicuramente un risultato; anche se le soluzioni previste per rialloggiare gli abitanti passano ancora per forme di promozione immobiliare finanziarizzata.
Una buona notizia è che finalmente anche in Portogallo la richiesta fondamentale dei movimenti per la casa, cioè che non ci siano sfratti senza alternative dignitose, ha visto il riconoscimento dell’Alto Commissariato ONU ai Diritti Umani. Habita infatti è stata la prima organizzazione della società civile portoghese a segnalare all’ONU la violazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali, come in Italia hanno fatto le attiviste della campagna Sciopero degli Affitti fin da maggio scorso. Così una donna di 78 anni con un figlio disabile a carico ha ottenuto la sospensione dello sfratto. Come in Italia, ora bisognerà vedere quale risposta daranno le autorità portoghesi alla richiesta ONU, e se il coinvolgimento di un’istituzione sovranazionale servirà solo a tamponare alcuni casi, o porterà invece a un’inversione di tendenza sulle politiche abitative, indispensabile per evitare nuove violazioni dei diritti fondamentali.
LA SCOZIA VERSO IL CONTROLLO DEGLI AFFITTI
Nel 2016 il parlamento scozzese ha introdotto la possibilità di riconoscere delle Rent Pressure Zones ad affitto calmierato, prendendo atto che in alcune zone l’affitto sta aumentando troppo velocemente. La misura è stata accolta con soddisfazione da molti commentatori: il controllo sugli affitti in Scozia è stato in vigore per quasi tutto il ventesimo secolo ed è stato rimosso dalle liberalizzazioni di Margaret Thatcher. Questa misura aveva una storia gloriosa: durante la prima guerra mondiale, a Glasgow, seconda città industriale del Regno Unito, i proprietari immobiliari approfittarono dell’assenza degli uomini mobilitati al fronte o comunque soggetti alla legge militare, per alzare arbitrariamente gli affitti e sfrattare le donne alla prima morosità. Ma la sindacalista Mary Barbour creò un’associazione femminile per la casa, la Glasgow Women’s Housing Association, che dal 1915 organizzò grandi picchetti antisfratto e un colossale sciopero dell’affitto a cui aderirono ventimila famiglie, interamente condotto da donne. Il controllo degli affitti fu introdotto per fermare lo sciopero e fu una delle prime misure di questo tipo in Europa.
Un secolo dopo, la richiesta è la stessa: case popolari e affitti bloccati. Le Rent Pressure Zones sono state proclamate ma non applicate e il sindacato inquilini scozzese Living Rent chiede che si introduca una vera legge per il controllo degli affitti. Influenzati anche dalla ricerca del geografo Tom Slater, che ha smontato i miti negativi sul rent control (per esempio, l’idea che ridurrebbe l’offerta di case, perché i promotori non troverebbero conveniente costruire e i proprietari non vorrebbero affittare), gli attivisti e le attiviste chiedono un controllo affitti basato sul modello olandese, lo stesso che ispira le richieste del controllo affitti a Berlino e in Svezia: a ogni casa si assegna un punteggio basato sulla qualità della costruzione e dello stato di manutenzione, e gli aumenti possono avvenire solo se ci sono miglioramenti nella manutenzione. Il prezzo massimo degli affitti, comunque, non deve superare un quarto del salario, prevedendo multe per i proprietari che non lo rispettano.
La campagna di Living Rent ha dato frutti già quest’estate: la coalizione di governo tra i Verdi e il partito nazionalista scozzese ha introdotto il rent control nel suo programma. Così, tra gli obiettivi del governo c’è – oltre al referendum sull’indipendenza della Scozia – la promessa di “implementare un sistema nazionale efficace di controllo sugli affitti, migliorare i diritti degli inquilini e consegnare 110 mila case popolari entro il 2032”. Per il momento, non abbiamo notizie sull’andamento di questi propositi; senza dubbio essi dimostrano che un lavoro di base sostenuto e deciso può dare frutti anche in tempi brevi.
CONCLUSIONI
L’ultimo fine settimana di ottobre, mentre Roma veniva militarizzata per l’incontro del G20, la rete Soluzioni abitative di Pisa occupava un convento del 1200. Appena ristrutturato e pronto a diventare una residenza per studenti facoltosi (come quasi tutti gli studentati italiani), l’ex convento ha ospitato decine di collettivi in lotta contro gli sfratti e la finanziarizzazione della casa in tutta Italia. Grazie al silenzio e alla bellezza di questo spazio, normalmente riservato a conversazioni molto diverse, si è aperto un dialogo politico molto vivace tra attiviste e attivisti di Milano, Torino, Pavia, Parm
Nel rifarci alle esperienze internazionali che abbiamo visto qui sopra, non dobbiamo essere ingenui. A differenza di Germania e Austria, per esempio, in Italia oltre il 70% delle famiglie figura come “proprietaria” di un’abitazione, anche se questo numero comprende i titolari di un mutuo, quindi persone indebitate con le banche che hanno acquistato le case in cui vivono. Inoltre, in Italia non ci sono “città-stato” come Vienna e Berlino; e a differenza della Catalogna e della Scozia, nessuna regione italiana ha l’autonomia sufficiente a regolamentare le locazioni private. La responsabilità delle politiche abitative qui è soprattutto in mano al governo centrale, sostenuto per la maggior parte da proprietari, la cui priorità è detassare e finanziare la proprietà e l’industria delle costruzioni, non certo sostenere i più poveri. Lo dimostrano le ingenti risorse destinate senza battere ciglio al Superbonus 110%, da cui traggono beneficio i proprietari immobiliari, a fronte del malsano dibattito sul reddito di cittadinanza grazie al quale milioni di persone riescono a pagare l’affitto.
Gli inquilini e le inquiline, che nel dopoguerra erano la metà della popolazione, oggi in Italia sono poco più di un quinto del totale, anche se il quinto dove si concentrano la povertà e il rischio di povertà, come documentano ormai anche fonti istituzionali. Quello che nel 1970 Valentino Parlato aveva chiamato “il blocco edilizio” – un compatto fronte di interessi che fa quadrato intorno alla liberalizzazione del mercato e alle politiche pubbliche di incentivi alla proprietà e alla speculazione – è oggi più forte che mai e gode di appoggi internazionali enormemente potenti. Anche l’informazione in Italia è succube delle priorità del blocco edilizio. I media italiani spesso appartengono direttamente a costruttori e promotori immobiliari, oppure sono riccamente finanziati dagli stessi; per questo tacciono sulla crisi abitativa più importante dal dopoguerra, spostando l’attenzione su argomenti di paglia che servono solo a legittimare gli sfratti: i “furbetti” che vivono nelle case popolari senza averne diritto o i vecchietti a cui viene occupata la casa quando vanno dal medico. Non aiuta neanche che l’Italia sia uno dei pochissimi stati dell’Ue senza una NHRI, cioè un organo nazionale di vigilanza sui diritti umani.
Non bisogna però neanche essere disfattisti o rassegnati. Il miglior regalo che possiamo fare alla finanziarizzazione è credere che “non c’è alternativa”, il pilastro che sostiene l’intero sistema neoliberale. Forse nessun paese europeo, con l’eccezione della Spagna, ha così tanti collettivi e reti di difesa dei quartieri, e una storia così lunga e importante di scioperi dell’affitto, autoriduzioni delle bollette, picchetti di solidarietà contro gli sfratti, occupazioni abitative e sociali, e organizzazioni sindacali in difesa del diritto alla casa. Queste strutture sono sicuramente disperse sul territorio e nello spettro politico, a volte sono anche preda di conflitti interni e personalismi; ma sono perfettamente in grado, al bisogno, e come si è visto a Pisa, di collaborare, scambiarsi informazioni, dati, tattiche, progetti e materiali. Un libro recentissimo di Rodrigo Nunes affronta proprio la questione dell’efficacia delle reti diffuse, di cui si dice sempre che devono “organizzarsi”, ma spesso si cade nell’errore di immaginare questa organizzazione come una struttura partitica o sindacale novecentesca, verticale e gerarchica, come se questa fosse l’unica alternativa alla dispersione delle energie e all’irrilevanza che ne consegue. Anche questa è un’alternativa infernale, come quelle che ci hanno attanagliato durante la pandemia.
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