Quella di sabato 17 giugno è stata una giornata di grandi mobilitazioni per l’ambiente. A sud, il movimento No Ponte ha invaso le strade di Messina; dall’altra parte dell’Italia più di venti pullman sono stati fermati al confine francese mentre cercavano di raggiungere la Val Maurienne per una iniziativa internazionale organizzata dal movimento No Tav (una volta impeditogli di raggiungere la manifestazione, i bus hanno deviato verso il cantiere di San Didero, presidiato come sempre dalle truppe “di occupazione” militari).
A un mese dall’alluvione che ha colpito l’Emilia Romagna, e che ha causato la morte di quindici persone e danni economici ancora incalcolabili, anche Bologna è stata percorsa da migliaia di persone, che hanno portato un bel po’ del fango spalato in queste settimane davanti al palazzo della Regione, la torre di Sauron dentro la quale si trincerano gli amministratori responsabili di decenni di devastazione del territorio in nome del cemento e del profitto.
Quella del 2023 è solo l’ultima delle tante alluvioni che hanno colpito l’Emilia Romagna in questi anni, alluvioni il cui prezzo viene pagato sempre solo da cittadini e cittadine che si vedono portare via tutto e che quasi mai ricevono aiuti e rimborsi sufficienti e tempestivi. È il caso della popolazione di Nonantola, che ha subito l’alluvione nel 2020 e che ancora attende di ricevere il risarcimento economico, drasticamente minore, tra l’altro, rispetto alle somme promesse inizialmente. Nelle stesse zone, intanto, si progettano nuove colate di cemento ed enormi poli logistici.
Sebbene i territori del centro-nord appaiano sempre più in difficoltà in termini di sicurezza idrogeologica, l’evidenza dei cambiamenti climatici – quando non è ignorata dalle amministrazioni – viene utilizzata come pretesto per negare le responsabilità istituzionali rispetto alla mancanza di politiche di prevenzione e di intervento in ambito urbanistico e ambientale. La retorica delle “ripartenze” viene utilizzata per promuovere investimenti speculativi a beneficio dei colossi dell’edilizia e alle grosse aziende, mentre la regione viene descritta come il traino economico del paese. Il modello è quello, di volta in volta, della Motor Valley, della Food Valley, della Data Valley, grandi blocchi di potere economico che restituiscono al territorio poco altro se non sfruttamento lavorativo e costi pesantissimi in termini di impatto ambientale.
Anche da queste considerazioni, condivise in un’assemblea pubblica tenutasi a Bologna lo scorso 27 maggio, alla presenza di volontari, attivisti e militanti arrivati direttamente dalle zone alluvionate (Plat, Bologna for climate justice, Campi Aperti), è nata l’idea della manifestazione del 17 giugno. Un corteo che da piazza XX Settembre ha raggiunto il palazzo della Regione (presidiato in maniera imponente dalle forze di polizia), davanti al quale è stato scaricato un furgone carico di fango, con l’aiuto degli stessi volontari e volontarie che per settimane hanno lavorato ogni giorno a supporto delle popolazioni alluvionate.
Un cartello con scritto “We are not Fucking Angels” troneggiava tuttavia sul furgone di testa, a voler smontare la narrazione che tenta di de-conflittualizzare le spinte solidaristiche che arrivano non solo dai militanti e dalle militanti, ma anche da tanti altri “comuni” cittadini che, a contatto con un certo tipo di realtà, mostrano, accanto a rabbia e sconforto, una piena consapevolezza delle responsabilità storiche di chi dai territori ha il solo obiettivo di estrarre senza mai nulla restituire.
È riduttivo, in questo senso, raccontare questo corteo come una manifestazione “per l’alluvione”. La portata critica della piattaforma era evidente già leggendo i nomi delle realtà ambientaliste che hanno partecipato da fuori regione, come i movimenti No-Base (Coltano) e No-Rigassificatore, o dagli spezzoni sociali come il Collettivo di fabbrica ex-GKN, quello del sindacalismo di base, dei movimenti studenteschi.
L’obiettivo, riuscito, era quello di mettere in evidenza il nesso tra la devastazione ambientale frutto dell’avanzata senza ostacoli del capitalismo estrattivo e delle piattaforme, e i conseguenti attacchi ai diritti di lavoratori e lavoratrici, l’emergenza abitativa, il progressivo ritirarsi della politica che si rifiuta di affrontare le contraddizioni di città in cui vi sono contemporaneamente stabili vuoti e sfitti, persone in totale povertà abitativa, nuovi cantieri edilizi e nuove colate di cemento.
La consapevolezza condivisa dagli interventi è stata quella della necessità di una prospettiva alternativa a questo presunto “modello”. Un’alternativa che è il primo passo contro l’isolamento di intere comunità che vivono con terrore l’attesa della prossima piena, della prossima rottura, del prossimo smottamento e, in fin dei conti, della prossima emergenza. Un’alternativa da costruire, imporre e conquistare insieme. Qui e ora. (alice miglioli)
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