L’articolo che segue è il secondo racconto di una carovana realizzata in Ecuador a novembre del 2023, un progetto di solidarietà e di formazione sui conflitti ambientali. Il primo articolo raccontava della lotta antimineraria delle comunità della provincia di Imbabura, a nord della capitale Quito.
Qui vi parliamo delle conseguenze dell’estrazione dell’oro e del petrolio sui territori e sulle popolazioni dell’Amazzonia e della resistenza organizzata dei gruppi di abitanti e delle comunità indigene.
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Lasciamo la provincia di Imbabura, collocata sulla cordigliera delle Ande a nord dell’Ecuador, dove abbiamo incontrato diverse comunità in lotta contro i progetti estrattivisti delle multinazionali minerarie, per dirigerci verso l’Amazzonia. Percorrendo la strada verso sud-est, il paesaggio si trasforma gradualmente: il paramo andino lascia spazio alle folte foreste subtropicali, le montagne si abbassano dolcemente e il clima si fa sempre più umido e afoso. Arriviamo nella città di Tena, dove passa il Rio Napo, un affluente del Rio delle Amazzoni; la vicinanza con le Ande ancora ci protegge dal caldo torrido che si intensificherà nelle zone più interne. Qui il territorio deve ancora fare i conti con l’economia dell’oro: sono presenti imprese minerarie illegali e imprese legali che hanno ottenuto centosessanta concessioni dallo stato (pari a oltre trentamila ettari), la maggior parte in mano alla multinazionale ecuadoriana a capitali cinesi Terra Earth Resources.
A Tena sono giorni di festa per la ricorrenza della fondazione della città; rappresentanti istituzionali e reinas locali (reginette di bellezza elette) hanno il posto d’onore nella sfilata cittadina. Seguono in ordine esercito e corpi militari, gruppi e categorie di lavoratori, associazioni sportive, scuole di ogni ordine e grado, sindacati e comitati locali. Un fiume interminabile di persone in rappresentanza della cittadinanza, un insieme di coreografie ben studiate, musiche commerciali e popolari rivisitate dalle orchestre, stendardi e divise. Qualcosa di impensabile per il nostro immaginario culturale, una cerimonia che va in dissonanza cognitiva con gli schemi a cui siamo abituati. Ci sono anche i collettivi e le organizzazioni che si battono contro le attività estrattive per la difesa del fiume e della natura.
Da febbraio del 2020, infatti, in questa provincia è attiva l’organizzazione Napo Resiste che raccoglie vari gruppi e collettivi in lotta, come la Federazione delle organizzazioni indigene del Napo (FOIN) e Napo Ama la Vida, che monitora le attività estrattive mettendo a disposizione diverse competenze e professionalità (architetti, scienziati, avvocati, esperti di comunicazione, eccetera). L’obiettivo dei collettivi e delle organizzazioni dei popoli indigeni è promuovere azioni di rispetto dei diritti umani e della natura, contribuire al buen vivir, sensibilizzare la popolazione, denunciare l’impatto delle attività estrattive sull’ambiente e sulle comunità, impedire l’installazione di nuove miniere.
Oltre all’insicurezza alimentare e alla riduzione delle fonti idriche causate dell’inquinamento del sottosuolo e delle acque, le imprese minerarie producono altri effetti collaterali come la diffusione di attività criminali, delinquenza, sfruttamento e violenza. Se è vero che certi fenomeni sono più palesi dove ci sono le miniere abusive, è altrettanto vero che le miniere legali autorizzate dallo stato agiscono al limite della legge, sia nelle modalità con cui estraggono l’oro, sia per quanto riguarda il rispetto di alcuni principi fondamentali sanciti dalla costituzione del 2008. L’articolo 57, per esempio, prevede una consulta previa libera e informata con la popolazione sui progetti a grande impatto ambientale, ma in sostanza la norma non viene mai applicata. Inoltre, viene violato l’articolo 71 che introduce un elemento originale poiché riconosce la natura come soggetto di diritto la cui esistenza deve essere tutelata integralmente, mantenuta e rigenerata in tutti i suoi cicli vitali, strutture, funzioni e processi evolutivi. Secondo l’avvocato Andres Rolas della Defensoria del pueblo – un organismo autonomo istituito alla fine degli anni Novanta con lo scopo di proteggere e salvaguardare i diritti degli abitanti dell’Ecuador – questo articolo non è rispettato: «Ci sono duecentocinquanta macchine scavatrici che operano sul fiume, impossibile che non esistono violazione del diritto della natura sancito anche in Costituzione». La provincia di Napo, infatti, è una regione amazzonica speciale in cui si concentra l’indice di maggior biodiversità per metro quadro del mondo; secondo l’avvocato, tutte le attività minerarie sia legali che illegali dovrebbero essere interrotte.
L’economia estrattivista continua invece ad avere un potere così grande proprio perché le leggi nazionali non danno operatività effettiva ai principi sanciti dalla costituzione. Inoltre, continua l’avvocato, «la contaminazione dell’acqua dei fiumi rappresenta un attacco ai diritti umani, non solo ai diritti della natura, perché sono l’unica fonte presente. Noi denunciamo l’abbandono dello stato perché dovrebbe garantire i diritti base della popolazione e delle persone più vulnerabili. Prefetto, governatore, ministri sono tutti complici di omissione di intervento, e sono responsabili di quello che sta succedendo a Napo: il maggior biocidio della storia del nostro territorio».
Contro questo feroce attacco neocoloniale che vede la complicità di interessi nazionali ed esteri, finanza e stato, si battono anche trentacinque donne appartenenti alla comunità kichwa: la prima guardia indígena femenina chiamata Yuturi Warmi, nome ispirato a un tipo di formica chiamata “conga” o “yuturi”, molto pericolosa, che attacca quando si sente minacciata nel proprio habitat. Le donne indigene monitorano il territorio, bloccano i macchinari delle imprese minerarie: «Noi non stiamo solamente difendendo questo territorio – ci dice Elsa Cerda – stiamo difendendo la salute, la vita, la conoscenza, la cosmovisione della nostra cultura. […] Non stiamo lottando solo per l’Ecuador, ma lo facciamo a livello mondiale, per il cambio climatico, creiamo coscienza e chiediamo appoggio».
Non è un caso che la parola “miniera” non esiste nella cosmovisione indigena, ma viene usata l’espressione lavar oro, poiché questa preziosa materia prima, con cui si produce artigianato locale, è sempre stata lavata manualmente con un movimento rotatorio, senza produrre inquinamento. Oggi il capitalismo, attraverso l’accumulazione per spossessamento, si sta arricchendo a discapito del benessere del pianeta terra e degli abitanti, molti dei quali si battono per proporre un modello produttivo e di vita alternativo.
Oltre l’industria mineraria, il territorio ecuadoriano è deturpato da altre scelte produttive a grande impatto ambientale: le deforestazioni, le monoculture come quella delle palme o delle banane, le installazioni di impianti idroelettrici e le estrazioni petrolifere.
Addentrandoci ulteriormente dentro l’Amazzonia arriviamo a Puerto Francisco de Orellana, meglio conosciuta come El Coca, un punto di partenza per visitare il parco Yasunì, che si estende tra il fiume Napo e il fiume Curarayha, e ha la più alta concentrazione di biodiversità al mondo. Ad agosto di quest’anno più del cinquantanove per cento della popolazione ecuadoriana ha votato “sì” all’interruzione dell’estrazione di petrolio nel parco nazionale Yasunì. Tuttavia, il referendum non coinvolge le aree limitrofi dove continuano le attività di Petroecuador e di altre imprese a capitali stranieri.
La storia di El Coca è segnata dagli interessi petroliferi. La cittadina per lungo tempo è rimasta isolata e poco abitata fino a quando, nella seconda metà del secolo scorso, sono stati scoperti i primi giacimenti petroliferi; da allora c’è stata una grande immigrazione lavorativa, e oggi la città è perfino attraversata da un aeroporto. Sconvolta da questa invasione, una parte della popolazione indigena Waorani ha provato a resistere all’esproprio e a mantenere lo stile di vita originario, cercando di proteggere la propria terra dalle perforazioni delle compagnie petrolifere (come Shell Oil, Petrobell, Texaco), anche attraverso azioni di sabotaggio. Alcuni gruppi, come i Taromenane e i Tagaeri, hanno deciso di ritirarsi nella foresta pluviale e non avere più contatti con il cosiddetto mondo “civilizzato”. Un’altra parte della popolazione Waorani è stata corrotta dai petrolieri in cambio di pochi benefici, ha aperto la strada alle aziende, ha provato a cambiare le proprie abitudini, trasferendosi in città, lavorando per loro e impoverendosi.
Questa storia ce la racconta Washington Huilca, un ricercatore della fondazione Alejandro Labaka, che ci fa da guida tra il meraviglioso paesaggio amazzonico e i territori occupati dalle imprese petrolifere. Lungo la strada che percorriamo in macchina si estendono chilometri di tubi che trasportano il petrolio. Le tubature passano sotto le case, aggirando la folta vegetazione. Huilca ci racconta che i bambini o gli animali che attraversano queste strade rischiano di bruciarsi in continuazione perché i tubi sono bollenti. Ci fermiamo nel blocco 61. Dobbiamo scavalcare i tubi: alcuni effettivamente sono caldissimi, altri invece sono in disuso ma non hanno ricevuto alcun tipo di manutenzione perché sono arrugginiti e si sbriciolano appena li tocchi. Il nostro sguardo si perde tra le verdi sommità della foresta, dove vediamo ergersi una ciminiera infuocata che rilascia gas tossici residui della lavorazione del petrolio (i cosiddetti mecheros); in Colombia questi gas sono utilizzati per uso domestico, qui invece li disperdono nell’aria.
Riprendiamo il cammino, ci addentriamo ulteriormente nella foresta pluviale. Troviamo vecchi pozzi petroliferi abbandonati, avvolti dalla vegetazione che prova a riprendersi il suo spazio, circondati da melma e acqua inquinata. Poi il paesaggio acustico dell’Amazzonia viene interrotto dal rumore delle trivelle ancora attive, che lavorano incessantemente per estrarre petrolio.
L’ultima tappa del nostro giro è prevista a Nueva Loja, a venti chilometri dal confine con la Colombia. La cittadina è conosciuta meglio come Lago Agrio (lago tossico), rinominata così dai coloni texani provenienti da Sour Lake, dove aveva sede la compagnia petrolifera Texaco, artefice di un selvaggio estrattivismo. Intorno al 1964 la multinazionale statunitense – oggi Chevron – si insedia infatti nel territorio e inizia la ricerca di petrolio, che estrarrà ininterrottamente dal 1967 fino al 1992, devastando la giungla, contaminando fiumi e sottosuolo, causando malattie e tumori tra la popolazione che viveva lì da millenni. Complice di questo disastro umano e ambientale è anche la compagnia statale Petroecuador, che riceve un quarto dei ricavi.
Veniamo accompagnati da Donald Moncayo dell’UDAPT (Unión de Víctimas de Texaco en Ecuador) lungo una sorta di “toxic tour” che dura diverse ore. Anche in questo caso vediamo pozzi abbandonati, trivelle e torri di combustione che si stanano tra la ricca vegetazione. Un tubo che trasporta petrolio percorre 495 km.
Donald prende una pala e inizia a scavare la terra sotto ai nostri piedi. È nera ed emana odore di gasolio. Poi ci mostra il dondolio della terra che galleggia su pozze residue di scarti di petrolio sversato e non smaltito. È da anni che l’UDAPT documenta e denuncia gli effetti disastrosi delle attività minerarie e il mancato trattamento dei rifiuti tossici. Secondo l’organizzazione, in tutti questi anni la compagnia statunitense ha versato più di sessanta miliardi di litri di acqua tossica di formazione della lavorazione del petrolio e seicento cinquantamila barili di greggio nei fiumi e nella giungla, causando tumori a più di trentamila persone. La contaminazione ha causato l’estinzione di due comunità native su sei e la scomparsa di quasi quattromila kofanes (oggi la popolazione è stimata a mille e trecento persone). Per questo è in corso da diversi anni un processo contro la Texaco-Chevron, che nega la propria responsabilità, rifiuta le varie sentenze di condanna e respinge le accuse tacciandole di diffamazione. L’UDAPT pretende la bonifica dei pozzi petroliferi che contaminano l’acqua e lo smantellamento dei 484 mecheros che inquinano l’aria, sia nella provincia di Sucumbíos che in quella di Orellana. Il risarcimento economico è finalizzato a sostenere le comunità che hanno subito grandi danni e a risanare i quattrocento ottantamila ettari di area contaminata. La Chevron ha lasciato l’Ecuador e a tutt’oggi il risarcimento non è ancora stato pagato.
L’estrazione dell’oro, del bronzo, del petrolio – così come il disboscamento, le monoculture, la costruzione di grandi infrastrutture – continuano ad arricchire le compagnie straniere che portano altrove i propri capitali. Tutto ciò avviene con la complicità dello Stato che, non solo è responsabile di un’iniqua distribuzione della ricchezza accumulata, ma anche della militarizzazione dei territori e della repressione dei popoli che si battono per la difesa della natura. Questa violenza estrattiva è perpetuata ogni giorno in molte parti del pianeta, anche nelle nostre città da parte dalla finanza e dalla speculazione fondiaria, oltre che nei territori colpiti da inutili e dannose grandi opere.
L’avvelenamento di un fiume vuol dire l’inquinamento di un oceano e, come afferma un’attivista incontrata nel nostro viaggio, “non hai lacrime per piangere, se non hai acqua per bere”. Comprendere le connessioni che ci uniscono e portare ovunque le voci di chi lotta è fondamentale, così come lo è lo scambio di esperienze che dona forza reciproca. (chiara davoli)
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