La notte prima di entrare in casa, Pino, Tina e i loro cinque figli l’hanno passata in macchina. Un’Alfa Romeo prestata da un amico. La “macchina di Batman”, l’ha ribattezzata il più grande, nove anni. «Prima di occupare ci abbiamo pensato bene, perché in passato ho avuto dei problemi con la legge e non volevo finire di nuovo nei guai», racconta Pino. «Così mi sono informato, ho chiesto agli assistenti sociali che seguono i bambini, persino ai vigili urbani: tutti mi hanno detto che essendo una struttura pubblica era tutt’apposto. E così siamo entrati. Non sono passate nemmeno dodici ore e si sono presentati i servizi sociali dicendo che se non ce ne andavamo subito ci avrebbero portato via i bambini».
Via Nerva è la strada del mercato del Rione Traiano: una grossa area triangolare all’aperto delimitata sugli altri due lati da via Adriano e dal viale Traiano. Percorrendo lo Stradone, qualche metro prima di imboccare sulla sinistra via Nerva, c’è la Rsa (Residenza sanitaria assistita) della Asl Napoli 1, dove sono ospitati anziani con disabilità motorie e problematiche psichiche che vanno dalla demenza senile all’Alzheimer e ad altri tipi di disturbi cognitivi e comportamentali. Alle spalle del centro, separato da quest’ultimo da alcune reti metalliche arrugginite, e di fronte a un vecchio murales scolorito in cui una papera monocola guarda il tempo scorrere infilandosi dentro una clessidra, c’è un piccolo cortile. Al suo interno, due o tre edifici a un piano, abitati da altrettante famiglie. Nell’unico tra questi edifici rimasto finora vuoto, di proprietà della Asl, casa un tempo del custode del centro ma disabitato da quindici anni, si è sistemato da un paio di settimane Pino con la sua famiglia.
Quando salgo gli scalini che conducono all’appartamento, Pino è in cucina, la prima stanza sulla destra, ai fornelli. Sta preparando il pranzo per i bambini. Alla più piccola, che ha un anno, ci pensa sua moglie, imboccandole a fatica del riso mentre scambiamo qualche parola. Per gli altri, che sono fuori a giocare con delle pistole ad acqua nonostante il freddo, e ogni tanto fanno capolino per capire se è ora di pranzo o meno, Pino arrostisce freneticamente wurstel e frigge patatine surgelate. C’è confusione, come quando è ora di mangiare in una famiglia di sette persone. Mi siedo al tavolo, e i due genitori-ragazzi cominciano a raccontare.
Pino viene da Acerra, Tina dal Rione Traiano. Hanno entrambi meno di trent’anni e si sono conosciuti al nord, a Monfalcone. Qualche settimana prima di incontrare suo marito, Tina era andata a farsi “leggere le carte” da una signora del rione. Le carte le avevano consigliato di fare un viaggio, durante il quale avrebbe conosciuto l’amore della sua vita. Non molto tempo dopo i due erano sposati. Pino viveva da quasi dieci anni a Monfalcone, provincia di Trieste. La sua famiglia si era trasferita lì quando era bambino, per seguire il capofamiglia, operaio ai cantieri navali. Dopo un paio d’anni anche Pino aveva cominciato a lavorare, come pescatore, con un cugino che aveva delle barche a Trieste. Un lavoro che gli piaceva e che oggi ancora considera il “suo”, quando con malcelato orgoglio dice: «Io so’ pescatore…». A un certo punto Pino lascia la pesca per entrare in fabbrica, proprio quando ne esce suo padre, che perde la mano in un incidente sul lavoro. Non solo la mano, ma anche lo stipendio: al momento dell’incidente, il papà di Pino in fabbrica ci lavora a nero, e nessuno gli riconoscerà mai un euro per quell’infortunio, né per i vent’anni di lavoro tra barche, filo elettrico e filo continuo.
Nel 2008 i due ragazzi decidono di andar via dal Friuli. La sorella di Pino è coinvolta in un ingarbugliato caso giudiziario per l’assassinio di un vicino di casa, assassinio per il quale è accusata di complicità con suo marito. Anche per gli altri fratelli, però, l’aria si fa irrespirabile. La dinamica del delitto è oscura, le prove faticano a venir fuori, una curiosità morbosa e invadente monta attorno alla famiglia. Gli assalti continui dei giornalisti, le telecamere de La vita in diretta sempre sotto casa, l’isolamento e la durezza da parte degli abitanti del paese rendono impossibile restare là. Così Pino, da un giorno all’altro, abbandona le “prese americane” che stava montando su una nave da crociera e torna, con moglie e figli, a Napoli.
In un primo momento vanno a vivere al Rione Traiano. Poi si trasferiscono a Pianura: una casa abusiva da quattrocento euro al mese, più i soldi necessari per le utenze e il mangiare per i bambini. In un modo o nell’altro Pino e Tina riescono ad arrabattarsi, finché il negozio dove lui aveva trovato posto come salumiere chiude, e si torna nel rione, a casa della madre di lei. Pino rimane senza lavorare per un po’, poi accetta la proposta di un amico che gli chiede se vuole entrare in una “piazza” e si mette a spacciare. Il suo mestiere però è il pescatore, l’elettricista al massimo, anche se sa fare pure il salumiere. Viene arrestato dopo tre giorni. Finisce in carcere, a Poggioreale e poi a Palermo. Tina, che è di nuovo incinta e rimane a vivere dalla madre, riuscirà a vederlo solo due volte in un anno e mezzo, usando per i viaggi i soldi che lui le manda dal carcere, dove nel frattempo ha imparato un altro mestiere: il barbiere. Da quando è uscito, nel gennaio del 2014, e si è messo a cercare uno dei tanti lavori che sa fare, ha ricevuto solo porte in faccia.
Sono passate le tre da qualche minuto, e finalmente i bambini hanno mangiato tutti. Tina cerca di addormentare la piccola, Pino rimette ordine in cucina. Il forno e il frigorifero li hanno trovati dentro, così come lo scaldabagno, «che stava ancora imballato». Bussano alla porta, la nostra chiacchierata si interrompe. Un tizio con un Apecar ha portato un vecchio armadio, ancora in buone condizioni, e bisogna trasportarlo dentro. Le stanze da letto dei bambini sono già a posto. Ci sono i lettini, qualche valigia da disfare, un po’ di roba accumulata agli angoli delle pareti. Anche il bagno non ha nulla che non va, così come l’ultima stanza in fondo al corridoio, dove sono depositati alcuni scatoloni della Asl, che i dirigenti del servizio sanitario hanno raccomandato di non toccare per nessun motivo.
Nonostante il giro di perlustrazione fatto da Pino prima di occupare, le cose non sono andate come lui e sua moglie speravano. «Lo stesso pomeriggio dell’occupazione – racconta Tina – alcuni assistenti sociali si sono presentati sostenendo che i bambini non potevano stare in una casa occupata e che se non ce ne andavamo subito sarebbe stata avviata una pratica per toglierceli. Quello che ci fa rabbia è che prima, quando noi segnalavamo che non potevamo stare in sette a casa di mia madre, nessuno ha detto niente. Ora che i miei figli hanno un vero tetto sulla testa, dicono che qui non possono stare. Era meglio quando stavamo in una casa abusiva, o in cinque nella stessa stanza? ».
I numeri sulla “questione casa” a Napoli e provincia sono quelli di un disastro lungo anni. Una indagine dell’Unione Inquilini segnala, solo in città, diciassettemila persone in emergenza abitativa e duemila e cinquecento sfratti esecutivi, di cui quasi duemila per morosità incolpevole. Per il 2016 il comune di Napoli e la regione Campania hanno messo a bilancio “zero euro” per l’emergenza abitativa e il diritto alla casa. Dei soldi incassati dalla vendita del patrimonio di edilizia residenziale pubblica, intanto, quasi la metà sono finiti nelle tasche dell’ex gestore del patrimonio comunale (Alfredo Romeo), mentre nessuna risorsa è stata destinata al vecchio e nuovo bisogno casa. Negli ultimi vent’anni non si sono acquistate né costruite case popolari, mentre in attesa, in graduatoria, restano oltre ventimila famiglie. Nel frattempo fallivano centinaia di mutui casa con tanto di intervento del Tribunale fallimentare e, per quanto riguarda gli affitti, in totale assenza di qualsiasi misura calmierante, il numero delle abitazioni locate a nero diventava uno dei più alti d’Italia. A fronte di questo dato, a partire dal 2009, e progressivamente all’aumento delle domande per il sostegno all’affitto, diminuivano i fondi stanziati dal governo e dalla Regione. A oggi, i dati del sindacato di base napoletano individuano in venticinquemila le case vuote sul territorio comunale, una buona parte delle quali lasciate vuote a scopo speculativo, per un totale di settantacinquemila vani che potrebbero risolvere, con un intervento pubblico (requisizione, imposizione di fitto calmierato, equo-canone), il problema di migliaia di famiglie.
Pino e Tina, a quasi tre settimane dall’occupazione sono ancora a via Nerva. Dalla Asl dicono che devono andarsene, perché quella non è una casa, ma un archivio. La minaccia più rilevante, però, non è stata quella di uno sgombero coatto, ma di un’azione sui loro figli. «In passato abbiamo avuto dei problemi con i servizi sociali perché per un po’ di giorni i bambini non sono andati a scuola. Mio marito a Palermo, io che giravo da una casa all’altra, il pullmino che mi chiedeva cento euro al mese che non avevo… Poi mi sono organizzata e ora ci vanno tutti, tutti i giorni. Sono contenti loro di andarci e sono contenta io», sorride Tina. «Ma che nessuno, ora, si permetta di dire che questa casa non si può abitare. Tiene, anzi teneva, un solo problema: era vuota». (riccardo rosa)
Ma che fesserie dice questo articolo! Nel mio quartiere, almeno metà delle case sono occupate e certo non minacciamo nessuno per questo (sono un assistente sociale). Nessun bambino viene allontanato perché sta in una casa occupata e tra l’altro, gli assistenti sociali intervengono negli sgomberi solo per provare a trovare una sistemazione provvisoria per i bambini. Evidentemente c’è qualcosa che l’articolo, tanto per fare il solito colore, non dice; ad esempio, a nessuno viene in mente che essendo una struttura Asl abbandonata, gli scatoloni potrebbero contenere materiale pericoloso?
L’articolo riporta le testimonianze dei protagonisti della vicenda. Per quanto riguarda gli scatoloni, si tratta di materiale di archivio (cartaceo).
riccardo rosa
Le testimonianze andrebbero verificate prima di gettar fango su una categoria come fanno già nei peggiori programmi tv. Questo vuol dire fare giornalismo, ma soprattutto fare “controinformazione” come si faceva una volta. Non funziona come descritto l’intervento degli assistenti sociali e bastava chiederlo al loro Ordine (non al diretto interessato che non può parlare della coppia specifica per evidenti motivi di tutela loro). Non è così tempestivo, perché va attivato dall’Autorità Giudiziaria ed è un intervento di tutela, soprattutto per i minori, e non punitivo o costrittivo. Ci fosse stato un abuso, andava segnalato nei luoghi opportuni e non a chiacchiere.
Se hanno detto che gli scatoloni “non vanno assolutamente toccati”, un motivo ci sarà. Se fosse materiale di archivio riguardanti i loro utenti, non potrebbero certo lasciarli lì, perché sarebbe una violazione della legge sulla protezione dei dati personali e sensibili. S elo avessero fatto, sarebbe un reato.