Venerdì 23 novembre 2012, alle ore 18.00, si inaugura al Castel Sant’Elmo la mostra monografica “Errico Ruotolo. Opere dal 1961 al 2007”, a cura di Giuseppe Morra e Gabriele Frasca. La mostra sarà visibile fino al 6 gennaio 2013, dal venerdì al sabato ore 14:00-19:00; la domenica ore 9:00-19:00. Di seguito uno dei testi che compongono il catalogo.
A Errico gli ho stretto la mano una sola volta. È bastata però a darmi coraggio. Il nostro incontro avvenne a Pietrarsa, museo ferroviario che per un certo periodo ospitò alcune mostre importanti. A quel tempo dipingevo quasi esclusivamente sulle fiancate dei treni, quindi immaginate l’emozione che già il luogo da solo poteva darmi. Non ricordo se e di cosa abbiamo parlato, però sono sicuro che incrociare anche per pochi minuti il suo sguardo mi abbia dato la consapevolezza che la strada che stavo per intraprendere era proprio quella sbagliata, fallimentare al punto giusto, e che per questo andava percorsa con più audacia, muniti di una certa necessaria incoscienza. Era, non a caso, la fine del secolo. Il testimone tra la sua generazione e la mia in qualche modo era passato. Mi chiedo spesso – ed è un discorso che andrebbe approfondito (non qui, non ora) –: ma tra i nonni e i nipoti non dovrebbero esserci i padri? Almeno per avere modo di ucciderli.
Più avanti, ad altre sue mostre, non sono potuto mancare. Non me lo sarei perdonato. Però non l’ho mai avvicinato di nuovo. Un po’ per timidezza – come vuoi che si ricordi? –, un po’ perché volevo conservare il ricordo di quella spinta iniziale, il suo ignaro avermi trascinato nel pozzo senza fondo della pittura. Non crediate che non l’abbia osservato a distanza però. Mi affascinavano soprattutto le mani. Ho sempre pensato, proiettandogli sul corpo certe idee che m’ero fatto di lui, che avesse mani da contadino.
È che ai miei occhi, la matita per Errico era aratro. Sicché, da quei suoi rapidi solchi germogliavano gonfiori. Opere a gravi-danza multipla le sue. Da più e più parti – nella geografia del supporto – escrescenze, bubboni, brandelli dell’ultima tra le rivoluzioni industriali, quella microelettronica che ci spappola finalmente sbriciolata, rasa al suolo e resa suono. Certo, da lì al puro solfeggio il passo è breve, ed è quello che consente di trovarsi nel baratro del linguaggio.
Dagli ultimi disegni che ho potuto vedere con i miei stessi occhi mi è parso che il suo operare non foss’altro che un processo di depurazione. Dal flusso di pixel che credo l’investisse ogni santo giorno si vedeva costretto, per trovare l’eterno nel quotidiano scontro tra bande, a sottrarre il montaggio prima il suono poi. Come se dal prodotto confezionato per le masse volesse risalire, decostruendone innanzitutto il senso, alla materia primordiale di ogni conflitto: il bene e il male che si coricano nello stesso letto. Il risultato è un silenzioso ma non per questo aritmico disporsi di segni più veloci di quella stessa luce che li ha generati. Una fuga di notizie, le ultime forse, letteralmente. E poi, a dispetto della vulgata che vuole che le prime cose fatte siano quelle più forti, quelle di Errico, col tempo andavano lib(e)randosi sempre di più. I suoi lavori a cavallo del nuovo secolo sembrano volare tanto più in alto quanto maggiore è la zavorra che riesce a lanciare in basso.
Assunto che si disegna con la gomma (o la zappa) Errico sottrae, sottrae: il disegno, i colori, i contorni, fino a lasciar parlare brandelli di oggetti, macchie, rilievi monocromatici, graffi. Le asportazioni d’oggi figlie delle deportazioni di ieri. Ed ecco che dai suoi de-pinti potreste sentire gli echi delle grida perpetue di ogni guerra, che per quanto s’ostini a chiamarsi nuova è sempre la stessa, se stessa, da quel momento – l’odissea di Kubrick c’insegna – in cui primati ci privammo d’ogni possibile convivenza. Come dire che s’è iniziati con la fine.
E per finire appunto, vorrei ringraziarti Errico, scusandomi se continuo a chiamarti per nome – ci conoscemmo appena eppure ti sento così familiare – forse perché da certa tua ostinazione appresi la capacità di rielaborare il fiume in piena delle informazioni che ci vomitano addosso. A Errico, dicevo, dico grazie perché m’ha insegnato con la forza muta dell’esempio a inciampare con le mie stesse gambe, a farmi l’autosgambetto, procurarmi il singhiozzo e balbettare per poter ogni volta reinventare una lingua diversa. Se possibile di volta in volta più incomprensibile, non tanto per confondere le acque ma per attizzare quei mille fuochi necessari a che l’incendio divampi. (cyop&kaf)
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