Si presenta martedì 24 settembre, alle 18,00, alla libreria Ubik di Napoli (via Benedetto Croce, 28), il libro di Antonio Esposito, Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019), di recente pubblicato da Ad est dell’equatore. Presenti, insieme all’autore, Giuseppe Acocella, Teresa Capacchione, Giovanni Carbone e Dario Stefano Dell’Aquila. Pubblichiamo, come anticipazione, una traccia dell’intervento di quest’ultimo.
Questo non è un intervento neutrale (se mai possa esistere la neutralità), perché chi scrive ha un legame di fraternità con l’autore impossibile da mascherare, neppure con il più abile esercizio di dissimulazione letteraria. Ciò detto, di questo libro imponente e urgente, proveremo solo a suggerirne il senso (come direzione e come significato) e ad accompagnarlo con qualche istruzione per l’uso.
Primo da tenere a mente, è un libro imponente per dimensioni e struttura tematica, ma leggero per stile e unità di scrittura. Questo consente una lettura di un solo fiato, ma anche incursioni dirette nei singoli capitoli. Occorre evitare la pigrizia e avere la pazienza di scorrere con attenzione l’apparato di note che di fatto costituisce un libro nel libro. In secondo, luogo, è un libro importante per originalità delle fonti e di analisi. Si contano sulle dita di una mano i testi (tra questi ricordiamo il fondamentale il lavoro di Valeria Babini, Liberi tutti, con il quale il nostro si confronta lungo tutto il suo lavoro) che offrono una panoramica così completa sui dispositivi normativi, discorsivi e sulle pratiche in campo. Tuttavia, come l’autore tiene a precisare, non è un libro di storia (non nel senso classico), “ma il tentativo di approfondire genealogicamente” questi dispositivi nella loro evoluzione, a partire dalla prima legge psichiatrica del 1904 fino allo stato dei servizi di salute mentale nei giorni presenti. Per questi motivi, il testo non si può collocare nel solo campo della ricerca storica e trova il suo riferimento nelle lezioni di Michel Foucault… un paziente lavoro di scavo che, con dispiacere dei puristi della ricerca accademica, mostra come si siano nel tempo formate le norme e le pratiche mediche dalle quali si è sviluppato oggi il discorso psichiatrico.
Questa scelta multidisciplinare non è priva di insidie, perché apre il fianco alle critiche specialistiche e al settorialismo disciplinare. E invece Le scarpe dei matti è un testo che convince non solo per l’organizzazione dei temi, ma anche per l’intensità e l’originalità delle fonti (in particolare sulla discussione politica in sede di assemblea costituente che ha accompagnato l’approvazione dell’articolo 32 o quella in sede parlamentare sulla legge di riforma dell’assistenza psichiatrica) che costituiscono un elemento di fin qui poco indagato anche dagli esperti della materia.
Il libro si presta però a essere un ottimo strumento per chi affronta per la prima volta il tema e vuole avere una visione complessiva. Potrà così muoversi dalla prima definizione normativa dei folli pericolosi e di pubblico scandalo (1904), fino alle classificazioni imposte dal manuale diagnostico DSM-V dell’American Pyschiatric Association (2013). La modalità di scrittura (mai tortuosa, prudente o accademica, sempre netta, polemica e lucida) consente di avventurarsi nella lettura senza timore di affossamenti. La trama delle fonti è ben ricamata, le citazioni bibliografiche sono ben intrecciate con i richiami agli articoli di stampa e con le testimonianze dei protagonisti di questa storia (primo, ma non solo, Franco Basaglia); il risultato di questa ricostruzione è la restituzione di un campo di lotta, con i suoi dispositivi mortificanti e manicomiali da un lato, la critica istituzionale e il riconoscimento della sofferenza dall’altro, che avvertiamo tutt’oggi come attuale.
Questa attualità è il motivo per cui questo libro oltre a essere importante è “urgente”. Perché oggi, nonostante le celebrazioni, è purtroppo evidente che la lotta che ha portato alla chiusura dei manicomi non è riuscita a superare la logica che ai manicomi sottendeva. Terminata la tensione politica che accompagnò la riforma, e dopo venti anni di progressivo smantellamento del sistema pubblico (non solo in termini di risorse, ma anche in termini di capacità di trasformazione e strategia), la fragilità dei servizi di salute mentale territoriali fa ritornare prepotentemente alla luce i temi della critica manicomiale. I più evidenti sono l’uso della contenzione (già, perché si legano ancora i malati ai letti) e del trattamento sanitario obbligatorio (temi su cui il testo si sofferma in maniera approfondita e documentata), ma i nodi critici sono tanti a cominciare dal mandato sociale che la psichiatria odierna riceve: custodia o cura? Perché è in fondo la differenza tra questi due paradigmi che consente di comprendere se i farmaci sono prescritti nell’interesse del paziente (e quindi all’interno di un quadro clinico e di una diagnosi scrupolosa) o se piuttosto sono prescritti a sedare il sintomo e a garantire quiete pubblica e privata. Perché la crisi dei servizi, non più aperti ventiquattr’ore al giorno, con lunghi tempi di attesa e con il rapporto di un medico ogni centinaia di pazienti, trasforma l’intervento medico in un perenne intervento di urgenza. Le differenze sociali incidono profondamente sul diritto alla cura e segnano un solco incolmabile tra chi ha reddito per ricorrere al medico privato e chi deve, senza alternative, rivolgersi al servizio pubblico. Negli anni si è smarrita ogni capacità di riflessione sullo stato dei servizi della salute mentale e, salvo eccezioni qualificate, il tema della sofferenza psichica è confinato a un dibattito settoriale e privo di qualunque visione di insieme.
In questo testo, la bussola che orienta la scrittura è sempre in direzione di chi soffre. Non solo la conoscenza, dunque, ma il saper prendere posizione. Scriveva Basaglia: “Solo l’esclusione dell’altro, del diverso, consente al potere di conservare la propria ideologia, senza tener conto delle sue contraddizioni”. A che varrebbe tutto questo scrivere, questo affannarsi a scavare tra gli archivi e nelle biblioteche, se il racconto delle violenze manicomiali o dei letti di contenzione, di uno stigma lungo secoli, delle vite disperse ai margini di una diagnosi psichiatrica, non servisse a dire che chi soffre ha diritto a una cura che non lo privi della propria libertà e che lo riconosca, in ogni momento, come persona? (dario stefano dell’aquila)
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