Come è strutturato e organizzato il regime del 41-bis nelle carceri di Opera e Aquila? Su quali basi – pratiche e normative – si basano le restrizioni agli oggetti in cella, la censura alle comunicazioni con l’esterno, la socialità e i contatti con altri esseri umani?
Su queste e altre questioni Luna Casarotti ha intervistato Gherardo Schettino, chiedendogli di raccontare la propria storia e la propria esperienza di prigioniero in un regime carcerario che nulla a che vedere con una pena detentiva, ma che si configura come una vera pratica di tortura, fisica e psicologica. Questi che leggerete sono alcuni estratti del suo racconto.
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Il 41bis è concepito come un regime di isolamento, ed è quindi fondato su una forma limitata di “socialità”, un diritto fondamentale per un detenuto. In ogni gruppo di socialità possono esserci al massimo quattro persone, spesso selezionate da diverse regioni d’Italia, per esempio: un calabrese, un campano, un pugliese e un siciliano. Se non è possibile formare il gruppo con persone di regioni diverse, due detenuti della stessa regione, come due calabresi, non possono condividere la stessa socialità e quindi il gruppo si riduce a tre.
La socialità si articola in due momenti: un’ora in una saletta dove si può giocare a carte e scambiare qualche parola, e un’altra ora all’aperto, anche se definire “aria” quello spazio è alquanto fuorviante. Il cosiddetto spazio all’aria è in realtà una piccola area circondata da alte mura, in cui l’unico punto di apertura verso l’esterno è una rete metallica al posto del soffitto. Nonostante l’aria aperta, lo sguardo è prigioniero tra quelle mura imponenti, anche perché il più grande di questi spazi non supera i sessanta metri quadrati. Le altre ventidue ore della giornata si trascorrono in cella, dove non c’è nulla da fare.
Le finestre delle celle sono blindate da vari strati: prima l’inferriata, poi una rete elettrosaldata con spazi di pochi millimetri, e infine un pannello di plexiglas che impedisce di guardare fuori. Una chiusura totale, sia fisica che visiva. Prima dell’arrivo di AlfredoCospito, l’anarchico in sciopero della fame per tutti i detenuti sottoposti al 41bis, nella sezione in cui mi trovo facevano la raccolta dell’acqua piovana con i secchi, a causa delle numerose infiltrazioni. Solo dopo il suo arrivo, con l’attenzione mediatica che ha comportato, quei problemi vennero immediatamente risolti.
Nel regime del 41bis, non viene impedito di leggere o scrivere, ma una o due volte alla settimana si è soggetti a perquisizioni in cella, (come accade anche negli altri istituti penitenziari, indipendentemente dai regimi speciali) condotte con il pretesto della sicurezza. Tuttavia, il detenuto non è presente durante queste ispezioni e di conseguenza il personale del GOM (Gruppo Operativo Mobile) può operare senza controllo. Gli oggetti in cella vengono spesso spostati, è probabile che ogni pensiero lasciato su carta venga letto, compresa la corrispondenza legale con gli avvocati, che non potrebbe essere formalmente aperta quando sulla busta è presente la dicitura “corrispondenza per motivi di giustizia non sottoponibile al visto di censura”, firmata dal presidente del consiglio dell’Ordine degli avvocati. Lo stesso vale per le lettere in uscita: devono includere sia la motivazione di giustizia, sia il numero del procedimento per cui l’avvocato è stato nominato. Quando tale dicitura non è correttamente riportata, le lettere vengono aperte e censurate.
La Corte Costituzionale ha già dichiarato illegittima questa prassi, in particolare per quanto riguarda i telegrammi, che per loro natura sono inviati senza busta sigillata e quindi non dovrebbero essere passibili di controllo. Malgrado questa sentenza, la censura continua ad essere applicata anche su tali forme di comunicazione, disattendendo le direttive costituzionali.
Dal 2018, è stato concesso ai detenuti di preparare cibo, ma con una serie di rigide restrizioni. Il fornello e il pentolame, per esempio, non possono essere conservati in cella. Devono essere richiesti al mattino, alle 7:00, e riconsegnati entro le 20:00. Inoltre, non è possibile cucinare in qualsiasi momento della giornata: gli orari consentiti sono indicativamente dalle 11:00 alle 13:00 per il pranzo e dalle 17:00 alle 19:00 per la cena.
Il possesso di oggetti personali è ridotto al minimo: il detenuto può tenere con sé solo l’essenziale: poche paia di calze, indumenti intimi, qualche maglietta e due paia di pantaloni. Anche le magliette devono essere rigorosamente uniformi, senza disegni o loghi. Persino le bottiglie d’acqua che vengono portate dai familiari durante i colloqui devono essere prive di etichetta, e i tatuaggi vanno coperti. Il tagliaunghie deve essere richiesto specificamente e, una volta utilizzato, deve essere immediatamente depositato nella bilancetta esterna alla cella, sotto stretto monitoraggio.
La giornata al 41bis è scandita da rituali che sebbene comuni anche ad altri istituti penitenziari, assumono una valenza particolarmente opprimente (oltre che senza senso, considerando le condizioni generali) in questo contesto. Ogni mattina e sera si effettua la cosiddetta “battitura”: gli agenti colpiscono le sbarre della cella con il manganello, in senso verticale, orizzontale e obliquo. Anche se questa pratica è presente in tutte le carceri, nel regime del 41bis assume una sfumatura di violenza psicologica. Considerando che ai detenuti è vietato persino possedere una lametta da barba, è evidente che la battitura non ha lo scopo di prevenire tentativi di fuga o di danneggiamento delle sbarre, ma è piuttosto uno strumento per esercitare una pressione mentale costante.
Un’altra pratica di violenza non giustificata ma assai comune è quella della censura della corrispondenza, non esplicitamente prevista dalla legge sull’ordinamento penitenziario, in quanto in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione, che tutela la libertà e la segretezza della corrispondenza. Non potendo modificare questo principio costituzionale, è stato trovato un escamotage: la censura è “temporanea”, ma viene rinnovata ogni tre mesi senza che vi sia un controllo distrettuale o una motivazione chiara. Ogni reclamo presentato viene rigettato senza che venga fornita una spiegazione logica. Anche i magistrati di sorveglianza, a cui ci si rivolge per chiedere chiarimenti, rimangono in silenzio: quando domando perché “se in questi tre mesi non ho commesso alcuna infrazione e non ci sono nuovi elementi, continuare a rinnovare la censura?”, non ottengo risposta. La realtà non scritta del 41 bis è che la corrispondenza senza censura non esiste. Ogni lettera viene controllata, nonostante la mancanza di un fondamento strutturale nella legge.
Oltre al regime del 41bis, varrebbe la pena portare a galla l’esistenza delle cosiddette “aree riservate”, che non sembrano trovare riconoscimento ufficiale in alcuna circolare. Nel carcere di L’Aquila questa zona si chiama “area rossa”, mentre a Opera è nota come “area verde”, situata al piano terra. Nelle aree riservate i detenuti non sono divisi in gruppi di quattro, come previsto dal regime ordinario del 41bis, ma in coppie. Ogni cella è sorvegliata da telecamere attive tutto il giorno e i bagni sono privi di porte, riducendo drasticamente la privacy dei detenuti. Queste aree sono generalmente destinate a individui considerati pericolosi o ai cosiddetti “stragisti”. La condizione psicologica di chi viene collocato in queste aree è spesso compromessa; molti di loro presentano già segni di grave stress mentale e l’assenza di socialità può aggravare ulteriormente la situazione, contribuendo a un deterioramento della salute mentale reciproca².
Oggi l’attenzione è rivolta alle violenze fisiche da parte degli agenti in carcere, ma andrebbe resa maggiore su quelle invisibili, psicologiche, che spesso sfuggono al controllo e a ciò che è scritto nella normativa. Nel carcere di Opera sono state installate le telecamere all’interno delle celle, e attivate, come indicato dalla luce rossa sempre accesa.
Un mio compagno di socialità si chiamava Giovanni Battaglia. Era originario di Capaci, è morto a causa di una frattura all’anca che ha portato a una cancrena. Aveva problemi psichiatrici e disturbi del comportamento, ma le istituzioni lo hanno lasciato marcire in cella, senza alcun intervento adeguato. Non era il solo in quelle condizioni.
Quando Alfredo Cospito si trovava nel reparto SAI del carcere di Opera, fu visitato da una delegazione di osservatori. Il gruppo si fermò a lungo davanti alle celle dei detenuti della sua sezione, probabilmente per valutare le condizioni di ciascuno. Quando passarono vicino alla mia cella, cercai di attirare la loro attenzione. Essendo tetraplegico, non potevo alzarmi dal letto, ma con tutte le forze cercai di farmi notare, alzando la voce e chiedendo loro di andare a vedere la cella numero 7, dove era rinchiuso Giulio Bellocco, un uomo che soffriva di Alzheimer e che giorno dopo giorno si andava spegnendo. Giulio era magrissimo, la malattia lo stava divorando. Nonostante i familiari cercassero di confortarlo durante i colloqui, portandogli del cibo in una borsa frigo, lui non era più in grado di alimentarsi autonomamente. Indossava un pannolone che i sanitari cambiavano sì e no una volta al giorno, lasciandolo spesso in condizioni indegne e inumane. Giulio è morto nel 2024, prigioniero non solo delle mura del carcere, ma anche e soprattutto di una malattia che lo aveva già portato lontano da ogni consapevolezza del mondo esterno.
Chiesi alla delegazione di visitare anche la cella numero 11, quella di Giovanni Battaglia, che lottava in solitudine contro il dolore e l’abbandono. Questi detenuti sono i simboli più evidenti del degrado umano che regna in carcere, e ancora di più in questo tipo di sezioni, dove la sofferenza viene sistematicamente ignorata.
Venerdì 19 maggio 2023 presentai una segnalazione al direttore del carcere utilizzando il modello 393. Segnalavo un “forte odore di carne marcia” che percepivo persino a due celle di distanza. Il sabato mattina successivo, pur senza vederli, potetti sentire chiaramente il trambusto del personale medico e del dirigente sanitario che si precipitavano verso la cella di Giovanni: «A noi nessuno ci ha informati!», dicevano. Da quanto appreso successivamente via stampa, Giovanni avrebbe dovuto essere scarcerato una settimana prima, dal momento che il tribunale di sorveglianza aveva ordinato l’attenuazione del regime detentivo cambiandolo da carcerario in domiciliare per l’aggravarsi della malattia terminale. Per questa vicenda ho presentato un esposto alla Procura della Repubblica di Milano, chiedendo di essere ascoltato riguardo al decesso di Giovanni ma non ho ricevuto alcun riscontro. La verità è che quando finisci dietro le mura del 41bi smetti di esistere, perdi qualsiasi diritto, compreso quello di vivere. Siamo fantasmi, destinati a svanire nell’ombra. (intervista di luna casarotti, associazione yairaiha ETS)
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² L’avvocato Maria Teresa Pintus, interpellata nel merito, evidenzia che le aree riservate possono avere nomi diversi, ma anche che quando si cercano chiarimenti presso l’amministrazione, spesso si ricevono risposte che negano la loro esistenza: «Esistono documenti ufficiali che attestano la collocazione di alcuni assistiti in queste aree, dimostrando che la loro esistenza è inconfutabile. A Sassari si sostiene che tutte le aree siano riservate, il che giustifica la presenza della cosiddetta “dama di compagnia”, un altro detenuto designato a coadiuvare la socialità. Questa figura ha il compito di garantire il rispetto formale di una normativa che non prevede l’isolamento totale. Nonostante le affermazioni secondo cui queste aree non esisterebbero più, è evidente che continuano a essere presenti. A Opera, per esempio, vi sono due padiglioni specificamente dedicati a queste misure restrittive, mentre a Novara due camere di pernottamento adiacenti alla sala colloqui con familiari e avvocati».
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