da Napoli Monitor n.53, marzo/aprile 2013
Conoscemmo Renato Parascandolo un anno fa, in occasione della proiezione di un documentario sui contrabbandieri di sigarette a Napoli. Parascandolo è stato uno degli autori di “Cronaca”, una rubrica televisiva di inchieste sociali che negli anni Settanta documentava con rigore e lucidità la realtà di un’Italia in piena trasformazione (un’Italia non ancora assassinata da quello stesso mezzo di cui Parascandolo, insieme a pochi altri all’epoca, seppe sfruttare le oggettive potenzialità di comunicazione). Attraverso un metodo oramai scomparso in televisione, a cavallo tra la tradizione di ricerca sociale – o storica? – e il giornalismo in senso stretto, gli autori di Cronaca erano anche gli stessi protagonisti delle inchieste, che partecipavano direttamente alle varie fasi di lavorazione, dalle riprese al montaggio. Il documentario sui contrabbandieri s’inseriva proprio in questo filone di ricerche sul campo realizzate in quegli anni dal gruppo di ideazione e produzione di Cronaca: Dal terremoto in Irpinia al Carnevale di Pomigliano d’Arco, dalle carceri al lavoro nelle fabbriche e al post terremoto a Napoli. Pensammo di incontrare Renato qualche mese dopo per saperne di più, perché c’incuriosivano alcuni dettagli di quell’esperienza, in qualche modo affine al nostro modo d’intendere la narrazione della realtà. Quella che segue è più o meno la storia che ci raccontò, in una bella giornata d’inizio ottobre.
Sono nato al Vomero vecchio, tra via Belvedere e via Aniello Falcone, un quartiere a metà tra il proletariato e la borghesia intellettuale: falegnami, verdurai, tappezzieri ma anche professori universitari e uomini politici come Francesco De Martino, all’epoca vice segretario del Partito Socialista. Da questa commistione nacque la mia passione per la politica, intesa come impegno civile e difesa della democrazia. A 13 anni mi iscrissi al Partito Comunista: andavo ai comizi di Togliatti e Nenni a piazza Plebiscito mentre Achille Lauro faceva sfilare lungo la piazza i camion della sua propaganda per disturbare la manifestazione.
Quando fui chiamato dalla Rai di Napoli a partecipare a un concorso come assistente alla regia radiofonica, avevo ventun anni e una chiara coscienza politica. Poiché non volevo lasciare i miei studi di medicina, rifiutai l’assunzione e cominciai a lavorare con contratti a tempo determinato. La prima inchiesta la realizzai nel 1969. Avevo appena letto “L’istituzione negata” di Franco Basaglia, un pamphlet che raccontava l’esperienza condotta da un gruppo di psichiatri del manicomio di Gorizia impegnati nello smantellamento dell’ospedale psichiatrico e dei pregiudizi di cui erano vittime i malati mentali. Entusiasmato da quella lettura, mi attrezzai con la Nikon e con il Nagra – il mitico audioregistratore – per documentare le condizioni di vita nei manicomi italiani. Nacque così la mia opera prima: “La follia della ragione”, un documentario che restituiva la parola agli internati, vittime di secoli di brutale isolamento. Il documentario ebbe una menzione speciale per la sperimentazione del linguaggio radiofonico. Fu allora che cominciai a capire l’importanza di far parlare i protagonisti, ma anche che la realtà è molto più complessa e contraddittoria di quanto si creda.
Nello stesso anno, mi fu affidata la regia del più popolare programma radiofonico del tempo: “Per voi giovani”, una trasmissione quotidiana di due ore condotta da un giovane disc jockey, Renzo Arbore, e da un gruppo di giovanissimi redattori che realizzava inchieste sul mondo dei giovani. All’epoca la Rai agiva in regime di monopolio, esistevano solo tre canali per cui l’audience era altissima: sette milioni di radioascoltatori. Erano gli anni della contestazione giovanile e delle lotte operaie per il miglioramento delle condizioni di lavoro; tant’è che cominciammo a fare le dirette dalle fabbriche e dalle scuole occupate, e il giorno della messa in onda portavamo in studio le ragazze e i ragazzi che avevano partecipato alla realizzazione dell’inchiesta. Tra i nostri ascoltatori ve n’era uno che di radio e televisione si intendeva davvero: Giovanni Cesareo, un vero maestro di giornalismo, critico televisivo dell’Unità. Volle conoscerci, si congratulò per il nostro metodo di lavoro e pubblicò un’intervista di un’intera pagina sul nostro modo di fare le inchieste.
A giugno del 1970 Il Direttore generale dell’epoca, Ettore Bernabei, una persona per tanti versi rispettabilissima ma poco incline ai fervori rivoluzionari, pensò bene di licenziare il regista e tutta la redazione Vi furono proteste da parte delle federazioni giovanili dei partiti – DC compresa – e campagne di stampa di giornali come Paese Sera, l’Unità e l’Espresso. Tutto inutile. Per mesi restai disoccupato, poi mi mandarono a fare lavori meno “pericolosi” sebbene molto gratificanti professionalmente come le regie degli sceneggiati radiofonici alla Rai di Torino. Nel 1973 mi richiamarono a “Per voi giovani” per una edizione solo “culturale”: in pratica, niente conflitti sociali. Nei primi mesi del ’74, tuttavia, il Direttore mi informò che dalla settimana successiva sarebbe andata in onda solo la colonna musicale e che io avrei potuto starmene a casa, tanto mi avrebbero pagato lo stesso fino alla scadenza del contratto. Sconcertato, insistetti con il direttore per avere una spiegazione. Non mi rispose, ma tirò fuori dal cassetto una nota riservata della Direzione generale su cui era scritto: “In previsione del prossimo referendum, è opportuno sospendere tutte le trasmissioni che potrebbero fare propaganda a favore del divorzio”.
Memori di quella esperienza, Raffaele Siniscalchi e io demmo vita alla fine del 1974 alla rubrica televisiva “Cronaca”, un programma di inchieste sociali fondato sul pieno coinvolgimento dei protagonisti delle vicende di cui ci occupavamo, in tutte le fasi di realizzazione: dall’ideazione, alle riprese, al montaggio. Decisi di abbandonare l’università. Oltretutto mi resi conto che fare televisione dando la parola ai protagonisti delle realtà sociali era politicamente molto più incisivo che fare il dirigente di partito. Era un modo nuovo di fare politica.
La prima serie di “Cronaca” risale al 1974, cioè prima della Riforma della Rai (1975). C’erano stati affidati dodici spazi di messa in onda prima del TG 2 delle 13,30. In regime di monopolio televisivo, quello spazio significava alcuni milioni di spettatori.
Stavamo effettuando le riprese della decima puntata quando un amico ci avvertì che a Roma, in un circolo dell’Arci, al quartiere Prenestino, era in programma un incontro tra operai e poliziotti che rivendicavano il diritto di avere una rappresentanza sindacale: una strada impraticabile in quanto la Polizia era un corpo militare dello Stato. La riunione era stata organizzata da un piccolo nucleo sindacale, appoggiato dalla Cgil, che operava in clandestinità. Utilizzando la troupe della Rai, senza informare nessuno, andammo a riprendere questo incontro “storico” che si svolgeva in un’atmosfera che ricordava la Carboneria.
Al di fuori c’erano poliziotti in borghese aderenti al sindacato e agenti dei servizi segreti intenti a spiarli. Nella sala angusta dell’Arci si erano ammassate un centinaio di persone. Il confronto era durissimo. Gli operai dicevano: «Ma come, ci avete bastonato per anni e ora chiedete il nostro appoggio? Sapete quanti operai sono morti negli scontri di piazza con la Polizia di Scelba e di Tambroni ?». L’atmosfera era tesa e resa ancora più pesante dal fumo delle sigarette, ma l’aspetto più inquietante e surreale della situazione nasceva dal fatto che i poliziotti, sapendo di essere ripresi dalle cineprese della Rai, indossavano il passamontagna!
Il giorno dopo montammo in fretta la trasmissione e, come si usava allora, scrivemmo per il Radio Corriere una breve anticipazione dell’inchiesta che andò in edicola quattro giorni prima della messa in onda. Il giorno successivo l’Espresso uscì titolando in copertina: “Intervista esclusiva: si dimette il vicecapo della polizia”. Alla domanda sui motivi che l’avevano indotto a questa clamorosa decisione l’ufficiale rispose : «Il clima nella Polizia è cambiato: quando ho letto che la televisione di Stato stava mandando in onda un servizio sul sindacato di polizia ho capito che quello non era più il mio posto». il giorno stesso ricevemmo la comunicazione la trasmissione era stata soppressa.
Non ci rassegnammo. Ci facemmo ricevere da Luciano Lama, Segretario Generale della CGIL e convinto sostenitore della smilitarizzazione della Polizia. Lama telefonò immediatamente al Presidente della Rai, un democristiano: «Ho saputo che volete cancellare la puntata di “Cronaca”. Se questo dovesse accadere, manifesteremo in forza sotto la Rai di viale Mazzini”. Fecero marcia indietro: la trasmissione andò in onda ma “Cronaca” chiuse i battenti in anticipo. Nei giorni successivi fui convocato dal Direttore dei programmi culturali. Ero emozionato ma soprattutto preoccupato, tenuto conto che all’epoca ero un “precario”. La segretaria apri la porta dell’ufficio del direttore e mi annunciò. Stavo per entrare ma fui subito fermato con queste parole:” Non è necessario che entri; volevo solo dirle che fino a quando sarò su questa poltrona, lei non metterà mai più piede in Rai”
E così fu. Restai disoccupato per oltre un anno. Ne approfittai per dedicarmi, insieme a tanti colleghi, alla battaglia per la Riforma della Rai. Creammo il Movimento Informazione Democratica. Mettemmo in pratica forme originali di comunicazione. Ricordo, ad esempio, “Il telegiornale in piazza”: una manifestazione consistente nel proiettare, in diretta, su un grande schermo, il Tg 1 delle 20 per poi criticarlo insieme con i più autorevoli giornalisti dell’epoca: Andrea Barbato, Furio Colombo, Enzo Biagi. Con la Riforma del 1975, grazie a una vertenza sindacale collettiva, fui assunto in via definitiva come giornalista. Furono anni straordinari, gli unici in cui la Rai fu veramente indipendente e al servizio della società civile: un laboratorio che sfornava senza sosta programmi assolutamente innovativi e intelligenti, colti e al tempo stesso popolari, senza censure e, soprattutto, senza autocensure.
Nel 1981, con la fine del governo di solidarietà nazionale, finì anche la stagione della Riforma. Dopo la messa in onda di un’inchiesta in due puntate di un’ora ciascuna su “I 35 giorni di Mirafiori” capimmo che era iniziato il boicottaggio nei nostri confronti, Ma per quanto fossimo considerati scomodi dal nuovo gruppo dirigente insediatosi a Rai 2 con l’avvento di Craxi, nessuno voleva prendersi la responsabilità di chiudere la testata. L’occasione si presentò nel 1983. Stavamo realizzando un’inchiesta nel carcere di Rebibbia: per la prima volta la televisione entrava in un carcere ponendosi dalla parte dei detenuti. Per oltre due mesi lavorammo in un clima di grande collaborazione con il direttore, i funzionari, le guardie carcerarie e i detenuti. Ricordo che per consentire ai detenuti di partecipare al montaggio, installammo una moviola nel carcere. Finché, un giorno, fummo convocati dal nostro capostruttura che ci mostrò una lettera del Ministro della Giustizia Darida con la quale si comunicava la revoca del permesso e il divieto della messa in onda dell’inchiesta con la motivazione che sarebbero state effettuate riprese e interviste che rischiavano di fornire informazioni logistiche ai gruppi terroristici che, in quei primi anni Ottanta, ancora imperversavano.
Anche in questo caso non ci perdemmo di coraggio. Ci facemmo ricevere dal Ministro per rassicurarlo e convincerlo a ritirare il provvedimento. Andammo da Darida che ci confessò di avere firmato la lettera senza neanche leggerla. Alla fine del colloquio ci disse: «Se accettate che due magistrati del mio staff controllino le riprese e vi indichino gli eventuali tagli da apportare, vi autorizzo a portare a termine l’inchiesta». Accettammo di buon grado anche perché eravamo i primi a non voler correre il rischio di favorire, per quanto involontariamente, le mire dei brigatisti. Ricordo il giorno in cui vennero i magistrati. Arrivarono a via Teulada scortati da due auto. Entrati nella sala di montaggio, si tolsero dalla tasca la pistola appoggiandola sulla moviola come faremmo oggi con un telefono cellulare. Dico questo, per farvi capire quale fosse il clima dell’Italia in quegli anni. Alla fine della proiezione, ci fecero i complimenti limitandosi a chiederci di fare solo qualche taglio del tutto irrilevante. Dopo aver rassicurato il nostro capostruttura, prenotammo la sala di proiezione di viale Mazzini per la presentazione alla stampa del programma: un’inchiesta senza precedenti. Anche per questo la mattina dell’anteprima c’erano duecento persone: parenti dei detenuti, secondini, funzionari e giornalisti di tutti i quotidiani. Quel giorno, alla stessa ora, avevo appuntamento con un consigliere d’amministrazione che quindici anni dopo diventò Presidente della Rai: Roberto Zaccaria. Mentre parlavamo ricevette una telefonata. Lo informavano che l’inchiesta di Rebibbia era stata censurata su richiesta del capostruttura: una decisione avallata dal Direttore di Rete e dal Direttore Generale.
Il giorno dopo scoppiò il putiferio. Fui svegliato al mattino presto da Radio Radicale che chiedeva spiegazioni, tutti i giornali diedero in prima pagina la notizia della censura e riportarono il resoconto dell’inchiesta. Ancora una volta, Siniscalchi e io, senza scomporci, cercammo di correre ai ripari. Mentre imperversava la protesta, ci facemmo ricevere dal presidente della Camera Nilde Iotti. La Rai, infatti, sulla base di una sentenza appena emessa dalla Corte Costituzionale, non dipendeva più dal Governo ma dal Parlamento. In quel caso, la Iotti prese una decisione senza precedenti: impose alla Rai di mettere a disposizione per 48 ore una sala di proiezione per consentire ai deputati, di giudicare se la Rai aveva fatto bene o male a censurare il programma. I parlamentari si presentarono in massa: tra questi anche leader importanti di diversi partiti. Ricordo Almirante, Pecchioli, Violante e tanti altri. All’ingresso della Rai, non potendo entrare, una pletora di giornalisti si dispose ai lati del cancello per raccogliere le dichiarazioni dei deputati. Tutti, indistintamente, giudicarono l’inchiesta coraggiosa, a tratti dura, ma assolutamente corretta. A quel punto il partito comunista chiese le dimissioni del direttore Generale che aveva consentito la censura. Io e Siniscalchi finimmo davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza dove subimmo un brutale attacco da parte di Martelli che parlò in difesa del vertice aziendale. Il clima si era fatto pesante, la commissione decise di aggiornarsi riguardo alla richiesta di dimissioni del DG. Alcuni giorni dopo, mentre tornavo a casa a tarda notte, comprai il Messaggero. In prima pagina lessi con sgomento che: “Gli autori dell’inchiesta sulle carceri erano indagati come mandanti morali dell’omicidio di un’infermiera di Rebibbia”. Nell’articolo si faceva riferimento a un episodio accaduto alcune settimane prima: un gruppo terroristico aveva sequestrato un’infermiera della sezione femminile di Rebibbia, l’avevano sottoposta a “un processo proletario” e giudicandola “colpevole” l’avevano uccisa.
Dal verbale dell’interrogatorio risultava che era accusata di aver fatto morire per negligenza una detenuta per droga, in crisi di astinenza. Il legame con la nostra inchiesta stava nella dichiarazione di un giovane detenuto. A una nostra domanda su chi fosse la ragazza raffigurata in una fotografia incollata alla parete della sua cella, rispose: «Era la mia fidanzata, anzi lo era, perché è morta durante il ricovero nell’infermeria del carcere». Il giudice aveva considerato quella denuncia una possibile istigazione al delitto. Da qui l’apertura di un’indagine nei nostri confronti e il sequestro da parte della Polizia giudiziaria di tutte le riprese filmate, dei nastrini audio e anche degli scarti della pellicola. L’accusa era evidentemente surreale, tenuto conto che il programma era stato visto solo dai critici televisivi e dai parlamentari, ma questo bastò per rafforzare la linea di difesa del Direttore Generale in Commissione parlamentare. Si disse, infatti, che la censura era stata giusta e previdente tant’è che se l’inchiesta fosse andata in onda la nostra responsabilità sarebbe stata ancora più grave. Alcuni giornali avanzarono l’ipotesi che qualcuno avesse imbeccato il giudice per salvare il Direttore Generale. Fatto sta che non fummo neanche interrogati e poco dopo l’indagine si concluse con l’archiviazione. A quel punto chiedemmo alla Rai di farsi restituire i filmati sequestrati ma i dirigenti dell’epoca se ne guardarono bene. Così la nostra inchiesta finì al macero, distrutta. Con questo episodio si concluse di fatto l’esperienza del gruppo di “Cronaca”. Fortunatamente, negli anni successivi, ricoprendo la carica di Direttore di Rai Educational, riuscì a realizzare una collana Dvd comprendente una ventina di inchieste a testimonianza di un modo originale – e purtroppo rimosso – di fare inchiesta giornalistica con la diretta partecipazione dei protagonisti delle realtà sociali: operai delle grandi fabbriche e malati mentali; contrabbandieri di sigarette e imprenditori; femministe e studenti; terremotati e disoccupati.
Da allora le cose sono totalmente cambiate. La figura del giornalista che si immerge nella realtà per coglierne le dinamiche e la complessità è pressoché scomparsa; nei palinsesti l’inchiesta giornalistica e il documentario sociale sono stati sostituiti dai talk show. L’informazione si è ridotta a una passerella di opinioni. Il giornalista di successo non è più il reporter che cerca la verità addentrandosi nei fatti ma il conduttore-domatore che aizza i politici di turno: «Adesso ruggisci tu, adesso stai buono, fai ruggire gli altri!». Quando fa una domanda a un politico, la replica inizia sempre allo stesso modo: “Prima di rispondere vorrei dire che…», e sciorina il suo comizio. Poi, se la domanda era imbarazzante, si guarda bene dal rispondere. Nel giornalismo anglosassone il giornalista, se non riceve una risposta adeguata, ripete anche dieci volte la stessa domanda!
Tra i talk show politici e le trasmissioni sportive non c’è ormai alcuna differenza: si discute sul nulla, è il trionfo dell’opinione. La realtà sociale appare saltuariamente sotto forma di schegge, buone solo per rinfocolare la polemica nello studio televisivo. Oppure viene presentata attraverso i sondaggi, ridotta a numeri, a pura, astratta virtualità. Di conseguenza nessuno più sa che cosa accade veramente in Italia. Nemmeno i politici: infatti, i partiti perdono milioni di voti alle elezioni.
Il giornalista, nella grande maggioranza dei casi, preso dal vortice dello scoop quotidiano, perde il senso della realtà. C’è la dichiarazione di Tizio, quella di Caio, corri di qua, corri di là. Sono tutti alla ricerca del retroscena, dell’inciucio. Ma fare cronaca significa innanzitutto comprendere il senso di quanto accade ricostruendo il contesto all’interno del quale i fatti accadono. Se non si colgono questi nessi, il fatto di cronaca è di per sé insignificante.
Per non parlare di un genere di giornalismo che definirei “molesto”; quello dei cronisti specializzati nel tampinare i leader di partito per estorcergli qualche mugugno o semplicemente per provocarli: un’abiezione!
Vi sono poi coraggiose trasmissioni d’inchiesta come Report, che denunciano il malaffare, la corruzione imperante nelle sfere del potere politico ed economico. Questo è un genere di giornalismo che scava nella realtà seguendo il metodo tradizionale di fare inchiesta, qualcosa di simile al lavoro dei magistrati e della polizia: potremmo definirlo un “giornalismo d’autore” mentre quello del gruppo “Cronaca” era piuttosto un giornalismo in cui i protagonisti dei fatti erano anche coautori dell’inchiesta che li riguardava. (andrea bottalico/davide schiavon)
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