Nella primavera del 1968 Maria Antonietta Macciocchi torna a Napoli in vista delle elezioni politiche di maggio. Sono passati più di vent’anni dall’esperienza come segretaria del Comitato per la salvezza dei bambini di Napoli presieduto da Giorgio Amendola nell’immediato dopoguerra. Nel frattempo Macciocchi ha diretto i settimanali Noi Donne e Vie Nuove, è stata inviata in Algeria e corrispondente da Parigi per l’Unità. Il suo percorso, compresa l’esperienza come dirigente femminile, si è svolto tutto all’interno del Pci. E il partito, soprattutto per volere di Luigi Longo, la candida alla Camera dei deputati nella circoscrizione Napoli-Caserta, la stessa di Amendola e Napolitano. In pochi giorni Macciocchi lascia Parigi, le conferenze stampa di De Gaulle all’Eliseo, le assemblee operaie alla Renault e si ritrova sul palco del cinema Metropolitan di Napoli, dove i candidati comunisti vengono presentati ai militanti.
“Una sola idea mi martella la testa – scrive Macciocchi a Louis Althusser –: è possibile servirsi di una campagna elettorale per ‘scoprire ciò che accade nel popolo’? Ebbene, se così è, riprendiamo il progetto che formulammo a Parigi: raccontare a te, filosofo comunista, le mie esperienze politiche dirette. […] Può avere ‘interesse’ una corrispondenza-dialogo tra un filosofo che lavora alla ricerca teorica marxista più rigorosa e una comunista che sta in mezzo alla realtà della lotta, nella battaglia politica, e in una situazione oggettiva specifica? Tu mi hai insegnato che la filosofia marxista si nutre di politica come del pane, e che non c’è teoria rivoluzionaria senza lotta di classe”.
L’inaspettata candidatura diventa per Macciocchi l’occasione per indagare sullo stato della città e su quello del partito, proprio nel momento in cui questo “dispiega tutta la sua forza, tutta la sua tensione, tutta la sua capacità di influenza nella società”. L’esplorazione dura settanta giorni – il tempo di una frenetica campagna elettorale che la conduce dai quartieri popolari del centro fino ai sobborghi operai e contadini – e prende fin dall’inizio la forma dello scambio epistolare. Il suo interlocutore è il filosofo francese Louis Althusser, al quale Macciocchi si è avvicinata negli ultimi tempi del soggiorno parigino e di cui pubblicherà un’intervista sull’Unità proprio nei giorni della partenza per Napoli. Dal dialogo a distanza con il filosofo, Macciocchi s’attende una supervisione ideologica e di metodo, ma anche una revisione critica dei compiti e della strategia del partito. “Le impressioni sono importanti ma quel che conta sono i fatti”, le raccomanda il filosofo, prescrivendo l’utilizzo di dati e statistiche, ma anche l’ascolto attento delle persone. “Le donne sanno cose capitali sulle condizioni di vita materiale – le scrive –. Tu sei una donna, approfittane. Vai per ascoltare, per apprendere. La linea di massa è partire da quel che le masse hanno nella testa”.
All’inizio quello tra Macciocchi e Althusser è uno scambio privato, ma la voce del filosofo, per ragioni di salute, verrà presto soppiantata dai resoconti della Macciocchi – più orientata verso una scrittura “pubblica” – che gli consegnerà gran parte delle lettere in un’unica soluzione, a campagna elettorale conclusa. Il libro, Lettere dall’interno del PCI a Louis Althusser, esce in Italia nel ’69 per Feltrinelli, suscitando non poca irritazione negli ambienti di partito, sia a Napoli che a Roma, dove Natta stronca il libro in un articolo su Rinascita. In Francia Althusser concorda l’uscita con l’editore Maspero, ma poi decide di ritirare le proprie lettere, richiamato all’ordine dal partito francese, in difficoltà dopo la rivolta degli studenti, e su cui, secondo Macciocchi, il Pci avrebbe esercitato pressioni. Le lettere di Macciocchi, senza quelle di Althusser, usciranno comunque per Maspero nel 1970.
COMIZI-INTERVISTA
I primi comizi le vengono assegnati nelle zone popolari del centro. L’impatto è traumatico. Preceduta da un camioncino del partito che trasmette prima Bandiera rossa e poi un documentario contro la politica della Nato, la candidata si trova davanti uditori composti da bambini che schiamazzano ai piedi del palco e si avventano su volantini e opuscoli, respinti a scappellotti dai militanti che la accompagnano. Le donne osservano dall’alto, affacciate ai balconi o dietro le finestre. Gli uomini non fanno parte della scena.
In questi quartieri, nota Macciocchi, la campagna elettorale è fondata su un completo distacco dalla vita reale. I suoi stessi discorsi sono incentrati sulla politica estera, ma nessuno sa, per esempio, cosa stia accadendo in Vietnam in quel momento. E nemmeno cosa sia, il Vietnam. Una donna, che ha il fratello che lavora alla Nato, domanda: se va via la Nato – come reclamano le scritte che legge sui muri – chi darà da mangiare a suo fratello?
Dopo gli iniziali insuccessi, la candidata Macciocchi s’inventa i comizi-intervista: microfono in mano, invita le donne a scendere dai balconi, a uscire dai bassi, le fa sedere in circolo, fa girare il microfono, le fa parlare. Lo stratagemma funziona. Il compito della propagandista diventa allora quello di rompere le barriere, le riserve, i silenzi di chi ha di fronte. Parlare di se stessi è già un atto di rottura. “Le domande più semplici suscitano un’eco – scrive –, un riflesso spontaneo di risposta, mentre le più complesse restano per aria, irrisolte”.
Macciocchi ricostruisce le biografie minime delle sue interlocutrici: domestica, sette figli, marito disoccupato; lavandaia, cinque figli, marito falegname, ma attualmente disoccupato. Tutte le donne hanno moltissimi figli. Napoli, in quegli anni, è la città con il tasso di natalità più alto d’Italia: cento nati al giorno, quasi il doppio della media nazionale. Ma anche il tasso di mortalità è il più alto, del settanta per mille. L’ottantasei per cento delle donne partorisce in casa, una su quattro non si fa mai visitare da un medico durante la gravidanza. Ma non è l’ignoranza la causa di tanta prolificità, la mette in guardia Althusser. E non serve introdurre nel dialogo il tema degli anticoncezionali. Basta fare le domande giuste per capire i motivi che spingono quelle donne a fare tanti figli: gli assegni e i sussidi alle famiglie numerose; il lavoro dei figli, che dagli otto-nove anni contribuiscono all’economia domestica; il mito della virilità del maschio, che si diffonde nel quartiere anche attraverso la numerosità della prole. Ma il dato decisivo, che non si rintraccia nei censimenti ma solo ascoltando le storie delle persone, è che gran parte di loro non sono semplici casalinghe, bensì lavoratrici a domicilio sottopagate. Cuciono le tomaie delle scarpe, i guanti, gli ombrelli, i pantaloni. Percepiscono un salario cinque volte inferiore a quello di una operaia dell’industria. Non godono di indennità, assicurazione, previdenza sociale. Non sono iscritte al sindacato, perché del datore di lavoro non conoscono nemmeno il nome. I guanti che a loro sono pagati dieci lire vengono rivenduti a Parigi o Bruxelles a cinquemila lire al paio.
Il lavoro femminile è ignorato da tutti, come una voce implicita dell’economia familiare. Le statistiche ufficiali considerano come forza-lavoro solo occupati e disoccupati, ma le lavoratrici sottopagate e senza diritti sono migliaia. Le guantaie, circa cinquemila, sono le più numerose. Cancellate dalla mappa sociale ed economica, queste donne scompaiono anche come soggetto politico. Molti nel partito, nota Macciocchi, sono assuefatti alla miseria che li circonda. Questo impedisce di mettere in relazione la classe operaia con il proletariato marginale. Le alleanze vengono ricercate sempre al vertice, con i partiti o con gli intellettuali. Agli strati popolari si dedica un’attenzione meramente assistenziale.
ARRIVANO I CINESI
In realtà c’è molto di più. Dalla frequentazione degli ambienti di partito, emerge la stretta relazione tra lo stato di subalternità degli strati popolari e certe pratiche di bassa politica che – inaspettatamente ai suoi occhi – accomunano il modo di fare dei comunisti a quello degli altri partiti. Il deputato o il consigliere, scrive Macciocchi, sono ormai dei mandatari che sbrigano presso il governo centrale le pratiche degli abitanti dei quartieri popolari: pensioni, assistenza, ricerca di un lavoro, di una casa. Il deputato riceve il voto per aprire a Roma una sorta di ufficio di rappresentanza del vicolo. La sua appartenenza politica è irrilevante. Il deputato ha una sua clientela che passa sulla testa dello stesso partito, perché con i suoi elettori non ha un rapporto politico ma di lavoro, “come uno che apra un commercio”. Il dibattito nel partito si esaurisce nella disputa su chi debba entrare in lista e chi no. Le strategie politico-elettorali passano in secondo piano. Le liste vengono discusse per mesi, mentre il partito resta paralizzato. Ai dirigenti dell’apparato centrale e delle grandi sezioni spetta comunque l’ultima parola.
In contrapposizione a questa deriva, Macciocchi rievoca il “partito nuovo” di Togliatti, il partito di massa nato dalle ceneri della vecchia avanguardia forgiata dallo stalinismo, che alla fine della guerra accoglieva a braccia aperte le forze nuove, i giovani in particolare. Macciocchi, classe 1922, appartiene alla generazione piccolo-borghese vissuta a Roma sotto il fascismo, che nel momento decisivo diventa resistente e partigiana. La prospettiva socialista era un miraggio già allora, si parlava piuttosto di “democrazia progressiva”, da espandere gradualmente.
Togliatti era morto quattro anni prima, nel 1964, ma il partito non era più nuovo da tempo. Anzi, più d’una volta, nel corso della campagna elettorale, le era sembrato vecchissimo, plasmato dagli influssi peggiori provenienti dall’esterno, incapace di fare politica, slegato dal movimento reale della società. Quando Macciocchi scrive il suo diario di campo, la rivolta delle nuove generazioni è in corso da mesi. Sulle bocche degli studenti sono rinate parole d’ordine scomparse dal lessico del partito: rivoluzione, borghesia, classe operaia, proletariato. I giovani discutono della rivoluzione culturale cinese, del Sudamerica, del Vietnam, ma nel partito sono guardati con sospetto da chi detiene posizioni di potere. I dirigenti, fedeli per antonomasia alla “linea del partito”, sono al riparo da ogni critica. I giovani rompono la burocratizzazione, le liturgie interne, i metodi antidemocratici. Se ne infischiano delle elezioni e della composizione delle liste. Per metterli in disparte si dice che sono immaturi, che devono fare esperienza. In federazione o nelle sezioni Macciocchi incontra ragazzi incuriositi da una donna che “parla come un uomo” e che rompe il vecchio schema della subordinazione femminile. Molte sezioni di periferia, annota Macciocchi, registrano in quei mesi una “secessione cinese”.
Il partito si difende con formule vuote – “la gioventù non è un fatto anagrafico”, “ci si trasforma restando uguali”, “rinnovamento nella continuità” –, slogan che rivelano solo una tenace resistenza al mutamento. Eppure, a scorrere i risultati elettorali di Napoli città, la crescita del partito è costante nel tempo, dai 30 mila voti del ’46 ai 150 mila del ’63. Sono numeri destinati a crescere negli anni successivi. Il Pci diventa il primo partito in città nel biennio ’75-76, conquistando anche il Municipio, ma questo non cancella i segnali di ripiegamento, di inadeguatezza rispetto alle domande radicali che in quegli anni emergono con forza crescente dagli strati storicamente subalterni della società napoletana, segnali che la candidata-giornalista registra meticolosamente nel suo pur breve soggiorno.
CONTRO I “SUDOCRATI”
Il comitato per la salvezza dei bambini nel ’46, scrive Macciocchi, aveva dimostrato “quante potenzialità venissero sperperate nel sud”, ma da allora il tempo sembra essersi fermato, ed ecco che oggi “miriadi di bambini giocano nell’immondizia, sono azzannati dai topi, non conoscono la scuola che fino alla seconda o terza elementare e vendono la loro gracile forza-lavoro a meno di dieci anni”. Dopo il declino di Lauro, i nuovi potenti si stringono intorno alla figura di Silvio Gava, che ha travasato i quadri laurini e monarchici nella Dc, offrendo in cambio posti di potere pubblico. Come Lauro, anche la famiglia Gava fonda il proprio potere sui legami clientelari, ma al contrario del sindaco monarchico, che puntava tutto sulla propria figura e sulla contrapposizione degli interessi cittadini con quelli del nord Italia, il senatore Silvio, di origini venete ma con base a Castellammare di Stabia, diluisce il comando tra familiari e fedelissimi, lavorando per coniugare gli interessi degli imprenditori locali con le strategie degli enti statali, in particolare quelli che si occupano del Mezzogiorno.
“Qui ognuno è solo, nessuno lavora in gruppo. Non c’è l’abitudine intellettuale e sociale all’incontro, alla discussione. Finito di lavorare, nella politica o nelle professioni, ognuno si ritrae dalla vita collettiva, e si chiude nella sua monade personale”. Molti scrittori e intellettuali, scrive Macciocchi, si sono lasciati integrare pensando di porsi all’avanguardia dei tempi nuovi. I “sudocrati”, li definisce, riferendosi al gruppo raccolto intorno alla rivista Nord e Sud. Per loro la questione meridionale è superata. L’industrializzazione è il destino di Napoli, con l’Alfasud che impiegherà quindicimila operai. Il rischio di creare un grande bacino clientelare a disposizione dei partiti non viene preso in considerazione. Intanto in città si va accentuando il peso del terziario, ormai pari come addetti al settore industriale. Una miscela di sviluppo e arretratezza in cui il ruolo anticapitalistico degli emarginati – donne, giovani, sottoproletari – dovrebbe rompere, secondo Macciocchi, il meccanismo di sfruttamento e accumulazione.
A Napoli la sua campagna è imperniata sul ruolo-guida della classe operaia e sulle alleanze “con i sottoproletari” (su cui però “c’è un grande silenzio”) e con i giovani; sulla denuncia delle disperate condizioni del popolo e contro l’ottimismo dei sudocrati, che parlano di Napoli come California del meridione e lasciano intendere che chi si attarda a descrivere la miseria va considerato come un relitto del passato. Gli stessi compagni, nota Macciocchi, credono che scriverne in un articolo voglia dire “umiliare il grado di coscienza delle masse”.
Il ventre di Napoli, il libro di Matilde Serao sugli effetti degli sventramenti ottocenteschi, è invece l’unico modello ancora possibile per la denuncia. Se il “paravento” della Serao erano i palazzi del Rettifilo, che nascondevano la miseria alla vista dei passanti, il nuovo paravento sono gli edifici dei Colli Aminei, le scatole di cemento armato del Rione Traiano, di Marianella, Barra, Piscinola che portano con sé il marchio del sottosviluppo e somigliano tanto alle baracche da cui provengono i loro abitanti, con intorno il vuoto di infrastrutture, servizi, scuole, giardini, occasioni di lavoro.
A Napoli la priorità, sostiene Macciocchi, dovrebbe essere l’alleanza degli operai delle industrie con i sottoproletari, che sono tanti e combattivi, e nelle sezioni del centro costituiscono la forza trainante del partito. Ma nessuno, “malgrado la sua classicità marxista”, prende in esame l’ipotesi. “Cerco di esprimermi con il maggior scrupolo possibile, e dico che, a Napoli, si ha l’impressione che l’operaio sia un individuo malinconico, e che quella fierezza che possiede nel Nord, o in altre grandi fabbriche d’Europa, qui ceda il passo alla tristezza, e ai ‘complessi’, che egli non si colleghi agli altri cittadini, i napoletani che non lavorano, che ne sia come isolato, come chiuso in un altro universo. Non parlo tanto per i grandi centri industriali – Castellammare, Bagnoli, Pozzuoli – che hanno una loro compattezza sociale, né per i centri in provincia, quanto dell’operaio che rientra e vive in città, dentro la cinta periferica dei quartieri, o addirittura nel ‘ventre’”.
L’unico centro di vita politica che il partito possiede è la sezione. Non esistono più cellule di strada, e soprattutto di fabbrica. Tutti i problemi della lotta operaia sono delegati ai sindacati, spesso considerati troppo arrendevoli dagli stessi operai. Così l’unico dialogo possibile con questi ultimi non può che avvenire davanti alla fabbrica, all’alba, prima dell’entrata, perché nell’ora della mensa nessun compagno ha l’autorità per introdurre un candidato, mentre i sindacalisti considerano la prassi come “politica” e si rifiutano di avallarla.
Eppure il 25 aprile ’68 Macciocchi viene invitata a fare un comizio a Castellammare, che è il feudo dei Gava ma è anche una città operaia di settantamila abitanti, con alcune fabbriche metallurgiche e con il cantiere navale che dà lavoro a duemila persone. Un microcosmo lontanissimo dal centro di Napoli, che si raccoglie intorno ai suoi leader, come il calafato stabiese Saul Cosenza o il capo dei marittimi di Torre del Greco, Aniello Cuciniello. “Io avvertivo di trovarmi in un altro universo – scrive Macciocchi –. Era scomparso il “plebeismo”, non solo, ma mancava ogni sbavatura retorica: tutto diventava ordine, efficienza, tutto camminava a dovere; dal microfono che finalmente funzionava, alla presentazione degli oratori, alla stringatezza asciutta di coloro che mi avevano preceduto, prendendo la parola prima di me”.
Lo scandalo suscitato del libro della Macciocchi, ma anche l’interesse che conserva a cinquant’anni dalla sua pubblicazione, sono il frutto di un paradossale corto circuito tra un punto d’osservazione arretrato rispetto ai mutamenti in corso, quello “dall’interno del Pci”, e un approccio curioso e costruttivo, a tratti quasi ingenuo, verso il contesto in cui il partito l’ha “paracadutata” dopo vent’anni di assenza. Quel che vede Macciocchi – con uno sguardo nutrito dai soggiorni all’estero e dal contatto con ambienti politici e intellettuali “rivoluzionari” – è, in realtà, da tempo sotto gli occhi delle forze sociali più avanzate della città, dai gruppi di volontari di origine cattolica che hanno scelto la vicinanza con gli abitanti delle baraccopoli (e poi delle periferie), agli studenti che non hanno atteso il ’68 per ribellarsi contro l’autorità e il malaffare istituzionale, e che finalmente mettono alla prova, in piena autonomia, nuove forme di azione politica. E se l’attivismo degli anni Sessanta riguarda ancora cerchie ristrette, la mobilitazione giovanile crescerà di numero e di ambizione già alla vigilia del ’68, per poi espandersi verso ambiti anagrafici, sociali, territoriali sempre più ampi, sebbene caratterizzata da una costante difficoltà a influire sulle scelte che riguardano le trasformazioni di fondo della città.
Il Pci otterrà nelle elezioni del maggio ’68 un’ulteriore crescita a livello nazionale, dal 25,3% al 26,9%, guadagnando oltre 800 mila voti. A Napoli il partito farà un balzo in avanti, sfiorando il 30% dei voti. Maria Antonietta Macciocchi, contro ogni previsione, verrà eletta deputata con circa 20 mila voti di preferenza. Nella successiva tornata, quattro anni dopo, non verrà ricandidata. La differenza di vedute con il partito crescerà di anno in anno facendosi sempre più esplicita, fino all’espulsione arrivata nel 1977. (luca rossomando)
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