Domenica mattina, coda del ponte dell’Immacolata. Attraversare via Tribunali è come guadare un fiume di correnti indomabili. Turisti con le antenne da renne di Babbo Natale, iPad branditi a ogni angolo, una distesa di carte a terra. Babà e bordello, faccio slalom tra le casacche fluorescenti e immobili della polizia municipale. Qualche sera fa, su Rai 3, ho visto una bella puntata de I dieci comandamenti a cura di Domenico Iannacone, intitolata ironicamente “Viva Venezia”. Raccontava di una città invasa, svenduta, sventrata dal turismo di massa, quello “vieni, consuma e scappa”. La seconda parte di via Tribunali è un’isola di pace. Negozi aperti, gente per strada. Una normale domenica mattina, sotto le feste. Cammino quasi fino al Tribunale vecchio e mi fermo poco prima sulla destra, davanti a un grande portico con alcune bandiere. L’ex Ospedale di Santa Maria della Pace. All’interno, un folto gruppo di persone: adulti, bambini, ragazzi. Tutti napoletani, molti del quartiere, riuniti per un’occasione speciale. Paola Filardi, archeologa pasionaria, esperta di storia antica e «prestata al sociale» da circa due anni con la sua associazione culturale Agorà, organizza il VascioTùr, tour archeologico itinerante con incursioni teatrali nel quartiere di Forcella. Quando arrivo, sta parlando della figura antichissima del femminiello napoletano. Una leggenda del 1256 narra di due ragazzi che, scoperti insieme, per punizione furono legati a un albero nel bosco di Montevergine e abbandonati a una fine di stenti: la Madonna nera, oggi venerata da tutta la comunità Lgbt, li liberò. Ancora prima, al posto del monastero mariano, vi era il tempio dei preti eunuchi di Cibele che, eviratisi per offrire il loro sesso alla grande madre nera, passati a nuova identità, si travestivano da donna e attraversavano i paesi in gaie processioni. Se guardiamo l’antichità, quelli col dono della divinazione – che riescono a guardare “oltre” – sono sempre stati in confine di genere, maschio e femmina insieme, a cominciare dall’indovino Tiresia.
I femminielli attraversano tutta la storia di Napoli, sempre benvoluti dal popolo, fino ad avere un ruolo fondamentale anche nelle Quattro Giornate, come ci ricorderà più in là Loredana Rossi, vicepresidentessa dell’Associazione Transessuale Napoli. Ora è una figura che va scomparendo, sostituita dall’industria della chirurgia estetica, ingoiata da un presente che dimentica le storie e i luoghi. Da qui, l’idea della Filardi di mettere in scena I figli di Adamo, una breve rappresentazione di alcuni episodi della letteratura legati ai femminielli, proprio nell’ex Ospedale della Pace, luogo fondamentale per l’accoglienza in questa città, oggi abbandonato e semi-sconosciuto. Entriamo nell’ex sala del Lazzaretto, separata dalle altre perché ospitava i lebbrosi. Tra gli affreschi seicenteschi, si erge un ballatoio che percorre lo spazio in tutto il suo perimetro: da qui i medici visitavano “autopticamente” (cioè guardandoli) i malati. Mentre ci sistemiamo al centro dell’enorme stanza, da una porta laterale fa capolino una piccola processione di figure in nero. «Uno, roie, tre e quatt/cinq’, sei, sett’ e otto». Sono alcune delle trans storiche di Napoli, Loredana Rossi, Gennaro Catena, Clementina Coppola, Carmen “ladybird” che, guidate dall’attore e regista Giuseppe Loffredo, sul tamburo di Enzo Tammuriello e corpo e voce di Arianna Cortese e la cantante neomelodica Anna Merolla, intonano le strofe scostumate e irriverenti da La Gatta Cenerentola di De Simone, a loro volta estratte dal Pentamerone di Giambattista Basile.
La seconda parte del lavoro avviene vicino a un antico letto a baldacchino, dove le trans, sempre a ritmo di tamburo, riprendono la figliata dei femminielli raccontata nel capitolo “I figli di Adamo” ne La pelle di Curzio Malaparte che dà il titolo allo spettacolo. Il pubblico, divertito ma anche incuriosito, ascolta con attenzione i ringraziamenti finali di Loredana Rossi che ci tiene a sottolineare che quest’anno l’Italia ha il triste primato del più alto tasso europeo per aggressioni e omicidi nei confronti di persone transessuali. Non è la prima volta che la Rossi e l’ATN partecipano ai tour teatrali di Agorà, cui prendono parte, come attori, molti abitanti – anche mamme e bambini – di Forcella che mettono in scena episodi storici, a volte recuperati intervistando gli anziani del quartiere. Dopo lo spettacolo, l’archeologa conduce il pubblico in un prezioso e partecipato tour dell’edificio, parte del quale normalmente è chiuso al pubblico. La storia dell’ex Ospedale della Pace affonda le sue radici nel Seicento, quando nacquero le grandi opere di assistenza sociale della città e la popolazione di Napoli era decimata dalla peste. Il palazzo in origine apparteneva a “Ser Gianni” Caracciolo, potentissimo ciambellano di corte del regno D’Angiò-Durazzo, amante della regina Giovanna che abitava di fronte all’ex Ospedale: per starle vicino, si fece costruire la sua casa qui. Dopo la sua morte, i padri della vicina chiesa di San Giovanni a Carbonara rilevarono l’edificio e ne fecero uno dei primi ospedali pubblici della città. La zona del lazzaretto era il centro nevralgico dell’accoglienza assieme all’Annunziata, gli Incurabili, l’Albergo dei Poveri. Dettaglio da non sottovalutare, l’Ospedale della Pace era specializzato in malattie veneree. Forcella, il borgo di Sant’Antonio Abate e Porta Capuana (detta “la cattedrale dei femminielli”) erano luoghi in cui si concentrava l’attività della prostituzione, tanto che nel 1781 i regnanti fecero costruire un cancello che delimitava tutta la zona di Porta Capuana e che doveva essere chiuso entro la mezzanotte. Il guardiano, chiamato “papà”, per avvisare i clienti che dovevano uscire dal quartiere, urlava: “Chi è dint’ è dint’ e chi è for’ è for’”.
L’ospedale, tra varie vicissitudini, è rimasto attivo fino a circa il 1970, quando si è trasferito a via Manzoni, diventando l’odierno Fatebenefratelli. Oggi parte dell’edificio è del Comune, che l’ha dato in gestione alla Quarta Municipalità: alcuni spazi servono per pratiche burocratiche ma molti restano vuoti. L’area più antica e nascosta, quella normalmente non visitabile, ha una storia diversa. Assegnata al Tribunale, da quando gli uffici si sono trasferiti al Centro Direzionale, la struttura è in stato di abbandono e “intoccabile” fino a quando la marea di faldoni giudiziari lasciati lì ad ammuffire non saranno spostati. L’ex Ospedale della Pace rientrava nel Progetto Unesco di riqualificazione del centro antico della città, ma ne uscì in seguito a una delibera del 2013 dell’assessorato all’urbanistica che stanziò sette milioni di euro per farne un grande museo e – attenzione – un centro benessere gestito da privati. Racconta la Filardi che durante le Quattro Giornate, gli scugnizzi assaltarono la Caserma Garibaldi, avamposto tedesco, e gettarono le armi rubate nei “formali” sotterranei che spuntano anche sotto l’Ospedale della Pace, dove arriva l’acquedotto greco-romano “della Bolla”. Si sa che questi sotterranei furono luogo di ricovero durante i bombardamenti che martoriarono Napoli prima della fine della guerra, ma non sono mai stati esplorati. Ascolto queste storie e guardo il cortile silenzioso, splendido e decadente, invaso dalla vegetazione. Penso che al ritorno taglio per Foria, perché un altro bagno di folla proprio non mi va. (francesca saturnino)
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