
La Dora è traccia da seguire per ritrovare un orientamento nella città. Lambisce fabbriche in abbandono, mercati di oggetti dismessi, il centro direzionale Lavazza, il nuovo campus universitario. Il fiume non segna un confine naturale, ma una frontiera dove ancora avvengono incontri e conflitti. Qui alcuni abitanti resistono agli sfratti, gli straccivendoli vengono allontanati dalle amministrazioni e una scuola di scrittura insegna ad apprendisti funzionari l’arte di manipolare il linguaggio. L’osservatore lungo le sponde del fiume può notare il dispiegamento del governo e la gestione dei marginali. Le esplorazioni sono parziali e frammentarie, perché non esiste un disegno o una ragione che domina, ma poteri sparsi che aspirano all’egemonia. Sembra a volte che queste forze – per quanto variegate – spingano in una medesima direzione, come rivoli d’acqua trascinati insieme nel corso del fiume. Eppure persistono i movimenti controcorrente.
Riproporremo nei prossimi giorni alcuni degli articoli dedicati alla questione, pubblicati sul nostro sito.
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Lungo la Dora. Come muore l’urbanistica pubblica
È un giorno di giugno e sono al Parco Dora, là dove un tempo la Fiat aveva le ferriere. Lo scheletro in metallo e cemento del vecchio impianto appare come un’antica foresta fossile, il rosso rugginoso dei piloni degli altiforni sovrasta un campo da calcio, una rampa da skate, una rete da tennis, due canestri; più in là, oltre gli alberi, appaiono i profili delle torri di raffreddamento. Tra i resti dell’industria torinese ho incontrato uomini in tenuta da corsa, studenti evasi dalla scuola, un padre che allena il bambino con il pallone. Accanto scorre la Dora: il fiume arriva dalle montagne lontane, attraversa la città fino al parco della Colletta e sparisce nel Po.
Un anno fa ho osservato una mappa che evidenziava i flussi di voto del ballottaggio per le elezioni comunali: la lista di Piero Fassino aveva ottenuto la maggioranza nei quartieri del centro e sulle colline oltre il Po, mentre i colori di Appendino cingevano la città come una corona periferica. Le analisi dei risultati elettorali si sono soffermate sui sentimenti e i bisogni dei quartieri lontani dal centro e il principale giornale cittadino ha titolato: “La rivincita delle periferie”.
La vittoria di Appendino sarebbe il segno del malumore di chi abita in periferia, la reazione a decennali politiche elaborate dagli ambienti dirigenziali arroccati nel cuore della città. Mi chiedo cosa siano il centro e la periferia: sono forse metafore, oppure sono aree esistenti con confini e linee di separazione? Lungo la Dora, la demarcazione si scompone in rarefazione. Il fiume lambisce un’area di frontiera: non ancora centro, non del tutto periferia, ma territorio di conflitti, passaggi e contraddizioni. Così ho deciso di uscire da casa per esplorare la Dora, dal parco dei resti industriali sino alla foce.
Accanto al Parco, lungo entrambi gli argini del fiume, s’innalzano palazzine residenziali. Sembrano torri di controllo silenziose: non guardano dalla mia parte, ma si voltano ripiegate verso il loro interno. Tra i blocchi di abitazioni sorge la cittadella edificata da Novacoop: una piazzetta senza aperture, recintata da edifici in vetro e mattoni. Vi si affacciano un fast food, una libreria, un cinema multisala, una bottega biologica, una steak house, una boutique e il vasto centro commerciale Coop. Ponti sospesi collegano i vari livelli della cittadella commerciale e gli altoparlanti diffondono musica latina in voga. Al Parco Dora la riqualificazione del paesaggio industriale si è avviata alla fine degli anni Novanta.
In un saggio del 2016 Guido Montanari, docente di storia dell’architettura presso il Politecnico di Torino, scrive che il quartiere “non riesce a porsi come punto nodale di una ritrovata socialità. Questo è avvenuto perché la pianificazione urbanistica dell’area ha coinvolto in primo luogo gli investitori privati – come Novacoop – che hanno privilegiato i loro interessi su quelli pubblici. Si è affermata a Torino una visione dell’urbanistica sottomessa alle proposte di investitori e proprietari privati attratti da notevoli profitti, come risorsa per fronteggiare la crisi del bilancio comunale”. Dalla scorsa primavera Guido Montanari è vicesindaco e assessore all’urbanistica di Torino.
La nuova giunta, alla fine dell’ultima estate, ha presentato ai cittadini un programma di politiche urbanistiche: “Azioni per le periferie torinesi”, o “AxTo”. Il piano intende promuovere interventi diffusi, frammentati in piccole azioni di aggiustamento e recupero. La pagina relativa al Parco Dora dichiara che “fin dall’inizio della riqualificazione complessiva, la sinergia della Città con investitori privati è stata significativa: infatti il grande centro commerciale, oltre che la nuova sede della Curia Vescovile di Torino, sono stati finanziati da operatori economici privati. Senza tale virtuosa sinergia, fortemente voluta dalla Città, non sarebbe stato possibile riqualificare un territorio urbano tanto vasto e diversificato”.
Mentre il fiume scorre accanto, penso alla mia recente intervista al vicesindaco. Ho chiesto a Montanari se il documento sulle periferie non contraddica le valutazioni espresse in precedenza. «Rivendico tutto quello che ho scritto prima di ricoprire il mio ruolo – ha risposto Montanari – e non ho cambiato idea dopo essere diventato assessore. Purtroppo siamo in una situazione culturale in cui non è semplice cambiare il giudizio sull’intervento urbanistico e renderlo condivisibile. Il documento di AxTo esce dagli uffici della città: ci sono inerzie e abitudini degli uffici che lentamente possiamo modificare».
Secondo Montanari la giunta si sta impegnando a una revisione del piano regolatore generale affinché la «pianificazione urbana sia uno strumento di redistribuzione sociale della ricchezza». Poi il vicesindaco ha ribadito che «alcune sinergie tra pubblico e privato sono del tutto ragionevoli; noi dobbiamo mettere i paletti giusti e ricondurre il legittimo interesse del privato a un interesse pubblico». Ho lasciato il parco e sono sul ponte: vedo un albero di ciliegio invaso dai rampicanti, ma i rami che sporgono sull’acqua sono carichi di rossi frutti selvatici.
Oltre il ponte la Dora sprofonda in un antro di morte: “tombatura” è il termine tecnico. Il fiume fu coperto per consentire alle ferriere di estendere l’area di produzione. Sopra la crosta di cemento appare una terra in abbandono cintata da transenne, solo corvi neri possono superare le barriere. Eppure l’udito attento coglie il fruscio del fiume che scorre sotterraneo. La Dora vede di nuovo il sole poco più avanti, vicino al ponte della Spina. La Spina, un nastro di territorio che percorre la città da sud a nord, è l’esito urbanistico del piano regolatore del 1995: dove c’era il passante ferroviario ora sorgono un’arteria stradale, volumi verticali di alloggi, due grattacieli e una nuova stazione di vetro. Dal fiume osservo, immerso nell’afa, il profilo del grattacielo di Intesa San Paolo disegnato da Renzo Piano. Mi volto e leggo uno striscione che occhieggia alle auto in corsa sulla Spina: “Contro chi guadagna sulla nostra pelle. Atc, banche, palazzinari”. Seguo il corso della corrente e mi oriento osservando la mongolfiera di Borgo Dora: in questa stagione veste una pubblicità di biscotti al cioccolato. (continua a leggere…)
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