Le ultime vicende politiche in Francia confermano quanto le consultazioni elettorali funzionino soprattutto come fatti allucinatori sociali.
Abbiamo avuto la fortuna di vivere una sequenza di sedizioni popolari con l’agitazione contro la legge sul lavoro (voluta da un governo di sinistra) nella primavera del 2016, seguita dalla lotta contro il progetto dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, poi nella primavera del 2018 la difesa della Zad attaccata e infine con il movimento dei Gilet Gialli, da novembre 2018 a maggio 2019 (tutto ciò sotto il molto impopolare presidente Macron).
Questa escalation si è interrotta dapprima con la spettacolare epidemia di Covid-19 e il regime biopolitico che l’ha accompagnata dalla primavera del 2020 a quella del 2022. Poi, nella primavera del 2023, le manifestazioni massicce contro la legge che innalzava l’età pensionabile a sessantaquattro anni, che parevano annunciare una nuova ondata di rivolte e si sono rivelate invece l’ultima sconfitta dei lavoratori sotto la direzione delle burocrazie sindacali – non si era mai vista così tanta gente nelle strade per ottenere così poco! Per completare questo ritorno all’ordine, c’è stata la vittoria del sindacato-mafia Fnsea nell’autunno del 2023 che, come interlocutore privilegiato di un governo completamente dedito all’ideologia produttivista, è riuscito a trarre vantaggio dai blocchi stradali organizzati dagli agricoltori. In altre parole, gli ultimi quattro anni hanno interrotto la spinta insurrezionale dei quattro anni precedenti. In queste condizioni, l’espressione del malcontento è stata inevitabilmente ricodificata secondo i paradigmi istituzionali, al ritmo del calendario elettorale. Le elezioni europee del 9 giugno scorso ne hanno fornito l’occasione, rivelando tutta l’estensione della miseria politica.
Se lo spettacolo di un’imminente presa del potere da parte del Rassemblement National (RN) dopo la dissoluzione dell’Assemblea nazionale il giorno successivo al voto europeo si è risolto con la neutralizzazione reciproca di destra, centro e sinistra, la minaccia è solo sospesa fino alle prossime elezioni – tanto più che il RN, sebbene al terzo posto dopo il Nouveau Front Populaire (NFP) e i macroniani di Renaissance, ha comunque raddoppiato il numero dei suoi deputati. Lo psicodramma elettorale sembra senza fine, perché da trent’anni spetta al Front National, divenuto Rassemblement, definire i temi prioritari nella sfera mediatico-politica.
In questa situazione, “fare da argine al FN” diventa l’imperativo categorico con cui la sinistra tenta a ogni consultazione di mobilitare un elettorato alquanto disgustato. In questo “nuovo” Fronte Popolare, di fronte a un Partito Comunista (PCF) ridotto a numeri degni di un gruppuscolo di estrema sinistra, a dei Verdi incolori e a un Partito Socialista (PS) ampiamente screditato, la France Insoumise (LFI) emersa a seguito di Nuit Debout nel 2016 poteva vantare un minimo di sintonia con “i movimenti” attraverso alcuni dei suoi militanti. E questo nonostante il loro leader, un ex trotzkista lambertista reso esperto dalla politica di partito – quattro decenni comodamente seduto nell’apparato dirigente del PS! –, non incarni esattamente la novità.
Se il programma del NFP rimaneva al di sotto di quello presentato da François Mitterrand alle presidenziali del 1981, conteneva comunque elementi in grado di attirare il voto delle classi inferiori, come l’aumento del salario minimo e il ritorno alla pensione a sessantadue anni. Tuttavia, se i quartieri popolari delle grandi città e soprattutto delle loro periferie hanno votato NFP, nelle città medie e nelle zone rurali, le persone comuni hanno votato in massa RN. Questo è stato evidente nel Nord-Pas-de-Calais, nella Picardia, nella Champagne Ardenne e nella Lorena, regioni lugubri sotto ogni aspetto dove ciò che poteva ancora fare società qualche decennio fa è scomparso; non rimane che l’amarezza e il rancore dei perdenti confinati in piccole città e villaggi desertificati e destinati alla disoccupazione e ai lavori umili.
A ciò si aggiunga, più classicamente, il voto di quella che un tempo si chiamava la piccola borghesia, che è sempre stata il terreno d’elezione dell’ideologia nazionale, per esempio i residenti delle zone residenziali che hanno divorato la campagna in Provenza e Linguadoca, per i quali i sobborghi poveri delle città costiere rappresentano un vero e proprio spauracchio. Al contrario, le colonie francesi hanno votato in maggioranza contro il RN e per il NFP: Martinica, Guadalupa, Reunion, Guyana e persino Saint-Pierre & Miquelon! La Nuova Caledonia, che ha conosciuto un’ondata di rivolta indigena poco prima del voto del 9 giugno, ha fatto lo stesso, tranne l’enclave di Nouméa, una vera e propria colonia di popolamento destinata a mantenere l’isola legata alla Francia. Resta il caso molto speciale di Mayotte…
Che tutto sia falsato nella “questione immigrazione” è evidente in questo paese che più di ogni altro in Europa ha fatto ricorso ai lavoratori immigrati. Se ci sono elettori del RN abbastanza ingenui da credere che, una volta al potere, “manderemo finalmente tutti gli immigrati nei loro paesi”, i dirigenti sanno che non sarà così. Semplice questione di economia politica: interi settori della ricchezza nazionale dipendono dallo sfruttamento della manodopera immigrata proveniente dalle ex colonie, a cominciare dall’agricoltura intensiva, dalla ristorazione, dall’edilizia e dai lavori pubblici, e più recentemente dall’assistenza agli anziani – per non parlare dei “lavoratori distaccati” provenienti dai paesi più poveri d’Europa, dal Portogallo fino alla Polonia. E sembra che più i francesi abbiano bisogno degli immigrati per accudire i loro anziani e svuotare i loro bidoni della spazzatura, più li detestino.
Ciò a cui mira il RN non è tanto mandare gli immigrati a casa loro quanto privarli di tutti i diritti sociali. In altre parole, la famosa “preferenza nazionale”, tema forgiato negli anni Ottanta dal Club de l’Horloge e diventato il motto del Front National, ha come fine la costituzione di un sottoproletariato usa e getta, sfruttabile a piacimento, privo di ogni protezione. Nel discorso dell’estrema destra non si tratta più davvero di difendere l’occupazione dei francesi, ma di riservare loro certi diritti sociali e di privarne gli altri. Il RN vuole in realtà generalizzare una sorta di apartheid sociale ed etnico. Ma quegli elettori del RN che sopravvivono con gli aiuti sociali farebbero bene a riflettere, poiché si tratterebbe anche di estendere un tale regime di eccezione ai francesi cosiddetti “assistiti”. Perché gli “immigrati” non sono gli unici a pagare il prezzo della demagogia politica, come testimoniano le ripetute misure prese dalla macronie con il sostegno della destra classica e dell’estrema destra contro i disoccupati e i titolari del Reddito di solidarietà attiva.
A ciò si aggiunga il fatto che un’altra parte della manodopera non qualificata e sottopagata è costituita da figli di immigrati nati in Francia e di nazionalità francese. Ed è questo l’altro obiettivo della rabbia che spinge tante persone a sostenere il discorso razzista e xenofobo. Perché nell’immaginario impoverito degli elettori-spettatori, gli assassini del Bataclan a Parigi e della Promenade des Anglais a Nizza si fondono e si confondono con i rivoltosi del 2005 e del 2023 per comporre la figura del nemico secondo il luogo comune “sono sempre gli arabi che creano problemi”. E ciò al diapason di una polizia in cui metà degli effettivi dichiara apertamente il voto per il RN e non esita a fare pressioni sul governo con manifestazioni faziose. In altre parole, a questi figli di immigrati coloniali vittime di violenze poliziesche sistematiche, non si dovrebbero solo togliere i diritti sociali, ma anche i diritti umani fondamentali, garantendo alla polizia il permesso di uccidere impunemente.
Un sentimento ampiamente alimentato dai media, alcuni dei quali hanno preso posizione per il RN durante questa campagna elettorale, a cominciare da CNews, dove lavora il ripugnante Cyril Hanouna. Altri media sono ancora più perversi, mettendo sullo stesso piano “i due estremismi”: incitare all’odio razziale e alla xenofobia sarebbe, in una visione del tutto macroniana, equiparabile alle richieste di una minima redistribuzione sociale. Il culmine è stato raggiunto quando il sostegno di France Insoumise alla popolazione di Gaza bombardata gli è valso l’accusa di antisemitismo, diventata da allora ricorrente nella sfera mediatico-politica. Così i dirigenti di un partito che ha contato tra i suoi fondatori un ex capitano delle SS e diversi terroristi dell’OAS e il cui capo storico considerava pubblicamente il genocidio degli ebrei da parte dei nazisti come “un dettaglio” – tali persone possono ora accusare impunemente la sinistra di antisemitismo…
Tutto si rigioca quindi alle presidenziali del 2027. La destra classica ne esce distrutta, una frazione di repubblicani essendo già passata armi e bagagli all’estrema destra – era da tempo che Éric Ciotti giocava sistematicamente al rialzo sui temi preferiti del RN… Il centro macroniano, sebbene sembri mantenere le sue posizioni, è comunque appeso a un filo – gran parte del suo elettorato, che vuole solo “né Le Pen né Mélenchon”, è infatti aleatorio. Sarà quindi al RN e alla LFI che spetterà distribuire le carte. Ma da qui ad allora è possibile che il ritorno della rivolta nelle strade possa sconvolgere la situazione: non mancano certo le ragioni. È comunque l’unica via di fuga che si offre a tutti coloro che vogliono uscire dalla foschia tossica che avvolge questo paese. (alèssi dell’umbria / traduzione di andrea bottalico)
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